Una nuova governance per BM e Fmi ?

di Luca Manes, Campagna per la riforma della Banca mondiale – CRBM
da www.aprileonline.info

Il recentissimo summit dei G20 di Pittsburgh ha portato con sé un apparente vento di cambiamento, regalando alle economie emergenti un 5 per cento in più di quote di potere nel Fondo monetario e un 3 per cento in ambito Banca mondiale. Sebbene da anni si parli di una nuova Bretton Woods per le istituzioni finanziarie internazionali che riveda gli equilibri di potere a livello internazionale e democratizzi maggiormente le istituzioni di Washington, per esempio tramite le proposte innovative della società civile globale per una doppia maggioranza, politica ed economica, in seno a FMI e World Bank, la montagna ha partorito un topolino

Era ormai scritto da tempo che le nuove super potenze del Sud del mondo come la Cina e l’India avrebbero acquisito maggior importanza e potere decisionale nel board delle due istituzioni. Ma una reale democrazia latita ancora. Non si raggiungerà alla fine una vera parità Nord-Sud e, così come accade nei processi del G20, anche nel contesto delle istituzioni finanziarie internazionali i Paesi più poveri – e più impattati da una crisi che non hanno né voluto né causato – continueranno ad avere ben poca voce in capitolo.

Rimane da vedere se ci saranno colpi di coda nel negoziato per la finalizzazione della nuova distribuzione delle quote di potere nelle istituzioni, anche perché i governi europei continuano a resistere alla possibilità di ridurre il numero di loro rappresentanti nel consiglio direttivo. Ai paesi più poveri toccano le briciole.

Il Fondo monetario internazionale ha promesso che destinerà ai Paesi più poveri circa quattro miliardi di dollari nel 2009, altrettanti nel 2010, fino ad arrivare a un totale complessivo di 17 miliardi entro il 2014. Purtroppo non si sa ancora come saranno racimolati 14 dei 17 miliardi previsti. Poco più di 780 milioni derivano dalla vendita di una parte delle riserve auree del Fondo. Fondi che, nonostante le pressioni dei Paesi meno sviluppati e delle reti della società civile globale, non saranno destinate alla cancellazione del debito. Qualora i fondi necessari siano garantiti da Paesi donatori, è alquanto probabile che tali erogazioni non andranno ad aumentare il monte degli aiuti allo sviluppo.

Anche il taglio dello 0,5 per cento degli interessi sui prestiti concessi dal Fondo alle realtà più povere del pianeta avrà degli impatti minimi sulle disponibilità finanziarie di questi ultimi: si calcola un risparmio di un solo milione all’anno in media per Paese. Allo stesso tempo l’assegnazione straordinaria di diritti speciali di prelievo a tutti i Paesi membri dell’Fmi, inclusi quelli ricchi, non ha previsto nessun meccanismo compensativo che desse maggiori possibilità ai Paesi più poveri di accesso a risorse per interventi anti-ciclici nel contesto della crisi.

Infine va sottolineato che gran parte delle nuove risorse che nel 2010 saranno allocate nelle banche multilaterali di sviluppo andranno a beneficiare principalmente i Paesi emergenti e a medio reddito e gli sportelli per il prestito al settore privato. Risulta inaccettabile la proposta del Presidente della Banca Robert Zoellick di creare una linea di prestiti per il salvataggio delle banche private nel Sud del mondo, quando la gran parte di questa è controllata da istituti di credito del ricco Nord che hanno già ampiamente tratto vantaggio dagli aiuti di Stato.

Le politiche del Fondo monetario internazionale non creano posti di lavoro. Anzi, li eliminano

Il comunicato finale del G20 di Pittsburgh ha enfatizzato molto la lotta alla disoccupazione globale, rimandando alle istituzioni finanziarie internazionali un ruolo chiave nell’introduzione e nel monitoraggio di “buone pratiche economiche”. Un nuovo rapporto di reti della società civile globali come Eurodad, Solidar e Global Network evidenzia come in alcuni Paesi in via di sviluppo – lo studio si è concentrato su El Salvador, Etiopia e Lettonia – le rigide politiche fiscali e le condizionalità dettate dal Fondo monetario abbiano imposto ai governi degli ingenti tagli di bilancio, il tutto a discapito delle fasce meno protette della popolazione. Questo nonostante le previsioni per i lavoratori siano molto fosche in ogni angolo del pianeta.

L’ILO sostiene che almeno 59 milioni di persone potrebbero perdere il loro posto di lavoro entro la fine dell’anno e che oltre 200 milioni cadranno sotto la soglia di povertà nei prossimi mesi, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, privi dei necessari ammortizzatori sociali indispensabili in queste occasioni. Tale emergenza è stata sottolineata dallo stesso direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Khan.
Ma a dispetto della “maggiore flessibilità” sbandierata dal Fondo monetario, le sue politiche provocano ancora danni a volte irreparabili nelle realtà meno fortunate del globo.

La revisione delle politiche energetiche della banca mondiale. una vera opportunità?

Nel suo ultimo Development Report, la Banca riconosce che il mantenere l’innalzamento della temperature della Terra a soli 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali necessiterà di uno sforzo massiccio anche da parte delle istituzioni finanziate dal Nord del mondo. Tuttavia la strategia energetica della stessa World Bank non sembra voler affrontare questo tipo di sfide, affidandosi a fonti ad alto rischio come il nucleare e il carbone: quest’ultimo ha ricevuto il 19 per cento in più di fondi rispetto a tutte le rinnovabili.

Perfino il ministero del Tesoro degli USA evidenzia come il continuo sostegno di progetti per l’estrazione dei combustibili fossili da parte della Banca non contribuisca certo a risolvere il problema del surriscaldamento climatico. Il ruolo della Banca anche nella gestione dei nuovi fondi pilota nella lotta ai cambiamenti climatici rimane molto controverso, specialmente in vista della prossima conferenza sul clima di dicembre a Copenaghen, dal momento che spesso emerge come il trasferimento di tecnologia facilita anche un maggiore sfruttamento dei combustibili fossili nel Sud del mondo.

I banchieri di Washington sostengono che ormai il 35 per cento del loro portfolio energetico è dedicato alle fonti rinnovavili. Peccato che in quel calcolo vengono considerati per il 60 per cento anche i grandi progetti idroelettrici, che la Banca è tornata a finanziare alla grande. Progetti che hanno impatti negative anche sul clima, oltre che costi socio-ambientali spesso non accettabili. Infatti come comprovato da numerosi studi internazionali, nel caso delle regioni tropicali la sommersone di vegetazione su larga scala provoca l’emissione cospicua di metano, che è un gas serra.

Verso una nuova crisi del debito estero dei paesi poveri?
Per alcuni anni il tema del debito estero dei Paesi poveri è stato trascurato ed erroneamente considerato risolto dalle poche e limitate iniziative di cancellazione intraprese dai donatori. Oggi invece secondo molti analisti economici internazionali si sta affermando una nuova emergenza del debito causata dalla nuova ondata di prestiti delle istituzioni finanziarie e dei governi per far fronte alla crisi. Per altro gran parte degli interventi avvengono tramite prestiti a tassi quasi commerciali – come quelli delle agenzie di credito all’esportazione – che in caso di generazione del debito risulteranno molto onerosi.

Gli esecutivi dei Paesi poveri vedono una forte contrazione delle risorse disponibili in seguito al credit crunch e a tutte le conseguenze che ha portato con sé.

In questo contesto, ed a fronte del peso sempre significativo del pagamento del servizio sul debito, l’UNCTAD delle Nazioni Unite ha chiesto che la comunità internazionale adotti una moratoria sul pagamento del debito. Finora ben pochi donatori non si sono mostrati sensibili a questa richiesta.

Di contro, la Banca mondiale promuoverà a Istanbul una revisione del Debt Sustainability Framework che definisce quanto un Paese povero può
indebitarsi. Un allentamento temporaneo delle prescrizioni della Banca a fronte della crisi in realtà non risolve il problema dell’emorragia di risorse che il pagamento del debito esistente continua a produrre, né previene la creazione di nuovo debito.

Al riguardo per la società civile internazionale sono necessari due profondi cambiamenti: un quadro di regole condiviso di responsible lending, che preveda obblighi non solo per i Paesi riceventi, ma anche per quelli donatori; e quindi l’istituzione da subito di un meccanismo trasparente e democratico di arbitrato sul debito, che valuti anche l’eventuale illegittimità di alcuni debiti in seguito al comportamento poco corretto dei donatori.