Il cambiamento in cui possiamo credere

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

In politica estera, in politica economica, in politica di disarmo nucleare, in politica ambientalista, il cambiamento promesso è iniziato: non si realizzerà in un mese, né in un anno, ma la strada intrapresa dalla nuova presidenza americana è quella giusta

Dopo le amarezze sul fronte interno, caratterizzato da polemiche sempre più roventi (e sguaiate) sulla sua riforma sanitaria, Barack Obama deve avere provato un senso di sollievo nella sua tre giorni internazionale tra New York e Pittsburgh.
Ovunque è stato accolto con grande calore e rispetto unanime. Hanno giocato molti fattori: certamente la sua presenza, assertiva e modesta allo stesso tempo, la sicurezza non arrogante, l’attenzione riservata a ciascun interlocutore. Hanno naturalmente pesato i mesi trascorsi dall’inizio della sua presidenza, i molti segnali inviati alla comunità internazionale, attraverso incontri, dichiarazioni televisive, discorsi, che il clima è cambiato e che gli Stati Uniti intendono voltare pagina rispetto alla politica arrogantemente militarista che nel passato decennio ha diviso gli alleati e reso più facile il lavoro degli avversari.

La prima prova del cambiamento è stata il discorso di Obama all’assemblea generale delle Nazioni Unite del 23 settembre, interrotto da frequenti applausi (soprattutto quando a riaffermato l’inaccettabilità degli insediamenti israeliani nel Territori occupati). Un discorso di alta politica internazionale in cui il presidente americano ha chiuso definitivamente la stagione dell’unipolarismo, inaugurata 18 anni fa dal teorico neoconservatore Charles Krauthammer e realizzata nei lunghi anni di Presidenza Bush. Gli Stati Uniti si presentano ora al modo come uno stato tra gli stati, consapevoli della loro forza e dei loro valori, ma senza più la pretesa di imporli al resto del mondo. Consapevoli anche dei limiti di questa forza: i problemi che affliggono il pianeta — proliferazione nucleare, ambiente, sottosviluppo, malattie, terrorismo — sono di tale portata che nessun paese da solo può affrontarli, tanto meno risolverli. Per questo Obama ha chiesto uno sforzo comune, collaborativo, di tutti gli stati.
E’ anche nella sostanza il rilancio del ruolo delle Nazioni Unite, che la passata amministrazione ha sempre sminuito (un ambasciatore americano, John Bolton, sostenne una volta che l’unica riforma delle Nazioni Unite era di demolire gli ultimi piani del Palazzo di vetro, quello dove ha sede il segretario generale). Obama ha ribadito di non essere un “ingenuo”, di essere consapevole delle difficoltà, ma il dialogo con tutti, la ricerca paziente degli accordi, è l’unica strada per andare avanti verso la pace e la sicurezza. Intanto gli Stati Uniti hanno incominciato a fare la loro parte, anche da un punto di vista pratico: stanno pagando l’enorme debito arretrato di contributi dovuti alle Nazioni Unite, hanno deciso di entrare a far parte del nuovo Consiglio per i diritti umani (l’amministrazione Bush si era rifiutata), hanno aderito ad una serie di convenzioni che erano rimaste nel cassetto per tutti questi anni.

La seconda prova del cambiamento c’è stata nella riunione del giorno dopo del Consiglio di sicurezza, cui per la prima volta nella storia di questo organismo ha partecipato lo stesso Obama, assieme ai leader degli altri cinque membri permanenti. Il tema voluto dal presidente americano era quello del disarmo nucleare, un processo iniziato con la firma del trattato di non proliferazione nell’ormai lontano 1968, che è stato violato da vari paesi che ne facevano inizialmente parte, ma che soprattutto non è stato mai attuato nella sua parte che prevede lo smantellamento di “tutti” gli ordigni nucleari. Negli anni ’80 gli accordi tra Reagan e Gorbachov li hanno ridotti, ma negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino la dura politica unilateralista dettata dai neoconservatori aveva impedito ulteriori accordi. A dicembre scadrà l’ultimo di questi accordi e Russia e Stati Uniti si sono impegnati a rinnovarlo con ulteriori riduzioni degli armamenti nucleari.
Ma la risoluzione presentata da Obama e approvata all’unanimità da tutti e 15 i paesi membri affronta anche il problema della proliferazione (pensando all’Iran e alla Corea del Nord, ma senza menzionarli per non provocare la suscettibilità della Cina): anche in questo caso ci vorrà uno sforzo concertato di tutti i paesi per dissuadere i paesi che vogliono dotarsi di armi nucleari e quelli che già ne dispongono a liberarsene, garantendo al contempo la loro sicurezza. La risoluzione è un impegno solenne della comunità internazionale, che di per sé non produce alcun effetto, ma apre la strada ai negoziati. In ogni caso, con il suo appello alla legalità internazionale Obama sembra escludere dal tavolo delle future trattative l’uso della forza. E questo è già un passo avanti.

La terza prova si è avuta a Pittsburgh, dove si sono riuniti, come al vertice di Londra a primavera, i paesi del G20. Lasciamo da parte le stucchevoli pretese del presidente del consiglio italiano, presidente di turno del G8, sul “fondamentale” ruolo da lui svolto nella riunione dell’Aquila. Il fatto è che, secondo molti osservatori, il G8 non ha più ragion d’essere in una economia-mondo dove nessuna decisione può essere presa senza tenere conto del peso, non solo delle maggiori economie del momento, ma di quelle emergenti (Brasile, Cina, India…). La formula del G20 di Londra e poi di Pittsburgh è precisamente questo.
La città di Pittsburgh è stata il miglior biglietto da visita di Obama per ribadire l’importanza di una politica energetica che tuteli l’ambiente e faccia ricorso alle fonti alternative. Pittsburgh, in passato la città industriale più inquinata d’America, negli ultimi 20 anni è diventata la vetrina dell’ambientalismo e delle energie rinnovabili, facendo scomparire la cappa di smog che l’aveva coperta dalla fine dell’Ottocento.

Soluzioni definitive non ne sono state trovate. La crisi, ammesso che stia finendo, è ancora troppo recente perché i singoli paesi invertano le politiche di sostegno alle rispettive economie e sistemi finanziari e, soprattutto, all’occupazione. Non sarà facile navigare tra gli impegni al libero commercio e le restrizioni tariffarie che scoraggiano le importazioni dei prodotti che danneggiano determinati settori di un’economia. I pericoli di protezionismo per difendere l’occupazione nazionale sono quindi molto concreti (proprio recentemente l’amministrazione americana ha elevato al 30 per cento i dazi sulle gomme e i tubi di acciaio provenienti dalla Cina). Tuttavia, dal G20 di Pittsburgh, come già da quello di Londra, è venuto l’impegno ha rimettere in sesto il sistema finanziario internazionale chiudendo i paradisi fiscali e disincentivando, anche con interventi sui compensi dei manager, le operazioni più spericolate.
In politica estera, in politica economica, in politica di disarmo nucleare, in politica ambientalista, il cambiamento promesso è iniziato: non si realizzerà in un mese, né in un anno, ma la strada intrapresa dalla nuova presidenza americana è quella giusta.