La memoria di Giaffa

di Enzo Mangini
da www.perlapace.it

 
Reportage da Giaffa, dove Enzo Mangini si trova per partecipare allacarovana «Tempo per le responsabilità», organizzata in Israele e inPalestina dalla Tavola per la pace e dal Coordinamento degli entilocali per la pace 

I turisti non se ne accorgono. Passanorapidamente lungo Pasteur street, per salire fino alla cima dellavecchia Giaffa, nell’angolo meridionale della costa di Tel Aviv.

Se proseguissero su Yaffet street potrebbero notare una porticina e unascala stretta, appena dopo una tavola calda che sforna felafel ehummus. Oltre la porta, una scala ripida porta alla sede della Lega deiarabi di Giaffa, la Rabitah. È il municipio ufficioso che cerca dirisolvere i problemi dei ventimila arabi, cittadini israeliani, chevivono a Giaffa e sono tutto ciò che resta di una delle più colte,attive, cosmopolite e vibranti comunità urbane del Medio Oriente. Primadel 1948, della Nakba [la «catastrofe» per i palestinesi, ndr] e dellaguerra seguita alla dichiarazione di indipendenza dello stato diIsraele, Giaffa era la porta della Palestina del mandato britannico.

Nel suo porto arrivavano anche le navi degli ebrei. Ancor prima delmandato, era, assieme ad Alessandria d’Egitto e Tiro, uno dei porti perantonomasia del Medio Oriente. Al municipio della città araba di Giaffachiesero il permesso le sessanta famiglie ebree che nel 1908 fondarono,in un canalone tra le dune di sabbia, Tel Aviv. Oggi quel canalone èviale Dizengoff, una delle strade centrali di Tel Aviv, e la Giaffaaraba non è che l’ombra di se stessa.

La memoria di Giaffa ha un nome, Gabi Sabed. Nel 1948 la sua fu unadelle famiglie che non lasciarono la città allo scoppio di quella cheper Israele è la guerra d’indipendenza, e per i palestinesi è la Nakba.Dei 120 mila abitanti, ne rimasero 3900 che furono ammassati daivincitori in una zona della città sulla sinistra di quella che oggi èYaffet street e che allora era una recinzione senza nome.

Confiscatedallo stato israeliano le proprietà di quelli che erano andati via,agli arabi di Giaffa non rimase che ripartire da zero, come unaminoranza. Dove furono ammassati i profughi, c’è ora il quartiere diAjami. E Gabi, 58 anni di cui 40 investiti a organizzare la suacomunità, ne parla con la mente rivolta al passato per progettare unfuturo possibile.

Nella sede della Rabitah ad ascoltarlo ci sono una quarantina dipersone, un decimo della delegazione italiana che ha rispostoall’appello della Tavola della pace e del Coordinamento enti locali perla pace per passare una settimana tra Israele e Palestina. Perascoltare e capire.

È la delegazione di Tempo per le responsabilità, la forma chequest’anno ha assunto la marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Altrenove delegazioni simili sono in giro per incontri con ogni tipo diorganizzazioni sociali e istituzionali israeliane e palestinesi, daglienti locali ai movimenti pacifisti, dai sindacati alle Ong.

Gabi racconta che dopo il 1948, non c’era un solo arabo iscritto allescuole superiori di Giaffa. Ci vollero gli anni sessanta per vederedegli studenti arabi nelle scuole superiori e la metà degli annisettanta per avere i primi laureati. Lui è stato uno di loro. Dallavolontà di non perdere la propria identità di arabi, nello stato diIsraele, Gabi assieme ad altri suoi coetanei ha fondato nel 1979 laRabitah. Alle ultime elezioni amministrative di Tel Aviv, la Rabitah èriuscita a vincere anche un seggio, su 31, nel consiglio comunale eoggi è una realtà istituzionale capace di gestire anche una scuola, laScuola democratica araba.

È l’istruzione il tasto su cui Gabi batte dipiù: «Il 50 per cento dei bambini e dei ragazzi arabi di Giaffa vanelle scuole pubbliche arabe – dice – il 35 per cento nelle scuoleprivate di ispirazione religiosa, il 15 nelle scuole pubblicheebraiche. Il problema è che nelle scuole religiose si accentuano ledivisioni interne alla comunità araba, tra musulmani e cristiani e tracristiani cattolici, ortodossi, protestanti o maroniti, mentre illivello delle scuole pubbliche arabe è molto basso, perché sonosottofinanziate dallo stato. In quelle ebraiche, poi, i ragazzisubiscono una narrazione della storia che è completamente diversa daquella che vivono a casa, perdono la lingua e la loro identità». Perquesto la Rabitah, da cinque anni, ha la sua scuola, in cui i dueaggettivi, araba e democratica, indicano un’intenzione pedagogica benprecisa.

La Rabitah si occupa anche di cercare di frenare l’esodo degli arabi daGiaffa, che continua sotto altre spinte: «La Nakba non è finita nel1948. Allora, l’espulsione degli abitanti veniva fatta con la forza,oggi con il denaro». Giaffa infatti vive un periodo di riqualificazioneedilizia, di gentrification: i costi salgono, le tasse anche e gliarabi, per il 50 per cento al di sotto della soglia di povertà, nonpossono più permettersi di vivere lì.

La Rabitah è riuscita a salvaredalla demolizione molte case arabe, che avrebbero dovuto far posto ainuovi edifici previsti dal comune di Tel Aviv per «lanciare» Giaffaanche come attrazione turistica, ed è riuscita anche a far costruire250 nuove case per gli arabi, districandosi nella burocraziaisraeliana, ritagliata in modo da discriminarli, che pure sonoformalmente cittadini: «Per un arabo è molto più difficile avere unmutuo da una banca – spiega Gabi – e poi ci sono una serie difacilitazioni nel lavoro per chi ha fatto il servizio militare. Ma noinon possiamo e non vogliamo fare il servizio militare». Sono solo due dei tanti ostacoli legali che rendono difficile la vitadegli arabi cittadini israeliani, una minoranza che arriva al 20 percento della popolazione di Israele.

La Rabitah cerca di rispondere con l’organizzazione dal basso pertenere viva la comunità: corsi di formazione per i giovani [il 50 percento degli arabi di Giaffa ha meno di 18 anni], restauro delle moschee[le chiese ricevono fondi dall’estero] e lavoro di lobbying politico,per cercare di rimuovere gli ostacoli formali alla piena cittadinanza.

Sembrano, a sentirli elencare così, i problemi di una qualsiasiperiferia depressa delle metropoli occidentali. Se non fosse che dallefinestre ad arco della sede della Rabitah filtra una luce diversa, unasfumatura che c’è solo da questa parte del Mediterraneo.

Fadi Shmeta è, in un certo senso, il prodotto del lavoro di Gabi.Giovane, cordiale, fa parte del direttivo dell’associazione SadakaReut, Arab jewish youth partnership, che ha la sua sede principale aGiaffa. Con una serie di vecchie foto della Giaffa prima della Nakba,Fadi racconta il quartiere di Ajami e spiega come, al di là delleresponsabilità politiche dei governi nella guerra del 1948, latrasformazione di Giaffa in un’appendice di Tel Aviv sia avvenuta dopola guerra: «La combinazione della legge sull’emigrazione, che prevedeche solo gli ebrei possano emigrare in Israele, e quella dellaproprietà di chi è andato via dal paese hanno fatto sì che Giaffacambiasse totalmente faccia».

Degli agrumeti di un tempo, che davanolavoro a migliaia di persone, non resta nulla se non qualche alberoornamentale. Nulla resta del vecchio teatro, che aveva ospitato anchecompagnie europee ed era uno degli occhi dell’elite culturale di Giaffasul resto del mondo. Non resta nulla della vita culturale della cittàaraba, se non una tipografia aperta dalla Rabitah.

Di nuovo, invece,c’è la volontà di affermare un’identità complessa, che non si limita acontemplare le foto in bianco e nero per sognare «un tempo che nontornerà», ma guarda alla sfida di costruire, in Israele e anche con gliisraeliani che accettano di farlo, un’identità nuova, da cittadini diuno stato che si percepisce come democratico ma di fatto e di dirittodiscrimina un’ampia fetta della sua popolazione.

«Il nostro lavoro èinnanzi tutto con le scuole – spiega mentre conduce la delegazione trale case di Ajami – cerchiamo di portare una pedagogia critica che provia decostruire la narrazione dominante sul 1948 e sulla realtà odiernadi Israele per rafforzare invece la narrazione araba. Riequilibrando ledue narrazioni, si può iniziare a ridare fiducia e capacità ai giovaniarabi che saranno il futuro di Giaffa». È un futuro ancora lontano,faticoso perfino da pensare. Ma con solide radici in una memoria cheriaffiora in ogni angolo di strada come in ogni frase di Gabi Abed.

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L’Europa, l’Anp e Israele: una conferenza a Gerusalemme

«Forse l’Europa dovrebbe smettere difinanziare i programmi dell’Anp». «Israele non ascolta gli inviti,ascolta solo le minacce». Sono due delle frasi più inattese dellaconferenza «Il ruolo dell’Europa nella pace in Medio oriente», tenutamartedì mattina nell’auditorium del centro Notre Dame di Gerusalemme, apochi passi dalle mura di Solimano, tra il New Gate e la Porta diDamasco.

È l’evento più classicamente «politico» della Carovana di Time forResponsibilities, organizzata dalla Tavola della Pace e dalCoordinamento enti locali per la pace. Eppure, per la scelta deglioratori, le sorprese sono state molte.

La prima frase è di Sari Nusseibeh, rettore dell’università araba AlQuds di Gerusalemme; la seconda è di Janet Aviad, dell’universitàebraica di Gerusalemme. I loro sono stati gli interventi più applauditidalle oltre quattrocento persone tra italiani, spagnoli e francesiarrivati per ascoltare e riflettere. I rappresentanti dell’Ue, NilsEliasson per la presidenza di turno svedese, e Christian Berger, che aGerusalemme è la Commissione europea, hanno dovuto giocare sulladifensiva. Perché le critiche e le provocazioni sono state molte, daquelle dell’ex patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah, a quelle,dirette, profonde, di Sari Nusseibeh e Janet Aviad.

«Perché l’Ue paga per i programmi per le forze di sicurezza dell’Anp –ha chiesto Sari Nusseibeh – Quando la loro funzione è innanzi tuttoquella di garantire la sicurezza degli israeliani?». «L’occupazione perIsraele è molto conveniente – gli ha fatto eco Janet Aviad – Perchél’Ue paga per le infrastrutture che Israele distrugge? Perché il pesoeconomico dell’occupazione non ricade sulle finanze israeliane».

Christian Berger ha quantificato la spesa: un miliardo di euro l’anno,tra contributi della Commissione e quelli dei singoli stati membri. Unmiliardo di euro l’anno la cui principale funzione è tenere a gallal’Autorità nazionale palestinese e creare le strutture per lo stato cheverrà, se e quando verrà. «L’Ue rimane impegnata sul principio di duestati per due popoli, e su quello di avere uno stato palestinesecredibile, con continuità territoriale, nei confini del 1967, conGerusalemme est come capitale», hanno ripetuto tanto Berger quantoEliasson. «Nessun cambiamento rispetto a questa posizione può essereaccettato dall’Ue – hanno aggiunto – se non c’è l’accordo tra le parti».

Il punto però è proprio questo. Nusseibeh lo ha sottolineato: «Larealtà dei fatti sul campo è che questa ipotesi inizia ad essereimpraticabile, se non lo è già, a causa degli insediamenti che hannocontinuato a crescere in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemmeest». Nusseibeh, la cui famiglia appartiene alla alta borghesiapalestinese, arrivata qui a Gerusalemme con il califfo Omar, ai tempidella prima conquista araba, ammette di «essere più confuso oggi diquanto non fossi qualche anno fa». «Ho pensato per una parte della miavita che lo stato palestinese fosse una necessità, oggi non penso piùcosì. Penso invece che sia importante chiedersi in che tipo di statovogliamo vivere.

A me non interessa se nel futuro vivrò in uno, due otre stati, mi interessa che qualsiasi stato sia, si possa vivere comecittadini con pari diritti e pari dignità. Il rischio che vedo quandosento Obama parlare della soluzione dei due stati e Netanyahurispondere di essere pronto è che sia una soluzione inaccettabile,imposta ai palestinesi. Ci possono essere molte declinazioni dellasoluzione dei due stati, ma una soluzione che non contempli i confinidel 1967, Gerusalemme est e il ritorno dei profughi è esattamentequella voluta dalla destra israeliana, che sicuramente, a questecondizioni, è prontissima ad avere la pace. E le condizioni cherenderebbero accettabile ai palestinesi la soluzione dei due statistanno rapidamente diventando irrealizzabili».

«Se facessimo oggi un sondaggio tra gli israeliani – ha detto Aviad –la risposta sarebbe che la soluzione è quella dei due stati. Ma sechiedessimo ‘quando’, la risposta sarebbe ‘in futuro’. È un processo dipace, direbbero gli israeliani. Ma processo, in Israele, è un modo perdire mai. È come se si vedesse la luce in fondo al tunnel ma non iltunnel stesso».

Aviad ha ricordato come venti anni fa, dopo la prima Intifada, lamaggioranza dell’opinione pubblica israeliana era convinta che ipalestinesi meritassero la pace e uno stato per la loro protesta gliaveva dato il sopravvento morale sulla brutalità dell’occupazione.«Oggi non è più così, oggi c’è bisogno di un nuovo lavoro del movimentopacifista israeliano per riconquistare ciò che venti anni fa sembravacosa fatta – ha detto rammaricata – e per farlo bisogna usare argomentiche anche l’opinione pubblica moderata israeliana può accettare. Quellodi un solo stato per due popoli non è tra questi, l’opinione pubblicaisraeliana, quella che ha dato la vittoria a Netanyahu nelle ultimeelezioni non è preparata a questo. Ciò che si può dire, invece, è chesono i coloni che mettono in pericolo l’esistenza di Israele, sono lorogli antisionisti.

Perché l’occupazione – ha spiegato – il furto diterra palestinese, la violenza stanno delegittimando Israele agli occhidel mondo, e perché l’espansione delle colonie rende sempre piùdifficile ottenere i due stati. Se si lascia passare ancora del tempo –ha concluso – l’unica soluzione possibile, e non scelta, sarà quella diun unico stato per due popoli e dunque Israele non potrà più essere unostato ebraico. È questo il tipo di argomento che l’opinione pubblicaisraeliana può capire. È questo che, con le pressioni internazionali,può spingere a un cambiamento di rotta rispetto al vicolo cieco dove cisiamo infilati. Per uscirne abbiamo bisogno di aiuto».

«Non è vero che spendiamo per la sicurezza degli israeliani – si èdifeso Berger – il miglioramento della situazione dei servizi dipolizia palestinese serve anche alla sicurezza dei palestinesi. E ilpiano del primo ministro Salam Fayyad di due anni per prepararsi allapossibilità dello stato è per noi un impegno da sostenere permigliorare le capacità di governo dei palestinesi, diffondere lo statodi diritto e il rispetto dei diritti umani. Sono queste le posizioniufficiali dell’Ue – ha aggiunto Berger – Forse stiamo andando nelladirezione sbagliata, ma se smettessimo adesso di finanziare l’Anp cosasuccederebbe?».

Berger non azzarda ipotesi sul futuro, né fissacalendari, tappe, programmi. Si limita a dire che l’Ue, come del restol’Anp e il governo israeliano, aspetta che le buone intenzioni delpresidente statunitense Barack Obama diventino un piano preciso. Lasciainsomma ancora una volta l’iniziativa agli Usa, accontentandosi digiocare sulla fascia. Una risposta che non ha convinto chi è venuto aGerusalemme anche per chiedere che l’Ue abbia un ruolo più forte nellasoluzione del conflitto; che sia capace di iniziative che non seguano ibinari fallimentari degli ultimi decenni.

Una risposta
che hadimostrato una cosa: la preoccupazione di non essere troppo duri con ilgoverno israeliano e di non dare l’impressione di «neocolonizzare» ipalestinesi, spinge alla paralisi politica. Al punto da non riuscire avedere altro che una ripetizione in toni sempre più cupi, di unpresente già buio. La risposta del rappresentante della Commissioneeuropea ha dimostrato che in questa parte del mondo, la retoricapacifista è quella dei governi. I cittadini sono sognatori molto piùrealisti.