Birmania, la svolta degli Usa

di Alessandro Ursic
da www.peacereporter.net

Washington ufficializza un cambiamento già intravisto: le sanzioni al regime continuano, ma l’amministrazione Obama intende dialogare con la giunta militare
Il cambiamento era nell’aria. A Washington lo facevano capire da mesi, che stavano cercando un approccio diverso. E a Naypyidaw, pur senza annunciarlo, anche la giunta militare lanciava segnali di volersi smarcare dal controllo cinese. Ora è ufficiale: gli Usa hanno una nuova politica verso la Birmania. Le sanzioni rimangono in piedi, ma con i generali si dialoga. E dagli arresti domiciliari, cercando di porre le sue condizioni, Aung San Suu Kyi approva e si dice pronta a collaborare, se può servire al Paese.

Gli Usa hanno applicato sanzioni economiche contro la Birmania dalla sanguinosa repressione del movimento per la democrazia nel 1988, rinnovandole lo scorso maggio. Ma già in febbraio il segretario di Stato Hillary Clinton aveva dichiarato che l’attuale politica aveva perso – se mai l’aveva avuta – la sua efficacia. Le trattative per la liberazione di John Yettaw, l’americano che con la sua nuotata fino a casa Suu Kyi ha fornito alla giunta il pretesto per estendere la prigionia domestica della leader dell’opposizione, avevano già portato a colloqui tra il senatore Jim Webb e il generalissimo Than Shwe. E la Clinton aveva prospettato investimenti americani in Birmania in caso di liberazione di Suu Kyi.

Questa settimana, la svolta di Washington è stata ufficializzata. “Per la prima volta, le autorità birmane hanno mostrato un interesse nel trattare con gli Stati Uniti, e noi intendiamo soddisfare quell’interesse”, ha detto l’assistente del segretario di Stato per l’Asia, Kurt Campbell. Dove potrà portare il dialogo, non lo sa ancora nessuno. Ma è chiaro che i risultati del nuovo atteggiamento saranno valutati in base all’organizzazione delle elezioni del prossimo anno. La Clinton ha esortato i movimenti d’opposizione e le decine di gruppi (con relative milizie) etnici a un “approccio misurato finché non riusciamo ad appurare le condizioni del voto”. E’ “politichese”, ma il senso è chiaro: gli Usa continuano a chiedere la liberazione di Suu Kyi e dei circa 2.000 prigionieri politici, e non hanno ancora una risposta pronta nel caso la giunta – come si aspettano molti analisti – intenda tirare dritto, usando la facciata del voto per consolidare il suo potere.

I gruppi d’opposizione – a partire dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Suu Kyi – non hanno ancora deciso se partecipare al voto o boicottarlo. Tutto è ancora troppo fumoso, in stallo. I gruppi etnici sono anch’essi divisi: il regime pretende il disarmo delle milizie, integrandole come guardie di confine. Gli scontri di fine agosto contro i ribelli Kokang, che hanno spinto decine di migliaia di profughi in Cina, rientravano proprio in questo quadro. Le milizie meno potenti sono inclini ad accettare, ma quelle più organizzate al momento non sembrano inclinate a cedere e nuove violenze da qui alle elezioni non sono da escludere.

Ma intanto, parallelamente alla svolta di Washington, anche Suu Kyi sembra aver ripensato il suo approccio. Il premio Nobel per la Pace, che ha passato 14 degli ultimi 20 anni sotto qualche forma di arresto, finora aveva sempre rifiutato di dialogare con la giunta, in passato invitando anche i turisti stranieri a boicottare la Birmania. Una chiusura su cui moralmente in pochi hanno da eccepire, ma che negli ultimi tempi è stata criticata da sempre più osservatori perché non ha portato a risultati né per l’icona della dissidenza né per la popolazione.

Dubbi che l’Nld sembra aver fatto propri, in nome della riconciliazione nazionale. Alcuni tra i maggiori esponenti del partito, riportando le direttive della loro leader, hanno fatto sapere che Suu Kyi approva il nuovo approccio americano, a condizione che la nuova atmosfera di dialogo coinvolga anche l’opposizione. Dai suoi arresti domiciliari, Suu Kyi ha poi scritto una lettera al generale Than Shwe, chiedendo di poter incontrare i rappresentanti diplomatici di Usa, Unione europea e Australia, per discutere una possibile fine delle sanzioni. Il problema è che una risposta ancora non c’è, e non è detto che arrivi.