Il modello decaduto

di Luciano Gallino
da www.repubblica.it

Con le dichiarazioni a favore del posto fisso, ma anche di previdenza e sanità pubblica, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha fissato i punti salienti del programma con cui il centro-sinistra (non la destra) potrebbe presentarsi alle prossime elezioni, quale che sia la loro data.

Non sono dichiarazioni del tutto inedite. A favore del posto fisso e contro la proliferazione del lavoro flessibile Giulio Tremonti si è espresso in varie occasioni negli ultimi due anni. Ma ieri ha collegato l’importanza del posto fisso come “base della società” agli strumenti di protezione delle famiglie, propri dello stato del benessere, quali le pensioni pubbliche e un sistema sanitario nazionale. Ha notato che se le prime dipendono dai centri della finanza, e il secondo non esiste, come avviene in Usa, quando si perde il lavoro si finisce a mangiare cibo per gatti in una roulotte. E addio all’istruzione dei figli.

Il punto è che fino a ieri la società americana era proposta non solo dal centro-destra, ma anche da buona parte del centro-sinistra, come l’essenza della modernizzazione, il modello da imitare per riformare il mercato del lavoro, la previdenza, la scuola, la sanità. Ora uno dei più autorevoli membri d’un governo di centro-destra ci dice, in sostanza, che le riforme del mercato del lavoro erano mal concepite; che per fortuna esiste l’Inps; che la possibilità di andare a scuola (anche se lo stesso ministro ne sta riducendo le risorse) da noi per fortuna non dipende dall’occupazione dei genitori, e che faremo bene a tenerci ben stretta la sanità pubblica.

Sono rivendicazioni del nostro modello sociale che, nell’insieme, avremmo voluto sentire formulare più spesso dal centro-sinistra. Ora che un ministro del centro-destra pare averle fatte proprie, il centro-sinistra dovrebbe farsi sentire. Ha dinanzi parecchie strade. Può limitarsi a dire che un ministro non fa primavera: nel governo ce ne sono infatti molti che lo stato sociale lo farebbero a pezzi domani mattina, non foss’altro perché credono che questo sia il fine ultimo del presidente del Consiglio.

Può chiedere a Tremonti dov’era e di cosa si occupava nel 2003, quando – essendo lui anche allora ministro dell’Economia – fu approvata la Legge 30 che non introduceva di certo ex novo i lavori flessibili, ma ne moltiplicava le tipologie già presenti grazie al protocollo del 1993 e alle riforme del mercato del lavoro avviate con la legge 196/1997. Per contro, potrebbe provare a prenderlo sul serio. Non nel senso di farsi aiutare da lui a completare il programma per le prossime elezioni.

Un’opposizione matura non può sperare soltanto di arrivare al potere per emanare poi le leggi che le aggrada. Può, anzi ovviamente deve, cercare di ottenere dal governo in carica delle leggi migliori dal suo punto di vista.

Si potrebbe quindi chiedere al ministro Tremonti di far seguire i fatti alle impegnative parole che ha ripetutamente profferito a favore del modello sociale italiano ed europeo. Si faccia dunque promotore di una legge che andando al di là della 196/1997 e della 30/2003 ristabilisca il principio per cui il contratto di lavoro dipendente è per definizione a tempo indeterminato, fissando poi un ristretto numero di tipologie contrattuali in deroga da applicare soltanto in casi ben determinati. Se ne gioverebbero non soltanto i lavoratori, ma anche le imprese.

Lo si preghi poi di impegnarsi a favore di una discussione seria sul bilancio dell’Inps e dell’Inpdap, i due maggiori enti previdenziali italiani, e di una rigorosa comparazione internazionale della nostra spesa pensionistica pubblica. Ciò allo scopo di mettere in luce (come fanno da anni alcuni dei migliori specialisti italiani, che mi scuseranno se ne taccio il nome) vari aspetti in genere ignorati: che il bilancio dei suddetti enti sta piuttosto bene; che la nostra spesa pensionistica complessiva è allineata con quella dei maggiori paesi Ue; e che, essendo le nostre pensioni tassate come redditi ordinari, mentre in altri paesi sono in gran parte esentasse, i pensionati italiani non pesano affatto, bensì sostengono il bilancio dello stato con un contributo netto annuo dell’ordine di 15-17 miliardi.

Farsi sorpassare a sinistra da un ministro d’un governo di destra non è solo imbarazzante; può far perdere elettori. Si può tuttavia cercar di recuperare terreno chiedendo al ministro con cortese fermezza di mostrare se ha davvero in mano delle carte atte a sostenere le sue dichiarazioni a favore del posto fisso e dello stato sociale.

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Non è più tempo di pace sociale

di Giuliano Garavini

da www.aprileonline.info

Le recenti dichiarazione del ministro Tremonti sull’opportunità di ritornare al “posto fisso” sono una lezioncina alla sinistra che ha tutto il sapore della presa in giro. Tremonti predica il posto fisso. La Chiesa di Ratzinger invoca la responsabilità sociale delle imprese e dei paesi ricchi. Sacconi e la CISL chiedono la partecipazione agli utili delle imprese. E tutti insieme intendono una società più gerarchica, depauperata di meccanismi di partecipazione democratica, raccolta intorno alle elemosina che i ricchi vorranno concedere ai poveri

La verità che è finito il tempo della pace sociale: quella pace continuamente invocata da Tremonti, Sacconi e Ratzinger. Questo tempo è scaduto simbolicamente il giorno in cui il Governo e la Confindustria hanno dichiarato guerra alla CGIL, dopo che per oltre venti anni questa aveva pacatamente accettato riduzioni dei salari reali, aumenti dei prezzi dei servizi e continue privatizzazioni, espandersi del sistema del precariato che scarica sui giovani le incertezze della competizione commerciale e finanziaria globale. La ricompensa per questo atteggiamento “responsabile” è stata che, alla prima pesante crisi economica, si è colta al volo l’occasione per scardinare l’unità dei sindacati e spezzare le reni all’unico sindacato confederale che aspira a mantenere un rapporto diretto con il mondo del lavoro e favorire la sua partecipazione ai processi decisionali.

E siccome c’è gente che fraintende: che sia finita la pace sociale, non significa ovviamente che sia iniziato il tempo delle rivolte armate. Significa invece qualcosa di più complesso e di più duraturo. Significa che a livello sindacale occorre mutare radicalmente la strategia della concertazione per aprire una nuova stagione in cui si ricostruisca il rapporto con i lavoratori e, soprattutto, con il mondo del precariato. Occorre un cambiamento che porti, già dal prossimo congresso, alla guida del maggior sindacato confederale chi lo considera un luogo indipendente dalle contese interne ai partiti, in grado di leggere l’economia nazionale e internazionale e proporre ricette autonome e non semplicemente farsi trainare dalle analisi di organismi internazionali come l’OCSE o il Fondo Monetario.

Significa, a livello politico, che il tempo delle microscissioni, il tempo di quella che Corrado Guzzanti definirebbe “la strategia del microrganismo” (vincere sparendo dal mondo del visibile), non ha più senso. Non hanno più senso quelli che “Di Pietro non è di sinistra”. Occorre un fronte comune di tutte le opposizioni sociali, da Rifondazione a Di Pietro, che muovano una battaglia su alcune questioni comuni per arginare la frana della costante privatizzazione di tutti gli interessi pubblici: moratoria sui licenziamenti e su ogni ulteriore privatizzazioni dei servizi pubblici, abolizione dei contratti precari, istituzione di referendum obbligatori fra tutti i lavoratori sui contratti nazionali, salvaguardia delle pensioni di anziani e giovani, fine della guerra in Afghanistan, richiesta di referendum su ogni m
odifica dei trattati europei. Poi come presentarsi alle prossime elezioni si vedrà, a seconda di chi sia più concretamente (e non nelle assemblee) in grado di interpretare questo desiderio di battaglia sociale.

E significa che ogni individuo di sinistra deve essere investito della responsabilità di dar vita ad associazioni, gruppi che mettano insieme le persone sulle questioni più disparate, operando concretamente perché la cooperazione, il pubblico, la partecipazione e l’eguaglianza tornino, delineate in modo nuovo ed attraente, ad essere egemoni nella società. La cultura di sinistra deve smettere di trincerarsi nelle “riserve indiane” e aspirare nuovamente a farsi sentire da tutti, perché il mondo è migliore di quello che sembri a guardarlo in televisione.

Attendere che tutto questo accada dall’alto, magari scaricandosi la coscienza con un voto alle primarie ad un bravo chirurgo o ad un bravo amministratore regionale, è velleitario; perché la pace sociale deve finire prima di tutto dentro ogni persona, che deve ritrovare la convinzione di poter imporre concreti cambiamenti sociali e la forza di battersi attivamente per le cose in cui crede. Non servono dei tifosi oggi che la pace sociale deve andare in cantina, servono dei giocatori che si impegnino ognuno al meglio delle proprie competenze.