STEFANO ALLEVI E IL VELO

di Ileana Montini
da www.italialaica.it

Sul sito “Islam on line” del 28 settembre è uscito un articolo del sociologo Stefano Allevi specializzato nelle problematiche dell’immigrazione con il titolo “Il velo? Il problema è in chi lo guarda!”; ripreso pari pari da “il mattino di Padova”. Ebbene, il sociologo, giustamente, difende il diritto delle donne musulmane a coprirsi il capo, ma l’argomentazione che usa lascia perplessi. Il velo un “simbolo di oppressione della donna”? Le donne musulmane lo portano come le suore cattoliche in quanto “simbolo di sottomissione, sì, ma a Dio”. Sembra che Allevi non conosca il travaglio della Chiesa Conciliare, e delle suore in particolare che in quanto donne negli anni del movimento femminista con i loro ordini e congregazioni hanno dato un importante contributo al rinnovamento a cominciare dallo svecchiamento del loro abbigliamento tradizionale. Non sono poche le istituzioni religiose dove le suore non si velano e usano gli abiti comuni a tutte le altre. Che dire poi della caduta in disuso del velo in chiesa che il Codice di Diritto Canonico del 1917 imponeva.

Comunque, Sharief Abdel Azeem (in LIUDA.it con il titolo “Le Donne nell’Islam e le Donne nella Tradizione Giudeo-Cristiana “) spiega che l’Islam non ha inventato il copricapo, pur tuttavia lo ha approvato. Ma, diversamente dalla tradizione cristiana “non è un segno dell’autorità dell’uomo sulla donna, né è segno di sottomissione della donna (al marito). (…)Il velo islamico è soltanto un segno di pudore allo scopo di proteggere le donne, tutte le donne. La filosofia islamica è che è sempre meglio essere sicuri che dispiaciuti . Infatti, il Corano è interessato alla protezione dei corpi delle donne,….”. Il Corano “è piuttosto chiaro sul fatto che il velo è essenziale per il pudore, (…) il pudore si prescrive per proteggere le donne dalle molestie o semplicemente, il pudore è protezione.”. Le donne, come dire, non sono in grado di proteggersi da sole, perché eterne minorenni.

Nel sito “messainlatino.it (21 giugno 2009) per il rinnovamento liturgico della Chiesa, nel solco della Tradizione”, per la difesa del capo coperto in chiesa, si tira in ballo S.Paolo ribadendo la posizione contraria alla storicizzazione (o contestualizzazione) dei testi rivelati (come avviene d’altronde nel fondamentalismo islamico), a favore di una presunta natura immutabile (uguale a ruoli sessuali tradizionali).

Si cita San Paolo nella lettera ai Corinzi (11.3):”Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. (…) L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli.”. E se non bastasse S. Paolo arriva la spiegazione in dettaglio per il capo coperto delle donne (in Chiesa). “Un segno della sottomissione a Dio. Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (I Cor.11,10).” .

“Il ruolo della donna e del suo corpo -scrive la filosofa politica di Yale Seyla Benhabib (ResetDoc, “la donna velata e l’Islam politico globale” 7.4.09)- è il focus di possibili conflitti in Europa.”. Nel contesto migratorio dove le culture configgono “vi è sempre l’esigenza di preservare i confini della propria cultura. Il fardello di preservare l’identità del gruppo ricade quasi sempre sulla sfera privata per l’immigrato, in quanto presumiamo che il resto, ovvero la sfera dell’economia pubblica e la forma dello stato siano cose che condividiamo. In queste circostanze il controllo sul corpo delle donne ha una funzione strategica.”.

E sempre la questione dell’identità (che nella migrazione diventa eccesso d’identità collettiva) ha a che fare con il problema del genere, ovvero dei confini tra uomo e donna. I simboli visivi (di cui l’abbigliamento fa parte) diventano indicatori per interpretare l’identità.

Ma forse c’è anche altro se di nuovo i movimenti tradizionalisti delle chiese cristiane, soprattutto la Chiesa Cattolica di Papa Ratzinger, focalizzano l’attenzione sui corpi delle donne (dagli anticoncezionali, alla Ru484, alla fecondazione artificiale ecc.): i processi di globalizzazione rendono evanescenti i contorni identitari collettivi sgretolando antiche consolidate certezze come quella della presunta naturale superiorità maschile. La “sottomissione a Dio” in bocca a un uomo colto e per giunta sociologo, suona dunque decisamente male: sottomissione a quale Dio? Al dio monoteista che assomiglia tanto al padre-padrone della comunità patriarcale. Quello che pretende la salvaguardia del pudore delle donne come garanzia -e simbolo- della sua sovranità. All’opposto (speculare) le veline, ovvero i corpi femminili furiosamente esposti al desiderio maschile (per ottenere in cambio una parvenza di esistenza pubblica) dovrebbero far argine alla fragilità maschile interiore nell’epoca della modernità liquida (Bauman) confermando il ruolo, comunque, di sottomissione al dio-uomo.