G20, i temi in agenda e i loro aspetti controversi

di Luca Manes
da Campagna per la riforma della Banca mondiale – CRBM

24 e 25 Settembre 2009. Per comprendere di osa si discute, e con quali ripercussioni reali, a Pittsburgh, occorre ripartire da quanto già discusso e “deciso” durante il G20 di Londra lo scorso aprile: quante risorse finanziarie erano state promesse; a che punto è la lotta ai paradisi fiscali e per una nuova regolamentazione finanziaria. Con questo articolo ripercorriamo le luci (poche) e le ombre (tante) della governance mondiale

Le risorse finanziarie promesse a Londra, luci (poche) e ombre (tante)

Lo scorso 2 aprile il vertice dei G20 tenutosi a Londra ha dato in pasto ai media una cifra di portata iperbolica: un trilione di dollari di fondi messi a disposizione per lenire gli impatti della crisi nei quattro angoli del pianeta. I leader riuniti nella capitale inglese non hanno tuttavia evidenziato come nella sostanza la quantità di “nuovi fondi” concessi sia molto ridotta e che il resto riguardi impegni già presi in passato. I 61 Paesi a basso reddito hanno ricevuto solo il 4,5 per cento del trilione, ovvero 50 miliardi, mentre tutto il resto è destinato al Nord ricco. Per la verità il 50 per cento di questo ammontare non è ancora stato elargito, mentre una buona parte del denaro trasferito è sotto forma di prestiti, con il rischio di aumentare il già consistente debito estero delle realtà più sfortunate del Pianeta.

L’istituzione più generosa con gli Stati a basso reddito è il Fondo monetario internazionale. Sono 21 i miliardi di dollari esigibili tramite gli special drawing rights (diritti speciali di prelievo), ai quali non sono attaccate condizionalità ma che prevedono tempi (e soprattutto interessi) ben specificati per la restituzione. Degli special drawing rights beneficiano tutti i Paesi, tanto che i 250 miliardi distribuiti in totale sono andati in buona parte a membri del G20. Risulta inoltre irrisorio l’utilizzo delle risorse per i Paesi più poveri che l’Fmi dovrebbe liberare dalla vendita di una parte delle proprie risorse auree. A fronte di un potenziale rientro fino a 10 miliardi di dollari, meno di uno andrà in prestiti agevolati agli Stati a basso reddito.

Val la pena notare che nessuno di questi Paesi è in alcun modo presente nel G20 e che le stime della Banca mondiale prevedono che nel solo 2009 la parte più povera del mondo si ritroverà a perdere risorse per un totale tra i 350 e i 635 miliardi di dollari. Basti pensare che la contrazione delle importantissime rimesse dei migranti si attesterà sul meno 7,5 per cento rispetto al 2008.
Non a caso entro la fine dell’anno nel mondo avremo altri 100 milioni di persone che vivranno con meno di un dollaro al giorno.
Per la società civile globale i fondi a disposizione dei Paesi del Sud del mondo devono quanto meno essere triplicati ed erogati sotto forma di doni, non prestiti. Inoltre sarebbe fondamentale istituire una moratoria di cinque anni sul debito estero, così che preziose risorse siano utilizzate per mettere un argine agli effetti della crisi. Queste azioni risulterebbero molto più incisive di nuovi impegni generici e “di propaganda” da parte dei governi del G20, tra cui le questioni dei finanziamenti per la lotta ai cambiamenti climatici e per una ennesima nuova iniziativa ad hoc per la sicurezza alimentare, che la Presidenza americana sembra intenzionata a sollevare a Pittsburgh nonostante specifici processi in ambito Nazioni Unite stiano negoziando le stesse questioni.

La lotta ai paradisi fiscali: solo timidi progressi

La lista nera dell’OCSE sui paradisi fiscali è attualmente vuota. Vuol dire che il problema è finalmente risolto? Sembrerebbe proprio di no. Non è sufficiente che le Cayman Islands, piuttosto che Jersey e la Svizzera abbiano sottoscritto un minimo di 12 accordi bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali con altri Paesi per ritenere che queste realtà stiano veramente cambiando pelle. Basta che i paradisi fiscali firmino intese tra loro per evitare la cattiva pubblicità della “black list”. Anche lo stesso G20 si è reso conto che non si può andare avanti di questo passo, sebbene continui a mantenere l’OCSE come l’entità faro per quanto concerne i tax havens. Il G20 delle Finanze dello scorso 4 e 5 settembre ha sottolineato il bisogno di approcci differenti e di un contesto multilaterale, riconoscendo che al momento i Paesi in via di sviluppo ricevono ben pochi benefici dalle misure prese per la lotta ai paradisi fiscali.

Tuttavia val la pena evidenziare che, nonostante tutte le promesse fatte e la retorica spesa al riguardo, i governi europei stanno continuando a fornire miliardi di euro a compagnie che sono registrate nei paradisi fiscali. I finanziamenti pubblici alle imprese che riescono ad evadere o eludere le tasse avviene tramite le agenzie di credito all’export (ACE) e le loro garanzie, prestiti e assicurazioni.
Nel comunicato finale del G20 di Londra, si chiedeva un accrescimento dei poteri delle ACE per rispondere alle sfide poste dalla crisi. Un briefing della rete ECAs Watch, di cui fa parte anche la CRBM, ha di recente portato alla ribalta una serie di casi nei quali la condotta delle ACE è quanto meno inopportuna. Le agenzie di credito all’export continuano a sostenere progetti come l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e le attività estrattive sull’isola russa di Sakhalin, nonostante i rispettivi consorzi costruttori siano registrati nelle isole Cayman il primo, nelle Bermuda il secondo. Per il Nigeria’s Liquid Gas (LNG) di Bonny Island, invece, i paradisi fiscali sono stati un utile mezzo per far passare i milioni di dollari impiegati per corrompere i pubblici ufficiali responsabili dell’aggiudicazione di ricchissime commesse.

In prima linea nel denunciare, la società civile è anche propositiva. Oltre a spingere per una normativa quadro a livello multilaterale che preveda lo scambio automatico di informazioni in materia fiscale tra tutte le giurisdizioni, si chiede che le compagnie multinazionali – tra le principali “clienti” dei paradisi fiscali – siano obbligate a pubblicare una rapporto annuale “Paese per Paese” in cui siano specificati profitti, spese e soprattutto oneri fiscali pagati, così da poter stabilire con maggiore certezza se sono state adottate pratiche per l’evasione o l’elusione fiscale.

Una nuova regolamentazione finanziaria?

Anche a proposito di una supposta nuova architettura finora ci si è mossi tanto nel mare magnum delle parole e poco in quello dei fatti. Cambiare il Financial Stability Forum (formato dai G8) in Financial Stability Board (composto dai G20) è stato uno dei pochi atti concreti – tra l’altro di scarso rilievo – compiuto nell’arco di tempo tra i due summit dei G20. I Paesi ricchi hanno poi fatto del tutto per far naufragare la conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi, tenutasi a New York a giugno. Le Nazioni Unite continuano ad essere guardate con diffidenza, nonostante il lavoro svolto sullo studio delle cause e delle possibili soluzioni all’attuale crisi.

Riguardo alla regolamentazione della finanza sfrenata, difficilmente emergeranno vere regole stringenti a livello internazionale. Eppure questo sarebbe l’unico modo per arginare il mercato unico globale dei capitali e dei servizi finanziari. Ci si limiterà invece a scampoli di regolamentazione a livello nazionale nei Paesi più influenti. Questo non ridurrà il rischio di arbitraggio degli investitori tra le diverse regolamentazioni.
Si aggiunga ad oggi che ben poco è stato deciso riguardo a nuovi standard e regole per il sistema bancario, nonché per i fondi altamente speculativi, quali gli hedge funds e i private equity funds. Il tutto a causa delle le resistenze della City di Londra e di Wall Street.

Anche il mercato dei prodotti derivati finora non prevede limiti, ma solo una possibile maggiore trasparenza. Unicamente il tema dell’imposizione di un tetto ai bonus dei super manager della finanza continua a dominare il dibattit
o, pur se rimane un aspetto marginale dell’intera riforma necessaria per il sistema finanziario internazionale.

La società civile internazionale e la CRBM hanno accolto con favore il chiaro posizionamento dei governi tedesco e francese a favore di una introduzione di una tassa sulle transazioni monetarie e finanziarie internazionali, nonostante l’opposizione netta della Presidenza americana del G20 a discutere la questione. Soltanto con una tassa quale la Tobin tax si potrà iniziare davvero a mettere un freno ai mercati finanziari senza regole che hanno portato l’economia globale sull’orlo del baratro.

In questo contesto si nota l’assenza del ministro Tremonti, sempre molto attivo nel partecipare al dibattito internazionale sulla regolamentazione finanziaria, sulla questione della tassazione. L’iniziativa italiana per la definizione di standard globali legali sulla finanza è stata progressivamente “scaricata” dal governo tedesco, promotore di una carta per la sostenibilità economica, e non ha trovato sponde nell’ambito del G20, nonostante il tema fosse stato dibattuto a Lecce al G8 Finanze lo scorso giugno scorso.

La democratizzazione delle IFI

Il G20 di Londra si è anche impegnato per un riforma del sistema di governo delle istituzioni finanziarie internazionali – Fmi e Banca mondiale – al fine di dare maggiore voce e rappresentanza nei consigli direttivi di queste entità alle economie emergenti e gli altri Paesi in via di sviluppo. Attualmente il G8 e pochi altri Stati ricchi controllano la maggioranza dei voti. Ad oggi solamente timidi passi avanti sono avvenuti in questa direzione nell’ambito del negoziato, e non necessariamente a vantaggio dai Paesi più poveri. I paesi europei che risultano sovra-rappresentati – un terzo dei voti totali e 8 dei 24 direttori nei board delle istituzioni – sono il principale ostacolo ad una riforma maggiormente democratica.
La società civile internazionale chiede come primo passo l’introduzione di una doppia maggioranza – una economica e una politica – su diversi meccanismi decisionali per dare maggiore voce anche ai Paesi più poveri, ed una riformulazione delle quote secondo principi non meramente economici. Infine chiede che i governi europei procedano ad un consolidamento della loro rappresentanza in un numero minore di direttori e l’istituzione di una unica constituency da subito quanto meno per l’area Euro.