WALL STREET

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org

In occasione del primo anniversario del tracollo della banca di investimenti Lehman Brothers, che diede l’avvio ufficiale della crisi economica tuttora in atto, il presidente Obama ha tenuto un discorso di fronte ai rappresentanti di Wall Street che è sembrato assumere a tratti i toni della supplica. Un appello quasi disperato ad un pubblico molto influente per consentire l’approvazione di una serie di regolamentazioni del settore finanziario, peraltro di portata del tutto trascurabile. Lo spettacolo di un presidente costretto a invocare gli stessi principali responsabili del tracollo dell’economia planetaria per sbloccare un provvedimento fermo in Senato dal mese di giugno è apparso tutt’altro che edificante. Così come i rimproveri e gli ammonimenti rivolti alla platea ben poco hanno potuto per contrastare la profonda influenza esercitata dall’élite finanziaria sulla Casa Bianca e sull’intero sistema politico americano.

L’avvertimento di Obama, che non saranno tollerati “ulteriori eccessi e comportamenti irresponsabili di quanti erano motivati esclusivamente dal loro appetito per bonus gonfiati”, deve essere suonato ironico ad una comunità di speculatori che ha ripreso le stesse identiche modalità d’azione che hanno condotto al caos finanziario ormai dodici mesi fa. L’uomo che Wall Street ha generosamente contribuito a far eleggere lo scorso mese di novembre, come il suo predecessore, ha promosso d’altra parte il colossale intervento governativo per salvare quelle istituzioni finanziarie finite sull’orlo del collasso, proteggendo la ricchezza dei loro manager e scaricando i debiti da loro accumulati sulle spalle dei contribuenti.

Per quanti discorsi siano stati sprecati sulla necessità di porre dei freni alle pratiche speculative di questi giganti finanziari, pressoché nulla è stato fatto finora da parte del governo o del Congresso. Anzi, le banche salvate dal denaro pubblico (“bailed out”) hanno fatto segnare nuovamente, almeno a partire dal mese di marzo, profitti da capogiro e i compensi riservati ai loro dirigenti hanno raggiunto cifre astronomiche. In un certo senso, addirittura, l’intervento governativo nell’ambito della finanza a stelle e strisce ha in qualche modo ingigantito il problema.

La sparizione di Lehman Brothers, ma anche di Merrill Lynch (assorbita da Bank of America), Bear Stearns (da JP Morgan), Wachovia (da Wells Fargo), Washington Mutual e altre ancora, ha consegnato infatti un maggiore controllo del mercato alle grandi banche rimaste in piedi grazie a miliardi di dollari del Tesoro e ad amicizie influenti alla Casa Bianca. La teoria del “too big to fail”, troppo grande per essere lasciata fallire, consente loro oltretutto di operare in tutta tranquillità e con la certezza del paracadute pubblico in caso di difficoltà future.

A mettere in guardia circa la situazione che si sta venendo a creare e per i possibili rischi a breve scadenza è stato, tra gli altri, anche il premio Nobel Joseph Stiglitz, stimato economista keynesiano ed ex consigliere del presidente Clinton. “Negli Stati Uniti e in molti altri paesi, le banche troppo grandi per essere lasciate fallire sono diventate addirittura più grandi dopo la crisi. I rischi perciò sono maggiori rispetto alla vigilia della crisi economica nel 2007”.

In molti hanno poi fatto notare quanto poco sia cambiato nell’industria finanziaria malgrado gli effetti negativi causati dalla crisi siano stati i più duri dagli anni Trenta. La massa enorme di debito delle banche in affanno e della quale si è fatto carico il governo americano, inoltre, minaccia di esporre ad un rischio di tracollo lo stesso sistema creditizio del paese, in caso di una nuova bolla speculativa nei prossimi anni.

La misura dei possibili effetti del richiamo di Obama, sempre nel suo discorso alla Federal Hall di New York, è facilmente riscontrabile in almeno un paio di resoconti pubblicati dai media americani begli ultimi giorni. Un analista londinese di JP Morgan Chase, nel corso di un’intervista al New York Times, ha dichiarato di “non conoscere una sola persona a Wall Street che si rechi al lavoro ogni mattina con in mente qualcosa di diverso dal modo in cui aumentare il proprio bonus personale a fine anno”. La testata on-line Politico.com ha invece dedicato un pezzo al nuovo CEO del gigante delle assicurazioni AIG, che ha ricevuto oltre 180 miliardi di dollari dal governo americano. Robert Benmosche, la cui gratifica per il 2009 toccherà i 9 milioni di dollari, avrebbe infatti acquistato una villa principesca sulla costa della Croazia, con “dodici bagni, tappeti italiani e arazzi francesi del 18esimo secolo”.

Ai cauti rimproveri rivolti ai geni della finanza di Wall Street, Obama ha alternato però anche un’appassionata rassicurazione riguardo alla sua fiducia nel mercato. “Ho sempre creduto fortemente nel potere del libero mercato”, ha affermato il presidente. “La creazione dei posti di lavoro non deve essere affidata al governo, bensì al mondo degli affari e a quegli imprenditori disposti ad assumersi i rischi per mettere in pratica una buona idea”. Tutto l’opposto insomma dell’operato di una classe parassitaria che ha reso necessario l’intervento pubblico per evitare una catastrofe ancora maggiore di quella dell’ultimo anno.

Obama ha inoltre descritto il suo piano di riforma del sistema finanziario come il “più ambizioso progetto dai tempi della Grande Depressione”. Un’affermazione lontana anni luce dalla realtà dei fatti, dal momento che la legge approvata dalla Camera dei Rappresentanti e in attesa del voto del Senato contiene ben poco delle riforme strutturali messe in atto da Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta.

Nessuna traccia vi è infatti della legislazione sul sistema bancario, smantellata a poco a poco negli ultimi tre decenni di rivoluzione liberista. Nulla che ricordi, ad esempio, le disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933, l’atto legislativo soppresso nel 1993 – con il Gramm-Leach-Bliley Act – e che proibiva, tra l’altro, ad un unico soggetto di agire contemporaneamente da banca commerciale, banca di investimento e compagnia di assicurazioni.

Uno dei punti centrali e più controversi della riforma riguarda la creazione di una nuova agenzia che dovrebbe garantire maggiore protezione gli investitori (Consumer Financial Protection Agency). Il nuovo ente, ben lungi dal disporre degli strumenti necessari per ottenere lo scopo previsto, si limiterebbe piuttosto a un controllo teorico del credito al consumo e avrebbe, in definitiva, lo stesso potere attualmente suddiviso tra svariate agenzie di regolamentazione. Come se non bastasse, anche in questa versione molto annacquata, l’agenzia in questione è fortemente ostacolata dalle banche d’investimento e dai loro lobbisti.

Lo stesso dicasi inoltre per la regolamentazione, a dir poco indulgente, del mercato dei derivati, per la proposta di assegnare alla Federal Reserve la facoltà di controllo dei mercati finanziari e per le nuove norme sul salvataggio delle istituzioni in difficoltà, estesa anche a soggetti diversi dalle banche. Il tutto, rigorosamente, senza alcun reale limite o restrizione alle rischiose attività finora intraprese dai maghi della finanza e che hanno determinato una crisi economica devastante.

Come sta accadendo per la riforma della sanità e per molti altri provvedimenti usciti dal Congresso, in definitiva, il prodotto della legislazione per stabilire nuove regole al sistema finanziario americano sarà inevitabilmente modellato dall’attività delle lobby dei giganti di Wall Street. A conferma di ciò, basti citare i numeri raccolti dagli organismi non governativi che monitorano gli esborsi delle grandi aziende a beneficio dei politici di Washington e le loro attività.

Oltre ad aver fornito un supporto economico fondamentale per l’elezione di molti politici di entrambi gli schieramenti, l’industria finanziaria, assie
me alle compagnie di assicurazioni e al settore immobiliare, ha già speso oltre 50 milioni di dollari in contributi elettorali nel solo anno in corso e si avvale dei servizi di una schiera di ben 2.300 lobbisti per curare i propri interessi al Congresso. In questa prospettiva, le ambizioni di riforma di Obama risultano irrimediabilmente compromesse ancor prima dell’approvazione di un testo definitivo.