UN ALTRO SINODO PER L’AFRICA IN VATICANO. MA GLI AFRICANI “NON NE POSSONO PIÙ”

di Giampaolo Petrucci 
da Adista Documenti n. 103 del 17/10/2009 

“Ci sono cose che non si possono vedere bene se non con occhi che hanno pianto”. Sono parole che amava ripetere mons. Christophe Munzihirwa– gesuita, arcivescovo di Bukavu (Repubblica Democratica del Congo),assassinato il 29 ottobre 1996 e da allora noto come ‘il Romerod’Africa’ – e che già sottolineavano il grande bisogno di restituire laparola all’Africa, a livello sociale, economico, politico e ancheteologico. E proprio con l’obiettivo di “fare da cassa di risonanza alpensiero africano”, in occasione della II Assemblea Speciale perl’Africa del Sinodo dei vescovi (4-25 ottobre), si è costituito unospeciale Osservatorio di giornalisti, associazioni e missionari,coordinato dalla Cimi (Conferenza Istituti missionari in Italia) edall’Ucsi (Unione cattolica Stampa italiana).

Il primo appuntamento dell’Osservatorio, il convegno dal titolo: “Il2° Sinodo africano: un evento da conoscere e celebrare”, si è tenuto loscorso 1 ottobre nel cuore di Roma, presso la sede della Provincia aPalazzo Valentini. “Abbiamo ascoltato l’Africa e gli africani”, hadichiarato soddisfatto p. Alex Zanotelli – missionario comboniano e tra i più convinti sostenitori dell’iniziativa – salutando in particolar modo i relatori africani: Jean-Léonard Touadi, primo africano a occupare uno scranno nel Parlamento italiano, e gli esperti di nomina pontificia al Sinodo, rev. Godfrey Igwebuike Onah, vice rettore della Pontificia Università Urbaniana di Roma, e suor Elisa Kidanè, assistente generale e missionaria comboniana.
Al centro delle 4 ore di interventi, la marginalizzazione del mondoafricano dai processi di internazionalizzazione economica e daldibattito ecclesiastico. Secondo Jean-Léonard Touadi, il primofallimento della Chiesa in Africa è attribuibile alla diffusione dellafede cristiana durante la colonizzazione: “È chiaro che Cristo non haincontrato l’africano, ma un africano edulcorato, alienato” da unaconversione forzata alla lingua, alla cultura e ai costumi europei.Oltre a questo “incontro mancato”, e tuttora in attesa direalizzazione, l’Africa “ufficiale” presenta al Sinodo un bagaglio difallimenti su tutti i fronti: “ha fallito l’economia ufficiale, si sonoarrestati i processi di democratizzazione e la pace ancora non c’è”.
Secondo Touadi, la Chiesa deve riscoprire e alimentare “i nuclei diresistenza e innovazione”, quel fermento autentico, ma “che non fastatistica”, che viene dalle piccole comunità di base e dove la Parola,incarnata nella “Perla Nera”, può finalmente “tracciare degli autenticicammini di liberazione”. “Solo dal basso nasce la speranza”, gli hafatto eco p. Alex Zanotelli.
Il missionario comboniano ha ricordato poi che l’Africa, consapevoledel proprio carico di delusioni e speranze, aveva chiesto a Roma unConcilio ‘per’ l’Africa e ‘in’ Africa, e non un Sinodo, perché “ilConcilio ha potere deliberativo mentre il Sinodo ha solo valoreconsultivo” e non produce dunque  risultati innovativi vincolanti perla Chiesa. Ma purtroppo le gerarchie romane – incuranti della lezionedei padri della teologia africana, già esclusi dal primo Sinodo(Jean-Marc Ela, Engelbert Mveng, Meinrad Hebga) – hanno optato inveceper un Sinodo nella città di San Pietro.
C’è però una speranza che nasce dalla delusione, ha aggiunto daparte sua Onah: che la centralità strategica di Roma, cioè, possastimolare una maggiore presenza dei media al Sinodo e così catalizzaremaggiormente l’interesse della cosiddetta “comunità” internazionale.L’Africa non ce la fa più ad incassare i colpi di un Occidente vorace eindifferente, ha detto Onah: “Se al posto degli uomini morisserogiraffe e scimpanzè, la comunità internazionale si mobiliterebbe”.Eppure, la nascita in Africa di una “frangia radicale” che riscuoteconsensi tra i giovani disperati dovrebbe indurre ad un cambiamento distrategia: “Se il mondo fa credere ai giovani africani delusi, come giàaccade in Medio Oriente, che l’unica risposta ai problemi ènell’assalto al resto del mondo – ha sottolineato Onah – a tremaresaranno tutti”, “non ci saranno eserciti che potranno fermare questarabbia”. Proprio per questo – “se non per ragioni umanitarie” – “ilSinodo sulla pace e la riconciliazione in Africa dovrebbe interessaretutti”.
La “rabbia” ha fatto irruzione anche nelle parole di sr. ElisaKidanè: “Come madri, non ne possiamo più di vedere i nostri figlitrattati come zimbelli dai Paesi che sfruttano le nostre risorse e oraci gettano in mare. Non ne possiamo più dei convegni in cui si parla dinoi mentre nelle nostre mense non arriva nulla”.
A trarre le conclusioni del convegno ci ha pensato Alex Zanotelli,ponendo l’accento su tre nodi chiave: primo, la cooperazioneinternazionale deve “smettere di fare la carità” e operare invece perristabilire la giustizia internazionale e la pace; secondo, il mondomissionario deve incominciare a preoccuparsi degli immigrati africaniche vivono in Italia e che sono oggi vittime delle nuove “leggirazziali”; terzo, la Chiesa, tanto occupata a difendere la vitadell’embrione e del morente, dovrebbe riscoprire un identico afflatonella difesa della “vita di mezzo”, che per la gente d’Africasignifica, troppo spesso, miseria, sofferenza e morte nel “silenzioassordante – ha denunciato sr. Teresina Caffi, missionaria saveriana in Kivu-RdCongo – che si leva da questo Paese, dalle Ong e anche dalla Chiesa”.
Pubblichiamo, di seguito, gli interventi integrali di sr. ElisaKidanè e di Jean-Léonard Touadi, tratti da una nostra registrazione

LE ASPETTATIVE DELLA DONNA AFRICANA
di Elisa Kidanè

“Quando le donne hanno la possibilità di trasmettere in pienezzai loro doni all’intera comunità, la stessa modalità con cui la societàsi comprende e si organizza ne risulta positivamente trasformata,giungendo a riflettere meglio la sostanziale unità della famigliaumana. Sta qui la premessa più valida per il consolidamento diun’autentica pace. È dunque un benefico processo quello della crescentepresenza delle donne nella vita sociale, economica e politica a livellolocale, nazionale e internazionale. Le donne hanno pieno diritto diinserirsi attivamente in tutti gli ambiti pubblici e il loro diritto vaaffermato e protetto anche attraverso strumenti legali laddove sirivelino necessari” (Messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazionedella 28.ma giornata mondiale della pace: Donna: educatrice alla pace, 1995)
Questo testo potrebbe già rispondere alla domanda “Quali aspettativedella donna africana sul Sinodo?”: che ci sia data la possibilità diesercitare il nostro ruolo di educatrici, di promotrici, diprotagoniste della vita.
Sappiamo che un Sinodo non cambierà certamente dal-l’oggi al domaniil corso della Storia, ma siamo certe che potrebbe iniziare a renderefattibile, reale, quello che fino a ieri era forse un sogno.
Certo, le donne africane non hanno aspettat
o “tempi maturi”: sonoovunque presenti per assicurare vita, lottando contro leggi avverse,contro tabù, contro mentalità misogene… Ma la storia ci dice che nonbasta, che abbiamo bisogno di essere confermate in questo ruolo ericonosciute.
Lo stesso Instrumentum laboris riconosce che “le donne e ilaici in generale non sono pienamente integrati nelle strutture diresponsabilità e di pianificazione dei programmi pastorali dellaChiesa” (n. 20, cf. n. 30); “le donne continuano ad essere sottoposte amolte forme di ingiustizia, alle donne viene spesso attribuito un ruoloinferiore” (nn. 59-61, cfr. n. 117). Questa riflessione aperta e trasparente è la porta attraverso cui possiamo iniziare a parlare di passi concreti.
Cosa vogliono le donne

Non mi sento e non ho la pretesa di essere portavoce della donnad’Africa, ma dalla mia piccola esperienza sono certa che è questo chevorremmo:
1. Innanzi tutto che la Chiesa ci guardi con gli occhi di Gesù, cheseppe riconoscere nella donna una leale co-protagonista del suoProgetto di Salvezza, ed è a Lei che consegnò il ministerodell’annuncio della Buona Notizia: “Va’ e di’ loro che sono risorto…”.
2. Un chiaro riconoscimento del ruolo della donna al-l’interno dellaChiesa. Anni fa in Italia era apparso un manifesto che diceva: siamopiù della metà e il governo non lo sa. Lo stesso possiamo direall’interno della Chiesa: una presenza non solo quantitativa maqualitativa.
3. Un effettivo cambiamento di mentalità da parte della Chiesa neinostri riguardi… riconoscendo in particolare il contributo allateologia che le donne offrono a partire dalla realtà e nellaconsapevolezza che la presenza di Dio non è declinabile al singolare:le donne insegnano a cogliere le diverse manifestazioni del voltomaterno di Dio.
4. Uno spazio all’interno dei luoghi in cui si “cucinano” progettiper lo sviluppo e leggi di qualsiasi genere e a tutti i livelli (lesacrestie iniziano a starci troppo strette).
5. Una maggiore preoccupazione dei vescovi per la formazione dellelaiche e delle suore locali, non pensando solo ai seminari, ma dandopari opportunità di formazione professionale anche alle suore e alledonne laiche, per qualificare la nostra ministerialità (dobbiamo direche alcuni vescovi sono già impegnati in questo compito, comel’arcivescovo mons. Laurent Monsengwo).
6. Una partecipazione alla formazione integrale della persona, ancheall’interno dei seminari, perché si ampli la visione della donna, inmaniera che non sia vista solo come madre o sorella ma anche comeinsegnante, docente, teologa…
7. Che la Chiesa si adoperi in tutti i settori ad accelerare ilmomento in cui non si dica più “è la prima volta”. Ossia, che darepossibilità e ruoli di responsabilità all’interno della Chiesa divengaprassi, non sia più un’eccezione.
E tutto questo non per una mera rivendicazione femminista, ma perchécome madri del continente sentiamo l’ur-genza di alzare la nostra voceaffinché i nostri popoli abbiano vita e vita in abbondanza.
Non ne possiamo più di vedere i nostri figli e figlie trattati comezimbello dei Paesi che fino a ieri hanno fatto man bassa delle nostrematerie prime ed ora li rigettano in mare, come merce scaduta o diseconda mano.
Non ne possiamo più di vedere i nostri figli e figlie essere cibo per i pesci del Mare nostrum.
Non ne possiamo proprio più di veder morire i nostri figli a causa di guerriglie interne, epidemie, ignoranza diffusa…
Non ne possiamo più di convegni mondiali, di summit in cui si parlae parla e parla, quando di fatto poco e niente arriva nelle nostrecase… nei bisogni fondamentali dei popoli.
Non ne possiamo più di vedere la nostra Africa, il continente aforma di cuore, venduto a prezzo stracciato, o peggio svenduto incambio della dignità dei nostri popoli.
Come donne, sorelle e madri del continente riconosciamo di avere un ruolo non indifferente per la sua salvaguardia.
Come donne e madri, sentiamo di avere una responsabilità nonindifferente nei confronti dell’umanità stessa. L’ha scritto papaGiovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem: la forza moraledella donna, la sua forza spirituale, si unisce alla consapevolezza cheDio le affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano.
Non sono quindi semplici rivendicazioni: sono istanze improrogabilie necessarie per la salvaguardia del Continente e oserei diredell’Umanità stessa.
Vorremo che da questo Sinodo i nostri pastori uscissero con lachiara determinazione, come molti di loro stanno facendo, di mettersisempre e comunque dalla parte dei più deboli, dalla parte di coloro chevengono massacrati ogni giorno, facendosi promotori di una nuovasocietà, fondata sui valori del Regno.
Vorremmo che la preoccupazione delle nostre Chiese fosse soprattuttoche i figli e le figlie dell’Africa non siano considerati figli efiglie di un Dio minore.
Vorremmo che i nostri pastori rivolgessero un monito anche a coloroche trafficano sottobanco armi, diamanti, petrolio con i nostrigovernanti, lasciando sul lastrico i nostri popoli.
Vorremmo che la Chiesa si impegnasse a creare delle scuole pubblichedove tutti possano accedere (non basta dire che questo è compito degliStati. In Europa hanno iniziato i monaci a salvaguardare la cultura,poi è arrivato lo Stato).
Vorremmo la creazione di scuole di politica dove si apprenda ilvalore e la responsabilità di fare politica, senza la necessità difotocopiare democrazie ormai stantie e obsolete. Dove i valori dellatrasparenza e del bene comune siano la visione e la preoccupazioneprimaria.
I popoli dell’Africa potrebbero inventare nuovi modi di fare democrazia se solo glielo permettessero.
Vorremo che pace e giustizia non fossero più dei temi da discutere, ma realtà di vita per il Continente.
Vorremmo che l’obiettivo primario fosse quello di rendere concretala Buona
Notizia del Regno: che i popoli abbiano vita e vita inabbondanza.
Vorremmo che i nostri vescovi non avessero timore di avere comeconsiglieri delle madri, delle donne sagge: l’hanno fatto i Padri dellaChiesa e sappiamo i benefici che ne hanno tratto loro e di riflesso laChiesa stessa.
Troppe volte la parola donna, nel vocabolario ecclesiale, è legatasolo a qualcosa da tenere lontano, da evitare, da temere come fonte dipeccato.
Vogliamo essere considerate le discendenti delle vere discepole diGesù, coloro senza le quali Dio probabilmente avrebbe avuto qualcheproblema a realizzare il suo piano di rigenerare l’Umanità.
Penso che le donne del continente africano si aspettino da questoSinodo linee guida in cui si intraveda la determinazione a far sì chela festa e la danza liturgica di ogni domenica possa trasformarsi infesta di vita lungo tutta la settimana.
Le parole che dovrebbero essere dette

Vorremmo che da questo Sinodo uscisse un documento che avesse tra le sue pagine un capitolo che iniziasse così:
Amatissime sorelle e madri dell’Africa,
è soprattutto a voi che ci rivolgiamo, perché siete voi che portatesulle vostre spalle e nel vostro cuore il nostro Continente.
È a voi che rivolgiamo la nostra parola di speranza, perché sappiamoche in voi si trasformerà in abbondante benedizione per i nostripopoli. È a voi che ci rivolgiamo come figli innanzitutto: perché sietevoi che potete trasmetterci da subito i semi della pace, dellaconcordia, della riconciliazione. Siete voi che avete l’arduo compitodi prevenire i mali che attanagliano il nostro continente. A voi èaffidato il presente e il futuro delle nazioni.
Dopo millenni in cui noi uomini di Chiesa e di governo abbiamocreduto di poter agire a prescindere da voi, oggi ci rendiamo conto chedobbiamo riscrivere la storia, non solo attingendo alla vostra storia,ma chiedendo a voi di riscriverla, con la visione e il cuore di donna.
A voi oggi chiediamo di camminare insieme a noi lungo il processo dirinascita, di guarigione, di giustizia per la nostra Africa. Voi che dasempre percorrete ogni mattina le nostre strade e ne conoscetemillimetro per millimetro ci farete da guida e ci indicherete qualipercorsi scegliere, per non perderci nei meandri di discorsi senzafine…
Molto prima avremmo dovuto comprendere che senza di voi è difficileraggiungere l’obiettivo della Buona Notizia: rendere tutti cittadinidel Regno e consapevoli della figliolanza divina. Molto prima avremmodovuto includere nei nostri Piani pastorali la vostra peculiaregenialità femminile… Molto prima. Ma giungiamo adesso e abbiamofretta di recuperare il tempo perduto.
Oggi facciamo memoria delle parole di Giovanni Paolo II, il qualeauspicava una nuova era nella quale le donne fossero le principaliprotagoniste, educatrici di pace con tutto il loro essere e con tuttoil loro operare.
Diceva espressamente così: “Le donne siano testimoni, messaggere,maestre di pace nei rapporti tra le persone e le generazioni, nellafamiglia, nella vita culturale, sociale e politica delle nazioni, inmodo particolare nelle situazioni di conflitto e di guerra. Possanocontinuare il cammino verso la pace già intrapreso prima di loro damolte donne coraggiose e lungimiranti!”
Noi, Pastori della Chiesa d’Africa, vogliamo realizzare concretamente queste speranze.
È a voi che d’ora innanzi ci rivolgeremo per chiedere consiglio.
È a voi che chiediamo di aiutarci nella cura pastorale delle nostreparrocchie, e non solo perché scarseggiano i sacerdoti, ma perché siamocerti che saprete coordinare con competenza e cuore.
È a voi, donne, sorelle e madri d’Africa, che ci rivolgiamo per larealizzazione di progetti che assicurino la vita, perché a guidarvisarà innanzi tutto il bene comune.
È a voi che chiediamo di aiutarci a comprendere e spiegarci laParola di Dio, di raccontarci cosa significa mettersi alla sequela diCristo, di aiutarci a riconoscere in Dio il suo volto materno, perchésaprete usare quelle parole che solo una Madre sa sussurrare al cuoredei figli e delle figlie.
È insieme a voi che vogliamo ridare vita al nostro continente chevoi avete finora salvaguardato portandolo sulle vostre spalle ecustodito nel vostro cuore.
Con gratitudine, i vostri Figli e Pastori
Cuore di donna
 
Termino con le “parole al volo” di J. Leonard Touadi, sul sito di Combonifem:
“Facendo la radiografia dell’Africa, è inevitabile incontrare ledonne quali cuore pulsante di quella pentola in ebollizione che è ilContinente Nero. Le donne rappresentano il punto di massimabrillantezza della ‘perla nera’ profeticamente scoperta e valorizzatasecoli fa da Daniele Comboni”.
Comboni, un vescovo che ha avuto la capacità e l’umiltà diriconoscere che molti dei fallimenti all’inizio dell’opera missionariadel XIX secolo erano da iscriversi al fatto di non aver tenuto inconsiderazione l’elemento femminile: “L’Apostolato della Nigrizia è perse stesso oltremodo arduo e laborioso. Tuttavia mi pare chel’insuccesso nel primo stadio della Missione sia stato causato daiseguenti motivi: […]. 5. Infine alla Missione mancavano gli aiutidell’elemen-to femminile”.
Ecco cosa ci attendiamo dal Sinodo: il riconoscimento del ruolopeculiare della donna all’interno della Chiesa e della società, e diconseguenza l’effettiva possibilità di attuarlo, attraverso azioniconcrete.
Affidiamo a Santa Bakita, San Daniele Comboni, Beata Anwarite, imartiri d’Uganda, il Beato Ghebre Michael e tutti i santi e sante chehanno amato l’Africa di intercedere presso Dio per il buon esito diquesto Sinodo.

LE VITTIME AFRICANE, LUOGO TEOLOGICO E SPIRITUALE
di Jean Léonard Touadi

Anche questo secondo Sinodo per l’Africa si svolge a Roma. Speroche un giorno possa realizzarsi il vecchio sogno dei padri dellateologia africana: e cioè che queste assise così importanti della vitadella Chiesa si tengano in terra africana; che si possa un giornocelebrare questa messa sul mondo all’interno delle contraddizioni, deiconflitti e delle speranze dei territori e delle comunità africane.
Vi invito a ricordare oggi il mio grande maestro, purtropposcomparso, Jean-Marc Ela, prete e teologo coraggioso, un intellettualeafricano che non ha avuto paura di lasciare le cattedre universitariecui era destinato per andare nel Nord del Camerun, a piedi nudi, acondividere l’espe-rienza degli ultimi. E per lui non si trattava diretorica. Grazie a questa esperienza, padre Jean-Marc Ela è stato ilgrande inventore della teologia africana della liberazione.
Durante la colonizzazione, noi abbiamo subìto una doppia conversionecome cristiani africani: prima ci siamo convertiti alla cultura, allelingue e alla civiltà europea e poi, con queste vesti prese a prestito,siamo andati incontro a Cristo. È chiaro che Cristo non ha incontratol’uomo africano: ha incontrato un africano edulcorato, alienato,lontano da sé.
Ela ed altri pensavano che, per completare l’opera del Concilio,oltre a ballare e pregare nelle nostre lingue nelle chiese, gliafricani avrebbero dovuto meditare la Parola e da qui tracciare deicammini di liberazione: una Parola in grado di dire qualcosa di nuovo edi diverso sulle situazioni di prostrazione economica e sociale chevivono gli africani. Quella che Jean-Marc Ela chiamava la“clochardizzazione” di massa di tutto un continente, quella che eglidefiniva la doppia solitudine dei popoli africani: soli di fronte aimeccanismi della globalizzazione, ma anche soli di fronte ai lorodirigenti locali, che hanno ritagliato per se stessi l’ignobile compitodi essere unicamente gli intermediari d’affari tra il mondo esterno e iloro territori.
Quel mondo della clochardizzazione di massa di cui Ela parlaabbondantemente nel suo libro è anche il mondo della riscossa africana,il mondo della società civile, anche se Ela non ama molto l’espressione“società civile”, preferendo parlare di “nuclei di resistenza e diinnovazione”: quei segmenti di società africana che si sono costituitifuori dall’uffi-cialità, fuori dalle statistiche della Banca Mondiale edel Fondo Monetario Internazionale, e addirittura “contro” questaufficialità. Perché l’Africa ufficiale ha fallito, mi dispiace dirlo.Siamo cresciuti insieme, io e l’Africa: ho cinquant’anni, e l’annoprossimo celebreremo le indipendenze africane. Siamo cresciuti ma siamocresciuti male, non abbiamo saputo mettere in pratica i sogni deipadri, li abbiamo traditi.
La riscossa dell’Africa, secondo Ela, sarebbe avvenuta attraversoquest’altra Africa: i nuclei di resistenza e innovazione, quel barlumedi speranza che nasce in una discarica, perché anche nel fetore di unadiscarica possono nascere dei fiori profumati.
Compito della cooperazione, compito del Sinodo, è quello diritrovare quella perla nera, quei centri di resistenza e innovazioneignorati dai grandi circuiti dei media e delle ong, a volte anche deimissionari. Jean-Marc Ela ne parlava come possibilità di riscossa delcontinente africano.
Ela ha subìto un’umiliazione durante il precedente Sinodo. Lui ealtri teologi, costretti a radunarsi nelle catacombe o in qualchechiesa. Loro che erano la voce più autentica, più autorevole, piùvicina al vissuto: “lievito nella pasta”, mentre ci sono alcuni chepretendono di essere lievito fuori dalla pasta. Eppure sono staticostretti qui a Roma a fare i teologi delle catacombe, a radunarsinegli scantinati delle parrocchie.
E, quindi, ora che ci accingiamo ad entrare in un nuovo periodosinodale, dobbiamo ricordare quell’insegnamento, abbiamo il diritto eil dovere di riprendere in mano questo loro messaggio. La Chiesa, comela stessa società africana, non potrà entrare nella globalizzazione condignità se non saprà recuperare i saperi endogeni – quel grandeserbatoio antropologico che è ancora vivo nell’Africa ferita e offesama ancora indomita – e riscoprire la Parola come momento diliberazione, come possibile epifania di un avvenire diverso.
Fallimento ufficiale

Il bilancio tracciato dal Sinodo dell’Africa di oggi è corretto: il fallimento dell’Africa ufficiale.
È un fallimento a livello economico. Sul numero di Limesdel 29 settembre, che parla della crisi economico-finanziaria nelmondo, ho curato la parte riguardante l’Africa: qui gli effetti dellacrisi sono devastanti. Quei pochi progressi che si sono riscontratinegli ultimi anni sono stati vanificati. L’Africa, che cominciava aregistrare una crescita del 5%, quest’anno crescerà di uno striminzito2,7%. Ed è una crescita basata su prodotti minerari e agricoli, senzavalore aggiunto, senza vantaggi per le popolazioni e il territorio. Lacrisi economica si innesta inoltre sulla crisi agricola che l’hapreceduta e che ha determinato le sommosse del pane e del riso in moltecittà africane.
I processi di democratizzazione che abbiamo tutti sognato agli inizidegli anni Novanta, salutandoli come la primavera africana, oggi sonomorti: stiamo anzi tornando alla successione per eredità familiare. Lametamorfosi dei regimi africani è quella della trasmissione del poteredi padre in figlio.
E oltre al fallimento dell’Africa economica ufficiale, oltreall’arresto dei processi di democratizzazione, la pace che non c’è.Qualcuno dice che abbiamo posto fine a grandi conflitti, in Angola, inSierra Leone: ma cosa significa porre fine ai conflitti se non siavviano processi di giustizia sociale in Paesi come l’Angola, che oggiproduce più petrolio del Kuwait ed è il primo fornitore di petroliodella Cina? L’Angola non aveva bisogno di aiuti o di ong: perché gliangolani non vivono del loro petrolio? Appena si entra a Luanda, si hala sensazione di una povertà che abbraccia tutto. Finché nonrisolveranno la questione della giustizia sociale, questi Paesi sarannosempre instabili. L’ingiustizia redistributiva in Africa, innestata suimeccanismi dell’economia internazionale, è una bomba ad orologeria.Pancia piena non combatte, pancia vuota è pronta a tutte le avventure.I bambini a volte si arruolano per un piatto di fagioli al giorno.
Questi sono segni dei tempi: il segno profetico che dobbiamo tenere a mente quando parliamo di Africa.
In mezzo a questo disa
gio, però, c’è anche una grande effervescenzadella società civile, dei nuclei di resistenza e di innovazione. Iopenso che, come missionari e come operatori umanitari, noi dobbiamoripensare la nostra presenza: dobbiamo individuare i nuclei diresistenza e innovazione, non sostituirci ad essi. Potrebbe essere unamadre in un campo profughi, una maestra che fa bene il suo lavoro,un’infermiera che è sempre puntuale agli appuntamenti con i suoimalati. È da lì che bisogna partire: nessuno può essere gravido dellasperanza di un altro, dobbiamo tutti essere ostetrici e aiutarel’Africa a partorire la sua speranza. E noi dobbiamo essere testimonifelici di questa nascita, accompagnatori, catalizzatori dell’epifaniadi questa speranza.
Chi non assume quest’ottica resti pure qui, che c’è tanto da fare anche senza andare in Africa.
La vita di mezzo

Termino con il tema dell’immigrazione. Quando nel 1998 abbiamocelebrato i cosiddetti 500 anni della circumnavigazione dell’Africa daparte di Vasco De Gama, abbiamo scritto su Nigrizia unarticolo che diceva: bene l’Africa, attenzione agli africani che vivonoqui. Sono molti, infatti, ad amare l’Africa, forse troppi. È piùdifficile dedicare la stessa attenzione, provare lo stesso afflato pergli africani in carne ed ossa che vivono qui. Secondo me la missione ad gentes – del Cimi, di Nigrizia, di Popoli e Missione, dei centri diocesani – nei confronti dell’Africa deve cominciare, per essere credibile, con gli africani che vivono in Italia.
Il deserto del Sahara: la madre da dove trae linfa la nostra vita,la vita di tutti, perché tutti veniamo dall’Africa, è lì che si ècompiuta quell’evoluzione che ci ha condotto dalla condizione discimmia antropomorfa a quella di homo sapiens sapiens.
Il Mar Mediterraneo: mare del dialogo, incontro di civiltà.
Io mi proibisco e vi proibisco di parlare ancora del Sahara comedella culla della umanità e del Mediterraneo come del luogo di incontrotra le civiltà, perché sia il Sahara che il Mediterraneo sono diventatigiganteschi cimiteri a cielo aperto. E quei morti – 14mila tra il 1988ad oggi, ed è una stima al ribasso – sono esseri umani che ciinterpellano. E le generazioni future chiederanno a tutti noi: “Doveeravate quando tutto questo stava accadendo?”. Dove siamo?
Se voi attraversate il deserto del Sahara tra il Niger e la Libia,gli scheletri degli esseri umani si confondono con quelli deidromedari. Questo è un segno dei tempi.
Ho chiesto che una manifestazione del Sinodo si svolga a Lampedusa,per togliere a tutti noi il pretesto di dire “non sapevamo quello chestava accadendo”. Lampedusa è un po’ il simbolo di tutto questo.
Il diritto alla vita, di cui qui si fa un gran parlare, non può enon deve riguardare solo il credente. E non deve essere semplicementeil diritto alla vita dell’embrione e il diritto terminale del malato.
Se vogliamo essere credibili, anche la vita di mezzo deve avere la stessa dignità e la stessa cogenza magisteriale del-l’Humanae Vitaee delle altre encicliche sociali e politiche. Se non ha la stessacogenza magisteriale, significa che qualcosa non va, che si tratta diideologia.
La Chiesa, di cui voi rappresentate la parte più avanzata, quelladel Concilio, oggi, parlando del Sinodo africano, non può non fare diquesti morti un luogo teologico e un luogo spirituale.