Amore e lavoro: i nessi che non si vogliono vedere

di Lea Melandri
da www.womenews.net

Tra quelli che Freud, nel Disagio della civiltà, indica come i due fondamenti della vita in comune -la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”-, intercorrono da sempre nessi, implicazioni reciproche che non sono state indagate a sufficienza.

Lo stesso si può dire per binomi analoghi, come famiglia-Stato, corpo-polis, individuo-società, con cui è andato confuso il destino dei due sessi.

Le donne sono state storicamente confinate sul versante che è parso più vicino alla loro ‘natura’ di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia; l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: “come una stirpe –scrive sempre Freud- o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo”.

E’ ormai da alcuni secoli che le donne hanno cominciato la loro migrazione verso i territori riservati all’altro sesso, tanto che oggi si può parlare di una ‘femminilizzazione’ dello spazio pubblico. Tuttavia, tenendo conto che nel rapporto tra i sessi le ‘permanenze’ sono molto più frequenti dei cambiamenti, è lecito chiedersi quanto lo spostamento dei confini tra privato e pubblico abbia modificato il destino femminile, la collocazione materiale e simbolica che l’uomo ha assegnato alla donna.

Mi riferisco in particolare alla definizione del femminile come corpo-materia-sessualità e procreazione, appartenenza e asservimento all’uomo –mogli di, madre di, in mancanza di individualità propria.

E’ su questo impianto originario che occorre portare l’attenzione, se si vuole uscire da alcuni dilemmi che ancora si agitano intorno al lavoro femminile, gli stessi che impediscono di vedere nel ‘lavoro di cura’, e nel ‘lavoro domestico’, cioè nella ‘riproduzione sociale’, un ‘grande aggregato dell’economia generale’, invisibile e quindi sottratto alla negoziazione politica ( Antonella Picchio).

Al di là delle costruzioni immaginarie che la cultura maschile vi ha messo sopra nel corso del tempo, è ipotizzabile che all’origine, a determinare il destino della donna, siano state la capacità biologica di fare figli e la soddisfazione sessuale che l’uomo ha tratto dal suo corpo.
Intorno a queste due ‘potenti attrattive’ si è strutturato il paradosso o la contraddizione che rende tutt’ora così difficile uscire dalla divisione sessuale del lavoro.

La maternità è ciò che rende la donna potente agli occhi dell’uomo figlio, il quale dipende da lei per la nascita, le cure e l’amore, essenziali per la sua sopravvivenza; ma è stata anche, storicamente, la ragione per escludere le donne dalla polis, mantenerle in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica.

Di questo capovolgimento parla in modo esplicito J.J.Rousseu nell’Emilio: “il più forte è apparentemente il padrone, ma di fatto dipende dal più debole”, “la prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”.

Di quanto le donne abbiano, a loro volta, confuso la forza con la debolezza, l’amore per l’altro con la cancellazione di sé, la dedizione materna con la sessualità, sono testimonianza alcuni frammenti di “lucida intuizione” di Sibilla Aleramo: “impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria.1908”; “senso interiore di disprezzo per se stessi e di considerazione esagerata per gli oppressori, amore e odio insieme”; “ero schiava della mia forza: della mia creatrice immaginazione ormai…il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché, senza soggetto quasi”.

Che l’aspetto duplice, ambivalente, della maternità e della seduzione, sia stato così poco analizzato e scalfito a fondo, lo dimostra il fatto che lo si ritrova lungo tutta la storia dell’emancipazionismo del ‘900, fino alla sua ricomparsa in quella che si può definire oggi la ‘femminilizzazione’ della sfera pubblica. Unica eccezione resta il femminismo degli anni ’70, che aveva individuato proprio nel corpo –sessualità e maternità- l’espropriazione di esistenza che le donne hanno subito, e nella riappropriazione di una individualità intera l’uscita dal destino di mogli e di madri.

Le battaglie delle donne del secolo scorso hanno ricalcato quasi sempre il binomio ‘uguaglianza-differenza’: omologazione al modello maschile o valorizzazione delle ‘doti femminili’, le “virtù domestiche” da impegnare, come diceva Maria Montessori, nella vita sociale, per opere di assistenza e prevenzione.

Oggi, pur restando ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere ‘competenze’ femminili, capacità relazionale, flessibilità, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale.

Alla ‘differenza’ femminile si aprono territori inaspettati, ma ancora una volta può fare la sua comparsa solo come ‘risorsa’, ‘merce preziosa’, ‘valore aggiunto’ e complementare di un ‘intero’ che non cambia volto, mentre potenzia, nella riunificazione dei due rami della specie umana, le sue capacità.

La scena pubblica viene a prendere la figura di un doppio, l’uomo-femmina, da sempre presente nei miti della cultura maschile, come ricomposizione armoniosa di ciò che la storia ha separato e contrapposto secondo un preciso ordine gerarchico.

Il corpo femminile, nella sua duplice valenza –erotica e materna- entra prepotentemente nell’economia e nella politica, dalla televisione al mercato pubblicitario, dai Palazzi del potere alla produzione industriale. Con un’unica differenza: mentre il corpo nudo della donna-immagine, della escort o della ‘velina’, provocano sussulti di indignazione, non accade altrettanto per l’uso, a costo zero, che il potere aziendale fa delle ‘doti materne’ -cura dei rapporti interpersonali, fluidificazione dei contrasti, dispensa di affetti e di attenzione.

Contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio di molte donne di conciliare maternità e lavoro, il “doppio sì” di cui parla il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano nel Quaderno di Via Dogana 2008.

La ‘cura’, che le donne prodigano gratuitamente all’interno delle case, svalutata per la contaminazione col corpo e con la dipendenza, con i bisogni essenziali della persona, cambia segno, diventa, nell’analisi della Libreria delle donne di Milano, il valore sulla base del quale rivendicare il part-time come “gesto di libertà femminile”, “autodeterminazione dei tempi di lavoro”.

Il paradosso del femminile, già descritto lucidamente da Virginia Woolf come “insignificanza storica ed esaltazione immaginativa” delle donne, prende nuovi nomi ma non cambia nella sostanza.

Una nuova forma di emancipazione, scoppiettante di promesse, rivincite, privilegi inaspettati, viene a prendere il posto delle “oscure carriere” che la Woolf aveva previsto per le generazioni future di donne impegnate nella vita pubblica.

Allo sforzo di somigliare all’uomo si sostituisce una strada più facile e più rapida, incoraggiata a quanto sembra da entrambi i sessi: valorizzazione delle attrattiv
e che l’uomo ha visto nel corpo femminile e che, cadute alcune barriere di controllo patriarcale e di pudore, possono essere oggi impugnate dalle donne stesse come ‘rivalsa’ e come ‘capitale’ da far fruttare sul mercato del denaro e del successo.

Lo scambio sessuo-economico, venuto alla ribalta con le vicende berlusconiane, è solo l’aspetto più vistoso di un processo che vede il corpo, la sessualità, ma anche la maternità, emanciparsi in quanto tali. La donna celebra il suo ingresso nella polis come ‘genere’ portatore di ‘valori’ divenuti indispensabili, ma pur sempre ‘aggiuntivi’.

Indigna il corpo ‘prostituito’ delle ‘veline’e delle ‘escort’, mentre passa come felice uscita dalla minorità l’elogio che ogni giorno la stampa più vicina alla Confindustria e le ricercatrici dell’Università Bocconi, fanno del ‘valore D’, del management che si tinge di rosa.

Il bisogno di migliorare i profitti si viene a sposare con quel desiderio di maternità, “inscritto -si legge in “Sottosopra”, ottobre 2009, Immagina che il lavoro- nel corpo e nella mente delle donne”.
L’ondata di critiche e di appelli, che giustamente si sono alzati contro il sessismo di Stato e contro la misoginia diffusa nei media, rischia dunque di far passare in ombra una ‘conciliazione’ senza conflitti tra la forza lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere patriarcale e capitalistico.

Amore e lavoro, riunificati nello spazio pubblico, possono far calare di nuovo sulle coscienze il “lungo sonno” che ha impedito fino alle soglie della modernità di sottrarre alla ‘natura’ il dominio di un sesso sull’altro.

Riportare alla maternità, come tempo da dedicare a un figlio, piacere di vederlo crescere, la mole di lavoro senza sosta che comporta la quotidiana vita famigliare, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati e adulti perfettamente sani ma avvezzi ad avere chi si preoccupa del loro buon vivere, vuol dire, di fatto, lasciare che continui a pesare essenzialmente sulle donne la responsabilità delle condizioni indispensabili per la continuità della vita, confermare la ‘natura’ salvifica delle donne e la loro complementarietà rispetto a un modello dominante maschile a cui si chiede solo di farsi più attento ai desideri dell’altro sesso.

Tornare a nominare, come è stato fatto da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo, la quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo, nel momento in cui le case si riempiono di collaboratrici domestiche e di ‘badanti’ straniere.

Ma se si prende in mano un volantino di quegli anni, ci si può accorgere facilmente che la monetizzazione, là dove lo consentono le condizioni sociali, di una parte di lavoro domestico, non ha sciolto né l’intreccio di lavoro e di affetti, né la svalutazione che porta ad assegnare la ‘cura’ alla parte svantaggiata della popolazione, né la convenienza per il capitalismo di avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro dell’etica pubblica e della responsabilità politica.

“Anche se noi lavoriamo fuori casa, le responsabilità della casa e dei figli rimangono sempre nostri. Non si vuole riconoscere questo come un lavoro, ma come una funzione naturale della donna e quindi non ci viene neanche pagato. Tutto questo non ha niente a che vedere con le nostre caratteristiche biologiche, con la nostra capacità di partorire. Tutte le donne sanno che, per quanto doloroso sia il parto, esso è ancora poco in confronto alla fatica sfibrante di tutti i giorni che lo seguono. Non solo quindi partorire in questo modo non è naturale, ma di certo anche accudire i figli (e i loro padri) in questo modo non è naturale…

Il peso del funzionamento della casa è tutto sociale. Le donne non fanno i figli da sole, li crescono da sole. Proprio perché noi facciamo tutto questo gratis, il capitalismo risparmia tutti i miliardi che altrimenti dovrebbero spendere in servizi sociali. Noi sosteniamo i nidi, le scuole materne, le mense, le lavanderie nei quartieri, suppliamo a tutte le carenze dei servizi, anche di quelli sanitari.

Se si ammala un nostro familiare chi lo assiste siamo ancora noi donne, sia che stiamo a casa, sia che venga ricoverato in ospedale. Anche negli ospedali noi copriamo con il nostro lavoro gratuito di assistenza, giorno e notte, la mancanza di personale sanitario.

Ancora una volta il nostro lavoro, imposto come ricatto affettivo, non viene riconosciuto come tale. Negli ospedali le donne spazzano i pavimenti, lavano i gabinetti, o fanno le infermiere, di sicuro non sono mai primari. Anche negli ospedali le donne vengono ricattate con il loro ‘ruolo femminile’ e costrette a fare i lavori più pesanti”. (Basta tacere, Lotta Femminista, Ferrara, 1973). (Donne, riserva gratuita del capitale -Gli Altri, 24 ottobre 2009)