Il lavoro femminile era già in crisi prima della crisi

di Irma Marano
da www.womenews.net

Donne e lavoro non sono più termini che si contraddicono, ma rappresentano un binomio sempre più reale e radicato nella società. È indispensabile, tuttavia, comprendere le difficoltà che incontrano le donne nel mondo del lavoro, considerare come viene vissuta quella che ormai è diventata la caratteristica-ostacolo principale di una donna che lavora o cerca di lavorare: la maternità e la cura dei figli.

Il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 con lo scopo di fare dell’Unione europea l’economia più competitiva del mondo e di pervenire alla piena occupazione entro il 2010, indicava tra gli obiettivi urgenti da conseguire, per quella data, un tasso di occupazione femminile pari al 60%, con obiettivo intermedio per il 2005 del 57%.

Nel 2006, a fronte di media europea che vedeva un tasso di occupazione femminile pari al 54,7%, l’Italia si attestava intorno al 46,3% (tasso di occupazione femminile confermato, anche, dal 46,5% del IV trimestre 2007).
Valori nettamente inferiori rispetto agli obiettivi fissati dalla strategie di Lisbona e che inficiano negativamente anche sul tasso di occupazione complessivo nazionale.

E tutto ciò avveniva prima della grande crisi economica e finanziaria dell’anno scorso. A leggere oggi gli obiettivi di Lisbona sembrano chimere fantascientifiche.
Anzi un biglietto di sola andata per Utopia, l’isola-regno di Thomas More. Della serie: C’era una volta… un obiettivo che oggi non c’è più e forse non è mai stato conseguibile.

Secondo i dati Istat, il tasso di occupazione femminile italiano era ed è tra i peggiori in Europea, solo Malta, con un tasso del 34,9%, sembra messa peggio di noi.

Se si analizza la situazione a livello territoriale le problematiche diventano ancora più acute: se nel Nord-Est il tasso storico di occupazione femminile si attesta intorno al 57%, nel Mezzogiorno è del 31,1%. Allarmati sono anche i valori del tasso di inattività femminile, ossia del tasso di donne inattive nel mondo del lavoro tra i 15 ed i 64 anni, che in Italia è del 48,6%, contro il 25,4% maschile (complessivo 37%); con una situazione disomogenea territorialmente, infatti, se al Nord l’inattività femminile è al 39,6%, al Centro al 44%, nel Mezzogiorno si impenna al 62,3% (Istat, IV trimestre 2007).

Ciò significa che molte donne, anche giovani, hanno smesso di cercare lavoro già prima della crisi. Quasi 10 milioni di donne in età lavorativa si sono ritirate dal mercato del lavoro, il doppio rispetto ai colleghi uomini. Questo soprattutto a causa di impegni familiari.

Una donna su 9 nel 2006 è uscita dal mercato del lavoro in seguito alla maternità; in due terzi dei casi la ragione è costituita dalle necessità correlate alla cura dei figli, in un terzo dei casi da motivazioni legate alla tipologia del contratto di lavoro. La nascita di un figlio si configura, ancora per numerose donne, come la principale causa di abbandono temporaneo o definitivo del mercato del lavoro.

Ci vorrebbe maggiore flessibilità, ma anche la tanto decantata flessibilità in effetti si è dimostrata un’arma a doppio taglio per le lavoratrici.
Fra le diverse tipologie di contatti già da lungo tempo è stato introdotto il contratto part-time. Tra le motivazioni iniziali fu addotta anche la volontà di essere più vicini alle esigenze delle donne, perché questa tipologia contrattuale avrebbe permesso alle donne di conciliare meglio famiglia e lavoro, ma col tempo però questa formula contrattualistica si è rivelata quasi una “forma di ghettizzazione” per il sesso femminile.

Non a caso i lavoratori part-time sono per oltre l’80% donne, costrette a questa scelta, sacrificando le prospettive di carriera e il livello retributivo, e se per i lavoratori-uomini si tratta più che altro di un periodo di transizione, di un’esperienza lavorativa per accedere al mondo del lavoro, per le donne rappresenta la soluzione lavorativa più diffusa, a volte anche contro la propria volontà e aspirazioni.

Inoltre, il sistema di welfare non sembra adeguarsi – oggi come ieri – alle esigenze femminile. Gli asili infantili sono in numero non sufficiente ad accogliere le richieste che cada anno giungono; per gli asili nido vale il medesimo discorso, in più, si tratta principalmente di strutture private, almeno nel Mezzogiorno.

Un discorso simile può essere fatto per gli anziani, che privi di sopporti ad hoc, sono spesso abbandonati alle cure delle sole famiglie di appartenenza, questo inevitabilmente si traduce in un ulteriore carico di lavoro domestico per le donne, le quali – almeno in Italia – sono quasi prive di aiuto da parte dei loro compagni.

Il sistema di welfare vigente, privo di “supporto esterno” per le famiglie, è ormai entrato in profonda crisi e rischia il collasso, specie col progressivo invecchiamento della popolazione e con l’incremento del lavoro femminile. Non è un caso se il nostro Paese si distingue per il basso tasso di natalità. Il numero di figli per donna è solo 1,34.

Il quadro generale, con lo scarso utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri, conferma la resistenza culturale verso il superamento di una divisione di ruoli rigidamente dicotomica, ma va spiegato anche tenendo conto dello svantaggio economico per la coppia derivante dal fatto di rinunciare al 70% del salario più elevato, costituito, appunto, generalmente, da quello maschile.

Diversamente, nei paesi scandinavi, dove si ha diritto al 100% dello stipendio durante tutto il primo anno di congedo, la percentuale di padri che fa uso dello strumento è aumentata.
Secondo innumerevoli analisti, l’Italia, dove la presenza femminile nel mercato del lavoro è storicamente bassa, beneficerebbe in modo significativo dell’incremento dell’occupazione femminile, con un aumento del Pil.

È ormai condivisa la convinzione della correlazione tra fattori come il tasso di natalità e la condivisione del lavoro di cura tra uomini e donne, il carico di lavoro domestico per le donne, la presenza adeguata di servizi, l’utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri. La maternità dovrà però cessare di essere considerata un evento privato cui non viene riconosciuto un valore sociale.

Il contrastare le discriminazioni subite dalle donne nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro, la rimozione del gender pay gap, l’eliminazione degli elementi strutturali, sociali e culturali che ostacolano la conciliazione tra vita privata e professionale non rappresentano soltanto presupposti etici ma anche premesse indispensabili alla crescita economica.

La crescente “femminilizzazione” del mondo del lavoro ha portato ad una trasformazione lenta ma inesorabile dell’intero sistema lavorativo ed organizzativo, e di conseguenza sociale.

Donne e lavoro non sono più termini che si contraddicono, ma rappresentano un binomio sempre più reale e radicato nella società.
È indispensabile, tuttavia, comprendere le difficoltà che incontrano le donne nel mondo del lavoro, considerare come viene vissuta quella che ormai è diventata la caratteristica-ostacolo principale di una donna che lavora o cerca di lavorare: la maternità e la cura dei figli.

È attorno a questo suo ruolo specifico, infatti, che si incardinano tutta una serie di necessità e bisogni non sempre riconosciuti. Se da un lato è vero che le donne italiane hanno una legge di tutela della maternità tra le migliori in Europa (legge 1204 del 1971), non si può dall’altro dimenticare come i datori di lavoro considerino la maternità con una sempre più diffusa e sottile ostilità.

A conferma di ciò basta riflettere sull’altissima percentuale di occupate tra le donne senza figli. La maternità appare spesso come un ostacolo alla carriera, alla produttività, all’operosità, in altre parole un “problema privato” che poco ha a che vedere con la collettività ed il sociale.

Ma non è così, sia per ragioni sociali:
il tanto decantato tasso demografico, inesorabilmente in calo da anni; sia per ragioni economiche: un solo stipendio non è sufficiente a sostenere le necessità economiche delle famiglie, e tutto ciò grava sulla ripresa economica; sia per ragioni occupazionali: è ormai dimostrato che per ogni cento donne che lavorano si creano tre posti di lavoro in più a causa del sorgere di nuove necessità.