Di fiction si muore, in Afghanistan

di Pierfranco Pellizzetti
da il Secolo XIX, 29 settembre 2009

Sebbene il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si affretti a dichiarare che «non c’è nulla da rivedere nella missione italiana in Afghanistan» e quindi «manterremo tutti i nostri impegni», la tragedia racchiusa nelle sei bare dei paracadutisti della Folgore parla di “morti rubate”. Un giovane che muore è sempre un’assurdità. A maggior ragione quando non se ne capisce bene il perché.

In effetti, tutta la vicenda afgana appare un dramma dell’assurdo, già nel voler contrastare militarmente il terrorismo. Quando un esercito schierato ha un qualche senso (ammesso lo abbia) solo se fronteggia un altro esercito contrapposto. Mentre, nel caso afgano, in campo non c’è un soggetto, bensì una tattica: la vera e inafferrabile essenza del terrorismo.
Varrebbe la pena di riflettere sul perché e il come gli occidentali siano finiti impaniati tra le sabbie irachene e le giogaie afgane, perseguendo strategie tanto retoriche quanto astratte. Diretta conseguenza dell’inarrestabile fuga dal reale che affligge da decenni le nostre società; inducendo comportamenti puramente dimostrativi quali inevitabili conseguenze di percezioni alterate. Insomma, siamo imprigionati in un immaginario che ci estrania pericolosamente dal mondo della vita e dalla sua tangibilità. Una condizione virtuale che – tuttavia – può ammazzare per davvero.

C’è stato l’attentato dell’11 settembre, con i suoi morti e le sue distruzioni materiali. La risposta è diventata un qualcosa che assomiglia alla trama da film western, con gli sceriffi che danno la caccia ai cattivi: la rappresentazione di fantasia che ha precipitato un po’ tutti nella fiction più inverosimile. Da cui ci risvegliamo solo quando ci scappano i cadaveri, nella loro dolente tangibilità; quando sentiamo sulla pelle le frustate dei fallimenti che smentiscono bollettini di guerra sempre più simili al lieto fine delle peggiori sceneggiature.

Uno scollegamento dal reale che trova significative coincidenze con l’inarrestabile imporsi delle immagini quale prima sorgente di informazione rispetto alla parola, la vecchia regina ormai largamente spodestata. Per secoli ci siamo fatti un’idea su quello che stava accadendo – vicino o lontano che fosse – attraverso la lettura delle notizie. Una pratica attiva e volontaria che induceva spirito critico; in qualche misura favoriva il pluralismo, dal momento che la stampa rifiuta le derive monopolistiche.

Oggi la civiltà delle immagini ci ha resi largamente passivi, anche perché penetra a flusso incontrollato nei nostri ambienti domestici e nei nostri cervelli proprio quando siamo più indifesi. Quando la vigilanza è ai minimi termini e stenta a percepire che tutto quanto si fissa sulle nostre retine è una ricostruzione sceneggiata del reale; difficilmente sottoponibile a verifiche e controprove.

Ricostruzione in base a ragioni dipendenti da giudizi (o da pregiudizi) che nulla hanno a che vedere con criteri informativi: gli interessi dei controllori del medium, degli inserzionisti pubblicitari che investono su tale medium.
Nasce così una rappresentazione edulcorata dell’esistente che sfugge alla vigilanza del fruitore mentre ne attesta e certifica la (apparente) veridicità.

Del resto, se un tempo potevamo informarci acquisendo più fonti nel vasto ventaglio dell’offerta giornalistica, ora ci troviamo nell’impossibilità di farlo; a fronte dei ciclopici processi di concentrazione dell’informazione-immagine.

Nel generale cortocircuito, i primi afferrati dalla spirale che trascina in un mondo immaginario sono proprio coloro che dovrebbero governare il mondo reale. Specie quando sull’immagine hanno poggiato i pilastri del proprio potere: Bush Jr. credeva sul serio di fondare una liberaldemocrazia in Medio Oriente prestando fede ai serial consolatori, Berlusconi è sicuro di essere meglio di De Gasperi avendo visto qualche sceneggiato TV, Napolitano parla di Afganistan come se fosse un film sul D-day.

Noi stessi veniamo indotti a ritenere di vivere nel migliore dei mondi possibili.