Kenya, profughi al capolinea

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

Capoluogo del distretto occidentale di Uasin Gishu, nella provincia di Rift Valley, Eldoret è famosa per aver dato i natali al capostipite dei fondisti kenioti, Kipchoge Keino, e non solo. Da qualche giorno, infatti, la città è tornata alla ribalta per una ragione sicuramente meno nobile: sembra che le autorità di Nairobi abbiano annunciato la chiusura del locale campo profughi, un struttura che ospita circa 2.200 rifugiati interni, civili di etnia Kikuyu scampati alle violenze etniche post elettorali che tra il dicembre del 2007 e la primavera del 2008 sconvolsero la regione. La paura è che le zone di provenienza non siano ancora del tutto sicure e per questo molti profughi non sarebbero disposti a tornare a casa; per facilitare l’operazione di sgombero il governo avrebbe comunque offerto ad ogni famiglia la cifra di 35 mila scellini (490 dollari) e il trasporto gratuito fino alle comunità di appartenenza.

Un problema di difficile soluzione che da una parte vede gente disperata alla quale viene promesso un risarcimento insufficiente a costruire una qualsiasi alternativa di vita, dall’altra la polizia che potrebbe ricorrere all’uso di squadre speciali per lo sgombero forzato della tendopoli. Le tensioni quindi non mancano e nel campo, gia teatro di diversi scontri, i profughi hanno una sola grande preoccupazione: non sanno dove andare.

Secondo quanto dichiarato dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), degli oltre 350 mila profughi interni transitati nei centri di accoglienza, quelli che già tornati a casa sono 347.500; il numero dei civili ancora presenti nelle tendopoli è ufficialmente di 7.200 ospiti. Il governo ha già deciso di chiudere entro la prima metà di ottobre tutti e 43 i campi che sono stati aperti in seguito all’emergenza scoppiata tra il 2007 e il 2008, compreso il centro di Eldoret, che oggi rappresenta la struttura più grande tra quelle riservate ai rifugiati interni.

L’allarme non è certo da sottovalutare, soprattutto se si pensa alle difficoltà alle quali andranno incontro le famiglie vittime di un conflitto interno di inaudita violenza e che, a tutt’oggi, possono solo contare sull’aiuto delle Nazioni Unite, della Croce Rossa Keniana e delle agenzie umanitarie non governative che operano in Africa orientale.

La lotta per la sopravvivenza attraversa tutto il Paese e l’emergenza è ormai totale. La condizione più tragica riguarda sicuramente i quasi 300 mila rifugiati somali che vivono nei tre campi profughi di Dadaab, scappati dai combattimenti e agli scontri armati, dagli stupri e dai saccheggi, da una situazione che rende impossibile qualsiasi intervento sanitario e che trasforma un popolo in un esercito di senza speranza, gente alla quale è stato tolto qualsiasi diritto. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UHNRC), da gennaio ad oggi sono oltre 50 mila i somali che hanno attraversato il confine per raggiungere le tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley; una fuga di massa che ha generato un flusso pari a 6.400 unità al mese e un sovraffollamento che ha costretto le autorità a trasferire 12 mila profughi da Dadaab al campo di Kakuma, a pochi chilometri dal confine sudanese, dove peraltro erano già presenti 45.017 rifugiati.

Secondo i dati relativi al 31 agosto scorso, Ifo, Hagadera e Dagahaley ospitano 288.079 profughi, il 23% in più rispetto a gennaio 2009 e il triplo del numero massimo per il quale è predisposto. La gestione è affidata a Care International, l’organizzazione umanitaria statunitense che opera in Kenya dal 1968 e dal 1991 nei campi profughi di Dadaab. Dopo quella di Afgooye, 30 chilometri ad ovest di Mogadiscio, una striscia di 15 chilometri di terra dove sono ospitate circa 490 mila persone, la tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley rappresentano una delle più grandi concentrazioni di rifugiati al mondo. E’ una tragedia umanitaria che le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative di tutto il mondo definiscono di proporzioni impensabili, composta per il 97% da somali e per il resto da sudanesi, ugandesi e congolesi.

Una situazione tragica che in alcuni casi diventa umiliante, dove innumerevoli persone sono costrette a vivere senza un accesso regolare ai servizi igienici, all’acqua, al cibo, alle strutture sanitarie, minacciate all’interno dei campi da continue epidemie di colera, malaria, TBC e dissenteria, dall’aumento di casi di HIV/AIDS, polio e morbillo, senza alcuna garanzia sulla sicurezza, vittime di una violenza diffusa (soprattutto sevizie e stupri) che negli ultimi mesi ha superato una crescita del 30%.

A due anni di distanza, il Kenya deve ancora interrogarsi sulle cause che provocarono gli scontri scoppiati all’indomani delle elezioni presidenziali del dicembre 2007, la peggiore ondata di violenza della storia post coloniale: almeno 1200 morti, migliaia di feriti e circa 2 milioni di civili costretti a fuggire e a diventare profughi nel loro stesso Paese. Secondo lo studio intitolato “Le cause profonde e le implicazioni della violenza post elettorale del 2007”, commissionato dal gruppo interconfessionale Inter-Religious Forum (IRF) alla Media Focus on Africa, organizzazione no-profit che opera nel settore della comunicazione per lo sviluppo, le ragioni di questa tragedia vanno ricercate nel decadimento morale e sociale di una nazione esposta a fattori che ancora oggi minacciano la sua stessa esistenza.

Corruzione, cattiva gestione della cosa pubblica, negazione di una qualsiasi forma di giustizia sociale, iniqua distribuzione delle terre, marginalizzazione di alcuni gruppi dal contesto politico ed economico e mancanza di riforme istituzionali: sono questi i motivi che, insieme ad un sistema politico secondo il quale “il vincitore prende tutto”, hanno aumento in modo esponenziale le tensioni etniche e sociali che hanno trascinato il Kenya sull’orlo della guerra civile.

E’ in questo contesto che i rifugiati di Eldoret, Kakuma, Ifo, Hagadera, Dagahaley e di tutti gli altri campi profughi del Kenya devono sopravvivere, in una lotta per il potere politico ed economico che risale ai tempi dei presidente Kenyatta, uno scontro che ha attecchito le sue radici durante il regime di Daniel arap Moi ed è esploso con Mwai Kibaki, che ha una sua logica nello scontro etnico tra Kikuyu e Luo ma che coinvolge gli interessi di Washington e Londra, che in Kenya ancora molti interessi. Un Paese instabile, oppresso dalla violenza, assediato dal quinto anno consecutivo di siccità e devastato dalle inondazioni, dove c’è chi sopravvive con due litri di acqua al giorno, meno acqua di quanto noi consumiamo scaricando lo sciacquone del gabinetto.

Un Paese asfissiato dalla povertà, dai prezzi del cibo (superiori del 180% rispetto alla media africana), dei carburanti e dei beni essenziali, dove 1.340.000 persone ricevono forme di assistenza alimentare di prima necessità e dove 3.800.000 hanno bisogno di aiuti di emergenza. Dove quindi essere rifugiati diventa un problema tra i problemi.