Discriminazione di genere e inquinamento visivo

di Claudia Moretti
da www.aprileonline.info

La donna e i media, che fare? Non pare eccessivo parlare di inquinamento visivo. Sembra ovvio, ma forse non lo si sente dire abbastanza, che attraverso il visivo si perpetuano forme di disuguaglianza sociale che proprio di quell’immaginario consolidato si avvalgono per legittimarsi

Si chiamano studi di genere (gender studies)* e affrontano il problema delle sottili discriminazioni su base sessuale che si annidano all’interno delle società più sviluppate. Società che apertamente si fondano sulla parità uomo donna, ma che evidentemente riconoscono ancora la presenza di insidie che tutt’oggi permangono nella cultura dominante che proviene dal passato.

In Italia evidentemente la materia è agli esordi, se si pensa che in Paesi come gli Stati Uniti gli studi di genere vengono impartiti agli studenti dei corsi di laurea più disparati, dalla musica, alla storia, all’economia ecc., segno evidente che si tratta di materia ritenuta fondamentale nella creazione di una coscienza collettiva critica sui rapporti uomo donna.

Ciò non di meno, anche qui da noi pare bollire in pentola un nuovo fermento. Certo, è indubbio il ruolo delle ultime vicende mediatiche che hanno coinvolto il Premier, le sue veline, le ‘sparate’ televisive contro la Bindi e le reazioni di alcuni giornali che hanno raccolto il malcontento delle donne, come l’appello del quotidiano La Repubblica.

Ma forse non è tutto qui, forse si comincia oggi timidamente ad aprire gli occhi sul baratro in cui è sprofondata l’immagine collettiva della donna, schiacciata tra il ruolo di moglie con il mocio Vileda in mano, oppure nuda e rifatta a sgonnellare accanto al conduttore.

Si cita in proposito l’ottimo video documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi, che ha affrontato senza velo la condizione televisiva del genere femminile sui nostri schermi televisivi **.

Quali sono gli effetti di queste immagini e simboli sull’immaginario collettivo e – di conseguenza – sui rapporti sociali? Perché la donna accetta una visione di se stessa che la vede nuda, sgambettante intorno all’uomo avallando così la propria subalternità socio culturale nei confronti del genere maschile? Tali, fra gli altri, sono i quesiti cui gli studi di genere intendono sciogliere.

Non pare eccessivo parlare di inquinamento visivo. Sembra ovvio, ma forse non lo si sente dire abbastanza, che attraverso il visivo si perpetuano forme di disuguaglianza sociale che proprio di quell’immaginario consolidato si avvalgono per legittimarsi.

L’inquinamento consiste proprio nel far apparire “normali”, “naturali” le disuguaglianze, che in realtà trovano invece profonde radici nella cultura e nelle politica di un popolo ancora involuto in punto di parità fra generi.

In Italia ad esempio, appare ovvio che in una pubblicità di un detersivo una signora sulla quarantina pulisca la casa e stiri la camicia al marito, e ciò costituisce il modello e la base “familiare” sulla quale si fonda lo spot. In Francia, probabilmente, il pubblicitario si rivolge al pubblico femminile e maschile con altri stereotipi: la donna sulla quarantina fa yoga e dialoga con le amiche.

Insomma, nella società postmoderna, l’immagine, ben più della parola e della norma, detta regole su ciò che siamo, come ci poniamo, i modelli, i sogni e gli obbiettivi che ci auto-diamo o che ci son dati. Ma cosa fare?

Due cose, forse. In primo luogo parlarne e prenderne coscienza. Tutti, uomini e donne. Già, perché anche molti uomini si sentono offesi dalla spazzatura mediatica con cui si incarnano oggi gli idoli e gli ideali, sia maschili che femminili. Non tutti gli uomini hanno a cuore il rimanere depositari di un vecchio privilegio di dominio, che li vede protagonisti in scene degne di commedie all’italiana.

Non tutti si sentono a proprio agio in questa dinamica sociale che li bolla di fatto come guardoni, sempre in cerca di seni e sederi su cui costruire in toto la propria sessualità. Molti, ma molti no. Così come anche le donne, del resto, possono forse prender coscienza dello squallore che circonda la propria figura al fianco dell’uomo, degli standard estetici che le sono imposti a tutte le età, dell’esigenza di recuperare una identità dignitosa, che non passi attraverso un proprio fedele adempimento.

In secondo luogo, forse, occorre porsi nuovi obbiettivi normativi a tutela della discriminazione di genere, che affrontino non solo il problema della parità sul luogo di lavoro, piuttosto che i gravi problemi relativi alla maternità.

Ma anche quello di eliminare gli strumenti (nel caso le immagini) con cui in modo silente, e nemmeno troppo nel caso Italia, si perpetua l’assoggettamento e la discriminazione nei confronti delle donne. Partire dal concetto che le immagini “pesano”, “inquinano” e determinano le attitudini sociali più di quanto si sia pronti a riconoscere.

Che il “simbolo” incide. Così come è vietata la pubblicità della sigaretta, o così come non si tollererebbe una pubblicità razzista o pedofila, allo stesso modo possiamo considerare lesive le immagini della donna oggetto, o della donna che assume ruoli di assoggettamento nei confronti dell’uomo, in termini di ruolo familiare, di compito assegnato dalla società, di soggetto meramente passivo della bramosità dell’uomo. Almeno nei messaggi pubblicitari a scopo commerciale.

Potremmo cominciare a parlarne, esattamente come si parla di quote rosa, se politicamente si volessero raggiungere gli obbiettivi della parità uomo donna.

* Si veda Gender e Media, Verso un immaginario sostenibile a cura di Anna Lisa Tota, che ringraziamo per la pubblicazione e da cui abbiamo tratto spunto per la stesura del presente articolo.
** http://www.ilcorpodelledonne.net/?page_id=89