Il luogo più stimolante del mondo

di La Jornada
da www.carta.org

Pubblichiamo dal quotidiano messicano La Jornada una conversazione tra Noam Chomsky e i giornalisti David Brooks, Hermann Bellinghausen e Luis Hernandez. Chomsky era in Messico per partecipare ai festeggiamenti per i 25 anni di vita del quotidiano La Jornada.

L’America latina è oggi il posto più interessante del mondo, dice Noam Chomsky. C’è una reale resistenza all’impero e non sono molte le regioni del mondo per le quali si possa dire la stessa cosa. Intervistato da La Jornada, uno degli intellettuali dissidenti più importanti del nostro tempo, rileva che la speranza di cambiamento annunciata da Barack Obama è un’illusione, poiché sono le istituzioni e non gli individui a determinare la rotta della politica. Al massimo, il presidente statunitense rappresenta una svolta dall’estrema destra verso il centro della politica tradizionale degli Usa.
In Messico per festeggiare i 25 anni di vita de La Jornada, l’autore di più di cento libri, linguista e analista del ruolo dei media nella «fabbrica» del consenso, spiega come la guerra alle droghe sia iniziata negli Usa come parte di un’offensiva conservatrice contro la rivoluzione culturale e l’opposizione all’invasione del Vietnam. Ecco le sue dichiarazioni.

«L’America latina è oggi il posto più stimolante del mondo. Per la prima volta in 500 anni ci sono movimento verso un’autentica indipendenza e separazione dal mondo imperiale. Paesi storicamente separati si stanno unendo. Questa integrazione è un prerequisito per l’indipendenza. Storicamente, gli Stati uniti hanno fatto cadere un governo dopo l’altro, oggi non possono più farlo.
Il Brasile è un esempio interessante. All’inizio degli anni sessanta, i programmi di Joao Goulart non erano molto diversi da quelli di Lula. In quel caso, il governo di John Kennedy organizzò un colpo di stato militare. Così, lo stato di sicurezza nazionale si è propagato in tutta la regione come una peste. Oggi invece Lula è il ragazzo buono, quello che viene sostenuto, in reazione ai governi più radicali nella regione. Negli Stati Uniti non si pubblicano i commenti di Lula a favore di Hugo Chavez o di Evo Morales. Li censurano perché non rientrano nel modello.

C’è un movimento verso l’unificazione regionale: si cominciano a formare istituzioni che, per quanto ancora non funzionino del tutto, cominciano comunque a esistere, come nel caso di Mercosur e Unasur.
Un altro caso notevole nella regione è quello della Bolivia. Dopo il referendum c’è stata una grande vittoria e anche una sollevazione piuttosto violenta nelle province della Mezza Luna [l’Oriente boliviano, ndr] dove sono concentrati i poteri tradizionali, bianchi. Un paio di dozzine di persone sono morte. C’è stata un vertice regionale a Santiago del Cile, nel quale è stato espresso appoggio a Morales a una ferma condanna per la violenza, e Morales ha risposto con una dichiarazione importante. Ha detto che era la prima volta nella storia dell’America latina, dai tempi della conquista europea, che i popoli avevano preso in mano il destino dei propri paesi, senza il controllo di un potere straniero, cioè di Washington. Questa dichiarazione non è stata diffusa negli Stati Uniti.
Il Centroamerica è ancora traumatizzato dal terrore degli anni di Reagan. Lì non succede granché. Gli Stati Uniti continuano a tollerare il golpe in Honduras, per quanto sia significativo il fatto che non possano appoggiarlo apertamente.

Un altro cambiamento, ancora non realizzato, è il superamento della vera patologia dell’America latina, probabilmente la regione più diseguale del mondo. E’ una regione molto ricca, da sempre governata da una piccola elite europeizzata, che non si assume alcuna responsabilità verso il resto degli abitanti dei propri paesi. Si può guardare a cose molto semplici, come il flusso internazionale di capitali e beni. In America latina la fuga dei capitali ha quasi lo stesso valore del debito. Il contrasto con l’Asia orientale è molto rivelatore. In quella regione, molto più povera, c’è stato un maggiore sviluppo economico reale, e i ricchi sono tenuti a freno. Non c’è fuga di capitali. In Corea del sud, per esempio, per una cose del genere è prevista la pena di morte. Lo sviluppo economico lì è relativamente ugualitario.
Ci sono state forme tradizionali di controllo degli Stati Uniti sull’America latina. Una era l’uso della violenza; l’altra lo strangolamento economico. Entrambi sono stati indeboliti.
I meccanismi di controllo economico sono oggi più deboli. Vari paesi si sono liberati del Fondo monetario internazionale attraverso la collaborazione. Inoltre, sono state rafforzate le relazioni sud-sud, come per esempio quelle tra il Brasile e il Sudafrica e la Cina. Alcuni problemi sono stati affrontati senza l’ingombrante presenza degli Stati Uniti.

La violenza non è finita. Ci sono stati tre colpi di stato negli anni trascorsi dall’inizio del secolo. Quello in Venezuela, apertamente appoggiato dagli Usa, è stato sconfitto e ora Washington deve far ricorso ad altri mezzi per sovvertire il governo, tra essi ci sono gli attacchi mediatici e l’appoggio ai gruppi dissidenti. Il secondo è stato ad Haiti, dove Usa e Francia hanno fatto cadere il governo e hanno spedito il presidente in Sudafrica. Il terzo è quello dell’Honduras, che è una faccenda mista. L’Organizzazione degli stati americani ha assunto una posizione ferma e la Casa bianca ha dovuto seguirla e procedere molto lentamente. Il Fmi ha appena finito di concedere un enorme prestito all’Honduras, che sostituisce la riduzione dell’aiuto economico statunitense. Nel passato queste erano faccende di routine.
Gli Stati Uniti stanno reagendo e hanno iniziato a ri-militarizzare la regione. La Quarta flotta, dedicata all’America latina, era stata smantellata negli anni cinquanta, ma adesso è in corso di ricostituzione, e assieme alla questione delle basi militari in Colombia, è un tema molto importante.

L’elezione di Barack Obama ha generato grandi aspettative in America latina, ma sono solo illusioni. C’è un cambiamento, è vero, ma solo perché il governo di Bush è stato così estremo, rispetto allo spettro politico statunitense, che chiunque si sarebbe mosso verso il centro. Di fatto, lo stesso Bush, nel suo secondo mandato è stato meno estremista. Si è disfatto di alcuni dei suoi collaboratori più arroganti e le sue politiche sono state più moderatamente centriste. E Obama, prevedibilmente, continua con questa tendenza e ha virato verso una posizione più tradizionale. Ma qual è questa tradizione? Kennedy, per esempio, è stato uno dei presidenti più violenti del dopoguerra. Woodrow Wilson è stato il maggior interventista del ventesimo secolo. Il centro non è pacifista né tollerante. Di fatto, Wilson è stato quello che si è impossessato del Venezuela, cacciando gli inglesi, perché lì era stato scoperto il petrolio. Ha appoggiato un dittatore brutale. E da lì si è proseguito con Haiti e con la Repubblica Dominicana. Ha mandato i marines e praticamente ha distrutto Haiti. In questi paesi ha lasciato guardie nazionali e dittatori brutali. Kennedy ha fatto lo stesso. Obama è un ritorno al centro.

La stessa cosa vale rispetto a Cuba, dove per più di mezzo secolo gli Usa si sono impegnati in una guerra, da quando l’isola ha guadagnato la propria indipendenza. All’inizio questa guerra è stata piuttosto violenta, specialmente con Kennedy, quando c’erano terrorismo e strangolamento economico, a cui la maggior parte della popolazione statunitense si oppone. Per decenni, due terzi della popolazione statunitense sono stati favorevoli alla normalizzazione delle relazioni con Cuba, ma questo tema non è nell’agenda politica.
Le manovre di Obama sono verso il centro; ha sospeso alcune delle misure più estreme del modello Bush ed è stato anche appoggiato da una buona fetta della comunità cubano-statunitense. Si è mosso un poco verso il centro, Obama, ma ha
chiarito che non ci saranno cambiamenti di fondo.

Lo stesso avviene in politica interna. I consiglieri di Obama durante la campagna elettorale sono stati molto attenti a evitare che si impegnasse per qualcosa. Gli slogan sono stati la «speranza» e il «cambiamento in cui credere». Qualsiasi agenzia di pubblicità sensata avrebbe dato lo stesso consiglio, dato che l’80 per cento dei cittadini pensava che il paese andasse nella direzione sbagliata. McCain diceva cose abbastanza simili, ma Obama è più piacevole, più facile da vendere come prodotto. Le campagne elettorali sono solo una questione di marketing. Stavano vendendo il «prodotto Obama» in opposizione al «prodotto McCain». E’ drammatico vedere quante illusioni cirolano, tanto dentro come fuori dagli Usa.

Negli Stati Uniti quasi tutte le promesse fatte nell’ambito della riforma del lavoro, della riforma della salute, dell’energia sono state quasi annullate. Per esempio, il sistema sanitario è una catastrofe. Gli Usa sono probabilmente l’unico paese del mondo dove non c’è una copertura sanitaria basilare per tutti. I costi sono astronomici, quasi il doppio di qualsiasi altro paese industrializzato. Qualsiasi persona di buon senso sa che si tratta della conseguenza del sistema santiario privato. Le imprese non forniscono salute, sono lì per avere profitti. E’ un sistema altamente burocratizzato, con enormi costi amministrativi, e con la possibilità per le compagnie private per evitare di pagare le polizze. Non c’è nulla nell’agenda di Obama per fare qualcosa in proposito. Ci sono state alcune proposte leggere, come per esempio quella dell’opzione pubblica, che però è stata annullata. La stampa economica, come per esempio Business Week, riferiva che le compagnie di assicurazione celebravano la propria vittoria.
Contro questa riforma sono state organizzate campagne molto efficazi, gestite dai media e dall’industria sanitaria per mobilitare settori estremisti della popolazione. Gli Usa sono un paese dove è facile mobilitare la gente con la paura, e fargli credere qualsiasi idea folle, come quella che Obama avrebbe ucciso la nonna di un qualsiasi cittadino. Così sono riusciti a bloccare proposte legislative di per sé già deboli. Se ci fosse stato un vero compromesso tra Congresso e Casa bianca, queste campagne non avrebbero potuto prosperare, invece i politici erano già più o meno d’accordo.

Obama ha appena chiuso un accordo segreto con le compagnie farmaceutiche per assicurargli che non ci sarà alcuna iniziativa governativa per regolare il prezzo delle medicine. Gli Stati Uniti sono l’unico paese del mondo occidentale che non permette al governo di usare il proprio potere per regolare il prezzo delle medicine. L’85 per cento della popolazione si oppone a questo fatto, ma questo non fa alcuna differenza, fino a quando tutti non si renderanno conto di non essere soli a opporsi. L’industria petrolifera ha già annunciato che userà la stessa tattica per bloccare qualsiasi progetto di riforma energetica. Se gli Usa non stabiliscono controlli efficaci sulle emissioni di CO2, il riscaldamento globale distruggerà la civiltà moderna. Il quotidiano finanziario Financial Times ha rilevato, a ragione, che si anche c’era stata una speranza per Obama di cambiare le cose, adesso sarebbe già una sorpresa se riuscisse a rispettare il minimo delle sue promesse. La ragione è che non voleva cambiare molto le cose. E’ una creatura di chi ha finanziato la sua campagna elettorale: le istituzioni finanziarie, quelle energetiche, le imprese. Ha l’aspetto di una brava persona, sarebbe un buon commensale per una cena, ma questo non basta per cambiare la politica. Sì c’è un cambiamento, ma molto più soft. La politica viene dalle istituzioni, non è fatta dagli individui. Le istituzioni sono molto stabili e molto potenti. E trovano il modo di affrontare quello che succede.
I mass media sono un po’ sorpresi per il fatto che si sta tornando dove si è sempre stati. Lo riferiscono, perché è difficile non farlo, però il fatto è che le istituzioni finanziarie vantano che tutto sta tornando come era prima. Hanno vinto. Goldman Sachs non cerca nemmeno di nascondere che dopo aver affondando l’economia, sta ora pagando succulenti premi ai suoi dirigenti. Mi pare che nello scorso trimestre abbia riportato i profitti più alti della sua storia. Se fossero stati un po’ più intelligenti, avrebbero cercato di nasconderlo.

Questo si deve al fatto che Obama sta rispondendo a chi ha finanziato la sua campagna: il settore finanziario. Guardate a chi ha scelto per il suo staff economico. Il suo primo consigliere è stato Robert Rubin, il responsabile dell’abrogazione di una legge che regolava il settore finanziario, e che ha beneficiato molto Goldman Sachs; poi è stato nel direttivo di Citigroup, ha fatto fortuna e ne è uscito appena in tempo. Larry Summers, che è stato il responsabile della regolamentazione di tutti gli strumenti finanziari esotici, è ora il principale consiglere economico della Casa bianca. E Timothy Geithner, che come presidente della Federal Reserve di New York supervisionava tutto quello che stava succedendo, è ministro del tesoro.
In un recente reportage sono stati esaminati alcuni dei principali consiglieri economici di Obama. La conclusione è che la maggior parte di loro non dovrebbe essere lì, ma di fronte a un tribunale, perché sono stati coinvolti nella gestione della contabilità e di altre faccende che hanno fatto scoppiare la crisi.

Per quanto tempo si possono alimentare le illusioni? Le banche oggi stanno meglio di prima. Prima hanno ricevuto un enorme aiuto dal foverno e dai contribuenti e lo hanno usato per rafforzarsi. Sono più grandi che mai, perché hanno assorbito i più deboli. Cioè, si stanno ponendo le basi per la prossima crisi. Le grandi banche stanno approfittando di una polizza di assicurazioine del governo, che si chiama «troppo grande per fallire». Se si tratta di una banca enorme o di un fondo di investimenti importante, diventa impossibile lasciarli fallire. Se si tratta di Goldman Sachs, o di Citigroup, non ci può essere fallimento, perché travolgerebbe tutta l’economia. Perciò possono fare operazioni finanziarie rischiose, se qualcosa va storto, il governo li aiuta.

La guerra contro la droga che sconvolge diversi paesi dell’America latina, tra cui il Messico, ha antecedenti lontani. Rivitalizzata da Nixon, è stata uno sforzo per superare gli effetti della guerra del Vietnam negli Usa. La guerra è stata un fatto che ha a portato a un’importante rivoluzione culturale negli anni sessanta, e che ha civilizzato il paese: diritti per le done, diritti civili. Cioè democratizzazione del territorio, e terrore per le elites. L’ultima cosa che le elite volevano era la democrazia, i diritti per il popolo, così hanno lanciato una enorme controffensiva, parte della quale era appunto la guerra alla droga. E’ stata concepita per trasformare l’idea della guerra del Vietnam da ciò che noi stavamo facendo ai vietnamiti a ciò che i vietnamiti stavano facendo a noi. Il grande tema, alla fine degli anni sessanta nei mass media, compresi quelli liberal, era che la guerra in Vietnam era una guerra contro gli Stati Uniti. I vietnamiti stavano distruggendo il nostro paese con la droga. Un mito fabbricato dai media e nei film. E’ stata inventata la storia di un esercito pieno di soldati drogati che tornando in patria diventavano delinquenti e terrorizzavano i cittadini. Sì certo c’era uso di droge tra i soldati, ma non molto diversamente da ciò che avveniva in altri settori della società. E’ stato un mito costruito. La guerra alla droga trattava di questo. Così è stata cambiata l’idea della guerra in Vietnam in una in cui noi eravamo le vittime. Questa campagna si è incassata perfettamente nello schema della legge e dell’ordine. Si diceva che le nostre città andavano in malora a causa del movimento contro la guerra e per colpa dei ribelli culturali, e che per questo bisognava imporre la legge e l’ordine. Lì è cambiata la gue
rra contro la droga.

Reagan la estese in modo significativo. Nei primi anni della sua amministrazione, la campagna venne intensificata, accusando i comunisti di promuovere il consumo di droghe. All’inizio degli anni ottanta, i funzionari che prendevano sul serio la guerra alla droga scoprirono un inspiegabile aumento dei fondi nelle banche del sud della Florida. Lanciarono una campagna per bloccarlo. La Casa Bianca intervenne e li fermò. A farlo fu George Bush padre, che in quegli anni era incaricato della guerra alla droga. Fu proprio allora che il tasso di carcerazione crebbe in modo importante, in gran parte con reclusi afroamericani. Oggi negli Usa il numero di reclusi in percentuale sulla popolazione è il più alto del mondo, e tuttavia il tasso di criminalità è uguale a quello degli altri paesi. E’ un controllo sulla popolazione, è una questione di classe.
La guerra contro le droghe, come altre politiche promosse tanto dai liberali quanto dai conservatori, è modo per tenere a freno la democratizzazione delle forze sociali. Qualche giorno fa, il dipartimento di stato di Obama ha emesso la sua certificazione per la cooperazione nella lotta alla droga. I tre paesi che sono stati privati del certificato sono Myanmar, una dittatura militare – non è rilevante, è appoggiata da imprese petrolifere occidentali – Venezuela e Bolivia, due paesi ostili agli Stati Uniti. Né il Messico, né la Colombia, né gli Usa sono stati privati del «certificato», nonostante siano paesi dove c’è narcotraffico.

Un elemento centrale del neoliberismo è la liberalizzazione dei mercati finanziari, che rende vulnerabili i paesi che hanno molti investitori stranieri. Se non si può controllare la propria moneta e la fuga dei capitali, ci si trova sotto il controllo degli investitori stranieri. Possono distruggere un’economia se non gli piace quello che fa un governo. E’ un’altra maniera per controllare i popoli e le forze sociali, come i movimenti operai. Sono reazioni naturali di una classe imprenditoriale con alta consapevolezza, altissima coscienza di classe. E’ chiaro che ci sono resistenze, però sono frammentate e poco organizzate, e per questo loro riescono a promuovere politiche che pure incontrano l’ostilità della maggioranza della popolazione. A volte si arriva al punto estremo. Il settore finanziario è uguale a prima; le compagnie di assicurazione hanno guadagnato con la riforma sanitaria; le imprese energetiche con quella energetica; i sindacati hanno perso con la riforma del lavoro e di certo i cittadini degli Stati uniti e del resto del mondo perdono, perché già di per sé la distruzione economica è grave. Se si distrugge l’ambiente, a soffrire saranno i poveri. I ricchi sopravviveranno al riscaldamento globale.

Per questo l’America latina è uno dei posti davvero interessanti. E’ uno dei luoghi dove c’è una vera resistenza a tutto questo. Fin dove arriverà? Non si sa. Non mi sorprenderebbe se ci fosse una svolta a destra nelle prossime elezioni di America del sud. Ma anche così sono state poste le basi per un avanzamento che può fondarne altri ulteriori. Non ci sono molti posti del mondo per i quali si possa dire la stessa cosa.