Come rappresentare il lavoro delle donne?

di Paola di Cori
da www.womenews.net

Come rappresentare il lavoro femminile? Come descriverlo e raccontarlo cercando di dar conto dei cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, senza riproporre antiche stereotipie? In poche parole: come renderlo a un tempo narrativamente credibile, socialmente accettabile, e anche televisivamente attraente?

Lo sceneggiato Le segretarie del sesto, trasmesso da Rai1 domenica 25 e lunedì 26 ottobre in prima serata, è rivolto principalmente a un pubblico femminile, in buona parte donne in età matura, famiglie che preferiscono guardare storie ‘tranquille’ e non violente; senza delitti e misteri, sul tipo di Un medico in famiglia, privi di modelli irraggiungibili e fantasiosi come alcuni proposti da Canale 5, fatti di improbabili trame di palazzo, con eroi che si lanciano a cavallo in piena notte sotto il temporale per raggiungere l’amata in pericolo.

Le segretarie del sesto [inteso come piano dell’edificio che ospita una compagnia di assicurazioni presso cui le suddette lavorano] dovrebbe nelle intenzioni dei suoi ideatori trattare di donne che svolgono mansioni cosiddette ‘di servizio’; gente “come noi”, che si arrabatta, soffre e fatica per tenere insieme: lavoro, mariti, figli e famiglia, solitudini e sogni d’amore, ambizioni e buoni sentimenti.

Anche queste due puntate, simili a Commesse di qualche anno fa e ad altri sceneggiati le cui protagoniste sono donne che si guadagnano il pane, che si alzano presto la mattina ed escono di casa per andare in ufficio, in negozio, in studio, ripropongono un problema fondamentale; su cui si arrovellano non solo sceneggiatori e registi televisivi, ma anche tutte e tutti noi: come rappresentare il lavoro femminile?

Come descriverlo e raccontarlo cercando di dar conto dei cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, senza riproporre antiche stereotipie? In poche parole: come renderlo a un tempo narrativamente credibile, socialmente accettabile, e anche televisivamente attraente?

Fino a poco tempo fa sembrava abbastanza semplice trasferire su schermo – piccolo o grande poco importa – intricate trame sentimentali all’interno dei generi consolidati: drammatico, poliziesco o brillante.

A seconda del contesto spazio-temporale si trattava di mostrare il progressivo inserimento delle donne e la loro presenza in ruoli un tempo a loro vietati – per esempio, la polizia e l’esercito, i livelli alti della dirigenza industriale, laboratori e centri di ricerca, ecc.

In queste finzioni televisive, generalmente le donne sono di volta in volta descritte come: ambiziose, astute, abili, intriganti, isteriche, invidiose, crudeli, perverse, lussuriose, arroganti, depresse, viziose, ribelli; oppure, all’opposto: affettuose, tenere, prudenti, materne, generose, dimesse, sorridenti, disponibili, virtuose, ubbidienti, avvedute, protettive, attente, paciose.

All’interno di presentazioni delle protagoniste invariabilmente racchiuse dentro corpi snelli ed eleganti, oppure artificiosamente trasandati, ciò che non manca mai sono le diverse figure femminili derivate dalle due polarità ‘aggettivate’ come sopra, riassumibili nell’eterno binomio Eva/Maria.

Nelle eccezioni riguardanti la rappresentazione di maltrattamenti, emarginazioni e violenze, i toni si fanno più coinvolgenti, ma la sostanza rimane identica: il lavoro che le donne svolgono materialmente, si vede poco, e sembra contare ancor meno; in genere è reso invisibile o irrilevante, tranne nei casi e per gli aspetti che riguardano un’enorme fatica fisica o la degradazione estrema, due eccessi da condannare.

Sminuire la concretezza del lavoro femminile serve a mantenere inalterata la forza della superiorità maschile: se ciò che le donne fanno è irrilevante, occorre accentuare le raffigurazioni relative al comportamento e al carattere.

Nelle serie televisive provenienti dal mondo anglofono la rappresentazione è del tutto diversa; non soltanto le sceneggiature sono spesso di livello eccellente, ma le trame risultano convincenti proprio perché accurate nel dare visibilità e contenuti al modo di lavorare.

Con la forza travolgente di un impulso atavico che spinge a riproporre immagini considerate naturali ed eterne, in Italia la millenaria scissione tra Eva e Maria si ripresenta puntualmente ogni volta che bisogna descrivere cosa fanno le donne.
L’aggettivazione diventa indispensabile per rappresentare e raccontare il lavoro femminile, che non sembra mai avere delle caratteristiche specifiche, oggettivabili al pari di quello maschile.
Il quale costituisce il prototipo per eccellenza cui adeguarsi.

Differenziarsi, introdurre modifiche, allontanarsi dal modello originario, significa lavorare male, o meglio: non saper lavorare.
In fondo, la questione del mobbing – sempre implicita e presente per le donne che lavorano – non è che questo: un insieme di pregiudizi e comportamenti aggressivi derivati da stereotipi ben radicati, che si combina con altrettanto consolidati principi autoritari basati sulla presunta ‘naturale’ inferiorità femminile – una concezione accettata e diffusa a livello sociale, e quindi spesso interiorizzata anche dalle donne stesse.

Intorno a tutto questo, principalmente per impulso del femminismo, da decenni possiamo contare su un patrimonio ragguardevole di esperienze personali raccontate e analizzate, studi pubblicati, ricerche fondamentali svolte da donne di provenienze diverse; e anche su una ricca produzione artistica, ottimi film, testi letterari, serie televisive, fumetti.

A questo punto ci potremmo illudere che tanta elaborazione abbia chiarito le cose; che una volta individuate le cause di sofferenze, umiliazioni e diseguaglianze sul lavoro, la parte più difficile sia ormai alle spalle; e quindi spingerci fino a pensare che avendo capito tutto, sia possibile avviarci verso una difficile ma in fondo rassicurante vertenza di denuncia con i diversi interlocutori di turno, forti di inoppugnabili dati alla mano. Ma non è così, per molte ragioni, che solo in parte conosciamo. Alcune delle quali sono bene esplicitate dalle Segretarie del sesto trasmesse da Rai1.

Ed è forse l’unica cosa interessante di un prodotto nell’insieme assai modesto, irritante per i luoghi comuni sparsi abbondantemente, e la banalità della trama.
Ma in siffatto mediocre tritume, un elemento spicca con estrema chiarezza: il lavoro, considerato in astratto, è una attività squisitamente maschile, anche quando a svolgerlo sono le donne.

Di conseguenza, sembrerebbe potersi dedurre: una donna che lavora è come un uomo; e quando occorre far risaltare la differenza tra l’una e l’altro, la soluzione diventa quella di ricorrere a Eva e Maria.

Nello sceneggiato, le protagoniste sono colte principalmente mentre si dirigono verso il luogo di lavoro, o camminano nei corridoi; sedute a gingillarsi, in piedi nella propria stanza come in attesa di qualcosa, oppure nei momenti di intervallo esterni all’ufficio (vicino alla macchinetta del caffè, al bagno mentre si truccano, in ascensore).

In brevi excursus le vediamo fuori dall’edificio (in casa, o a letto con qualcuno; solo quest’ultima sembra un’attività degna di qualche visibilità, nessuna delle donne viene infatti descritta mentre pulisce, cucina o si occupa dei bambini).

I dialoghi riguardano pettegolezzi su promozioni e carriere di tizio e caio, pene d’amore, stress per il cattivo carattere del proprio capo. In realtà, ciò che salta agli occhi è che, mentre passano tanto tempo a spettegolare e lamentarsi, quando lavorano non si sa né si vede e tanto meno si intuisce che sono impegnate in attività che richiedono competenze specifiche e concentrazione.
Solitamente svolgono piccole mansioni di carattere assistenziale: preparare il caffè, rispondere al telefono e a
chi bussa alla porta, archiviare o rintracciare le pratiche, riferire messaggi.
Del tutto casualmente si viene a sapere che una delle ragazze, guarda caso la più svampita, è in realtà una laureata in informatica particolarmente abile; l’unica dirigente non la vediamo mai mentre svolge i propri compiti.

Neanche il lavoro degli uomini è descritto in dettaglio, se per questo; ma la rilevanza di ciò che fanno si deduce da qualche breve e scontato quadretto: dirigono i diversi settori, danno ordini, siedono al tavolo dove si prendono le decisioni importanti, non rispondono mai direttamente al telefono né schedano i documenti, essendo questi alcuni dei compiti svolti dalle segretarie.

Soltanto in un exploit rabbioso con il dirigente-amante che l’ha da poco lasciata dopo 15 anni per potersi dedicare a curare la moglie malata [alla fine salterà fuori che era tutta una montatura], veniamo a conoscenza che tutto il lavoro in realtà l’ha svolto lei, la segretaria; la quale ottiene come unica ricompensa, mandata dalla moglie-rivale, il dono di una borsa – la stessa che poco tempo prima è stata proprio lei a scegliere come regalo per la moglie del capo su incarico di quest’ultimo.

Il finale a tarallucci e vino premia con la dirigenza una delle segretarie; sistema in un meritato part-time la madre di famiglia stressata; fa rinsavire la sciroccata che si abbandona al rassicurante abbraccio del giovane avvocato vicino di pianerottolo e la smette di ostinarsi stupidamente nella parte dell’adultera infelice; le altre sembrano contente di rimanere dove sono.

Una conclusione incolore, che più insensata di così non si potrebbe, ma coerente con la passione per la bifronte Eva/Maria degli sceneggiatori. La storia sembra scritta mezzo secolo fa; si tratta di modelli che trionfavano negli anni ’60, ma la cui fisionomia si presenta oggi assai mutata.

In particolare, già nel 1989 uno studio della sociologa Rosemary Pringle, analizzava l’attività delle segretarie come la quintessenza del lavoro femminile fuori casa. Oltre a problematizzare la scarsa specificità delle mansioni svolte, si trattava di un’attività subalterna, dipendente dalla relazione con un capo uomo, intrisa di implicazioni sulla disponibilità sessuale delle donne (ottima è in questo senso la ricostruzione che compare nella serie televisiva pluripremiata Mad Men; per non dire del cinema, fin troppo ricco di esempi al riguardo.
Ricordate L’appartamento di Billy Wilder? ).

All’epoca impiegate e lavoratrici di ogni settore esitavano ad avventurarsi sulla scena pubblica e a farsi strada attraverso gli infiniti sbarramenti esistenti; ambiguità e contraddizioni del lavoro femminile non erano state comprese e analizzate.

Non è certo la visibilità pubblica a spaventare le donne nell’attualità; al contrario. Forse bisognerebbe dedicare maggiore attenzione ai modi con cui lo spazio si femminilizza – una questione centrale del lavoro e di una possibile sua rappresentazione.

Molti anni fa, la grande Claire Brétecher l’aveva genialmente interpretata in una storia intitolata “Creatività” dove si auto-dipingeva a casa, nel momento di comporre una striscia: nella prima vignetta si vede che sta china sul tavolo da disegno; poi sempre lei che abbandona per 5 minuti il lavoro per lavare un paio di calze; va in cucina a preparare un caffè e torna a disegnare; si alza di nuovo per fare una telefonata e poi completa uno dei riquadri lasciati a metà; stira una camicetta, si rimette di nuovo davanti al tavolo, va in giro per la stanza in cerca delle sigarette, e così via.

Da una diversa angolazione, all’inizio degli anni ’90 Griselda Pollock, decideva di intitolare con la formula Trouble in the Archives un fascicolo della rivista “Differences” dedicato alle trasformazioni della storia dell’arte grazie al contributo del femminismo; che veniva reso così: aver creato disordine nell’organizzazione dei saperi, nel canone, nelle istituzioni, nella struttura gerarchica dei poteri… e naturalmente nei modi di rappresentare cosa fanno le donne quando lavorano.

Sull’argomento possiamo ormai contare sui preziosi dati e ricerche forniti da economiste, storiche e sociologhe; sulle innovative chiavi di lettura di geografe e antropologhe; su intelligenti narrazioni letterarie, artistiche, filmiche. Sarebbe opportuno utilizzare insieme questi diversi apporti, mostrando una maggiore sensibilità etnografica da un lato; e dall’altro sviluppare una indispensabile attenzione alla macchina tritatutto dei media che macina, deforma, ricompone a gran velocità tutto ciò che appare in pubblico, compresi i modi di lavorare.
Una salutare miscela di reale/virtuale per far lievitare la visibilità delle donne in ambito pubblico e stimolare la loro presenza politica.