La strategia per uscire dall’inferno afgano

di Lucio Caracciolo
da www.repubblica.it

Morire per Kabul? Il sacrificio dei nostri paracadutisti impone di rispondere a questa domanda. Per rispetto dei caduti e per responsabilità verso noi stessi. Con la sobrietà che il dolore consente. Con la gravità che la guerra induce.

Sì, guerra: la parola che i nostri dirigenti politici e militari hanno sempre scansato. Mancando così al dovere di verità che la democrazia pretende da chi ne esercita le magistrature.

La sconfortante cacofonia dei nostri governanti, dal “tutti a casa” di Bossi a “la missione continua” di La Russa, con Berlusconi in precario equilibrio fra i due inconciliabili estremi, non onora questo debito.

Al di là della retorica pubblica, finora la razionalizzazione prevalente fra i sostenitori dell’impegno afgano era piuttosto semplice: l’Italia ha seguito in Afghanistan i suoi alleati atlantici. Non vi persegue interesse altro dal proteggere il suo rango di paese Nato. Dunque considera vitale il successo della missione di “stabilizzazione e assistenza”. A Kabul ci giochiamo nientemeno che l’alleanza con Washington. Si può condividere o meno tale interpretazione – probabilmente forzata, giacché Obama ha altre urgenze rispetto alla compartecipazione italiana all’impresa afgana. Peccato tacerla, o riservarla ai seminari off the record, senza fornirne un’altra che non suoni retorica.

Ma se siamo a Kabul al seguito degli Stati Uniti, conviene almeno conoscere gli obiettivi della guerra, secondo chi l’ha promossa e continua a guidarla. “Lo scopo principale degli Stati Uniti dev’essere quello di distruggere, smantellare e sconfiggere al-Qaida e i suoi santuari in Pakistan e prevenire il suo rientro in Afghanistan e Pakistan”: parola di Obama (27 marzo 2009). Otto anni di combattimenti non sono bastati agli americani per sconfiggere la piovra jihadista responsabile dell’11 settembre. Quasi il doppio del tempo impiegato dalla nascente superpotenza per vincere le due guerre mondiali, con i decisivi interventi del 1917-18 e del 1941-45. A meno di non considerare bin Laden più potente degli imperi di Germania e Giappone, occorrerà ammettere che qualcosa non torna. Vediamo.

In primo luogo, è escluso che qualsiasi potenza straniera possa assumere direttamente il controllo dell'”Afpak”. Obama lo sa bene. Per questo punta sull'”afganizzazione” del conflitto. Ma la sua priorità è il Pakistan: qui è costretto a servirsi dei poco affidabili capi militari in quanto unico potere effettivo, deputato a impedire che l’arsenale atomico finisca ai terroristi.

Opzioni sensate, sulla carta. Sul terreno è un po’ diverso: in Afghanistan manca lo Stato, mentre ciò che ancora funziona di quello pakistano – Forze armate e intelligence – ha inventato i taliban e continua a utilizzarli come affiliati nel braccio di ferro con l’India.
In secondo luogo, la strategia di controinsurrezione varata dal nuovo comandante Usa/Nato, generale McChrystal, dosa repressione militare e conquista “dei cuori e delle menti” della popolazione locale.

Obiettivo: impedire che gli insorti, taliban o banditi d’altra specie, continuino a reclutare giovani disoccupati per mandarli a morire contro gli “infedeli invasori” (tra cui noi). In assenza di un potere afgano che possa contribuire allo scopo, il compito cade sulle spalle della missione a guida Nato e in specie degli americani. Ma come testimonia il recente massacro di Kunduz, la repressione armata colpisce i civili quanto i terroristi. Se i soldati atlantici – in quel caso tedeschi – non vogliono o non possono affrontare i taliban sul terreno, cercano di colpirli dall’alto, con i risultati che vediamo. Così si alimenta la rivolta che si vorrebbe sedare. Né basta pagare qualche signorotto locale perché tenga a bada i suoi uomini di mano. I capibastone sanno bene che potranno intascare i dollari americani solo se la strage continua.
Torna alla mente la sentenza di un ufficiale ex sovietico, veterano della campagna contro i mujahidin: “La Nato in Afghanistan ha fatto un solo errore. Entrarci”.

Che fare, dunque? Facile affermare che siamo parte di un’alleanza e quindi facciamo quel che decide la Nato, ossia l’America. Proprio perché partecipiamo a una missione internazionale, abbiamo il dovere di elaborare, esporre e sostenere il nostro punto di vista.

Come fanno i nostri partner. Nessuno escluso.
Ora, molti fra i responsabili dei paesi che partecipano ad Isaf sembrano convinti che la vittoria sia impossibile. Ma non osano confessarlo. Soprattutto perché non sembrano disporre di alternative. Ma fra sognare un utopico trionfo e rassegnarsi alla catastrofe c’è un universo di sfumature. E’ lo spazio della politica e della fantasia strategica. Proviamo a riempirlo, proponendo qualche variazione a uno spartito tragicamente dissonante. Consapevoli che perseverare in un approccio che dopo otto anni ci riporta alla casella di partenza è puro masochismo.

Anzitutto, ricalibriamo l’obiettivo. L’Afghanistan non diventerà uno Stato e tantomeno una democrazia nel tempo prevedibile. Per limitare il rischio che si riduca a buco nero permanente, a disposizione dell’internazionale jihadista, occorre puntare su un equilibrio dinamico, non istituzionalizzato. Inutile, anzi suicida, inventare paradossali “elezioni”, quasi fossimo in Occidente, con il risultato che chiunque le “vinca” – a cominciare da colui che più di tutti le ha truccate, il presidente Karzai – non potrà esercitare alcuna autorità.

Badiamo al sodo: nella storia afgana il potere centrale è funzione di quello locale. Mai viceversa. Come vuole la tradizione e come consente perfino la costituzione, azzeriamo la truffa e torniamo alla fonte del potere, convocando una loya jirga. Una grande assemblea dei capi tribali e dei rappresentanti delle etnie, banditi inclusi, che pullulano nel mosaico afgano. Questo “comitato di salute pubblica” si doterà di un presidente abilitato a trattare col resto del mondo, a nome dei feudatari – i signori della droga e della guerra – che contano davvero. E che dovrebbero condividere un certo interesse a liberarsi da ciò che residua di al-Qaida almeno quanto vorrebbero emanciparsi dall’occupazione occidentale (non dal nostro aiuto economico, peraltro modesto).

Per finirla con la guerra dei trent’anni, riportare i ragazzi a casa e continuare la caccia ai terroristi con operazioni puntuali in un territorio meno ostile, ci serve un potere legittimo. Non secondo noi, secondo gli afgani. Qualcuno dovrà spiegarlo anche al signor Karzai.

Per questo non basta il consenso degli atlantici. Il nuovo potere afgano deve (s)contentare in misura accettabile tutte le potenze regionali. Una conferenza internazionale che riunisca insieme ad americani e atlantici i paesi vicini o interessati, dal Pakistan all’Iran, dalla Cina all’India e alla Russia, potrebbe coronare il processo di rilegittimazione dell’Afghanistan. Senza illudersi che sia pacifico e definitivo. Scontando anzi quel grado di ingovernabilità e di violenza insito nella natura non statuale del territorio che sulle nostre carte persistiamo a colorare d’una tinta unitaria, quasi fosse la Francia o l’Olanda.

Probabilmente è tardi. Ma se questo scenario appare irrealistico, meglio dirlo subito. E avviare il ritiro delle truppe. In nome del nostro interesse di Stato democratico sovrano.