Delirio Afpak

< ![CDATA[di Enrico Piovesana
da www.peacereporter.net

I talebani pachistani compiono un massacro nel bazar di Peshawar.Quelli afgani attaccano nel centro di Kabul. Intanto si scopre che la Cia paga da anni il più grande boss afgano della droga: il fratello del presidente di Karzai.

L’autobomba che oggi ha ucciso quasi cento persone, ferendone e mutilandone altre duecento, ha distrutto il caratteristico bazar dei cereali e delle granaglie di Pipal Mandi, nel cuore della città vecchia di Peshawar. Si chiamava così perché sorgeva attorno a un antichissimo pipal, un fico sacro millenario: albero sacro per i buddisti. Non per i commercianti musulmani, che infatti avevano ingabbiato il suo grande tronco in una baracca circolare di legno che ospitava decine di venditori con le loro merci.

All’ombra del grande albero i mercanti chiacchieravano e prendevano il tè, i garzoni spingevano i carretti carichi di merci, talvolta inutilmente trainati da piccoli muli, facendo lo slalom tra i moto-risciò e le donne in burqa venute a fare la spesa.

Da questo ombelico sacro-profano si diramavano tortuosi i vicoli affollati e bui del bazar, su cui si affacciavano ininterrotti gli altri banchi del mercato e grandi portoni di legno da cui si accedeva ad antichi caravanserragli da mille e una notte: cortili ombreggiati da teli colorati e ingombri di casse, sacchi, bilance, carretti, animali e mercanti intenti a trattare, pesare e catalogare.

Tutto attorno a Pipal Mandi si snodavano, senza distinzioni nette tra l’uno e l’altro, il bazar delle spezie, quello delle pozioni magiche, quello degli ortaggi e quello delle donne, pieno di tessuti e accessori colorati ‘made in China’.

Ormai da anni nessun occidentale si spingeva da queste parti. Il personale straniero dell’Onu e della Croce Rossa Internazionale che lavora a Peshawar ha il divieto assoluto di avvicinarsi anche in auto alla città vecchia per il rischio attentati. Anche molti giornalisti preferiscono tenersi alla larga dai bazar. Chi, invece, decideva di tuffarsi in questo labirinto attirava gli sguardi di tutti, ma proprio tutti, come fosse un marziano. Sguardi curiosi, approcci amichevoli – “Hello sir! How are you sir? Where are you from sir?” – e in alcuni casi allarmati – “Don’t stay here sir, it’s dangerous! A lot of taliban here, sir”.

Anche nel centro di Kabul ci sono tanti talebani. Oggi un piccolo commando di guerriglieri travestiti da poliziotti ha fatto irruzione nell’hotel Bakhtar di Shar-e-Naw, nel pieno centro di Kabul (a due passi dall’ospedale di Emergency), uccidendo dodici persone, tra cui sei dipendenti delle Nazioni Unite di cui non è ancora stata resa nota la nazionalità.

Mentre la zona si trasformava in un campo di battaglia, con sparatorie, esplosioni, gente in fuga imbrattata di sangue, mentre centinaia di soldati circondavano la zona, altri talebani sparavano un colpo di mortaio contro l’Hotel Serena, il superblindato albergo cinque stelle che ospita gli stranieri a Kabul.

Temendo anche qui un irruzione armata, gli ospiti sono stati rinchiusi nei bunker sotterranei, fino a quando l’allarme non è cessato.

Una dimostrazione di forza dei talebani alla vigilia del ballottaggio per le elezioni presidenziali, fissato per sabato 7 novembre: un voto illegittimo (poiché si svolge sotto occupazione militare) che confermerà al potere il sempre più debole e screditato Hamid Karzai.

E’ di oggi la notizia che suo fratello Hamed Wali, il principale narcotrafficante del paese e l’organizzatore delle frodi elettorali nel sud a vantaggio di Hamid, è da otto anni sul libro paga della Cia. Qualcuno dice perché è suo l’ex residenza del Mullah Omar di Kandahar che oggi è diventato il quartier generale di migliaia di mercenari della Cia e delle forze speciali Usa – anni fa chi scrive ha avuto il piacere di venire fermato da questi ‘Rambo’ vestiti da talebani davanti al cancello di Villa Omar: un calcio sul cofano della macchina e un fucile d’assalto puntato alla testa dell’autista accompagnato da un gentile “Get the fuck out of here!”. Altri ricordano le accuse di coinvolgimento dell’intelligence Usa nel narcotraffico afgano: che il più grosso boss afgano della droga è stipendiato dalla Cia sarebbe solo una conferma.

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Kabul val bene un massacro

di Enrico Piovesana
da www.peacereporter.net

L’Unione europea ha deciso di togliere l’embargo contro l’Uzbekistan, imposto quattro anni fa dopo la strage di Andijan del 13 maggio 2005, quando centinaia, forse migliaia di persone vennero trucidate dall’esercito del dittatore uzbeco, Islam Karimov, che poi perseguitò, imprigionò e torturò tutti coloro che osarono denunciare questo eccidio.

Perché questo perdono? Per i “passi avanti” compiti in questi anni dall’Uzbekistan nel rispetto dei diritti umani, ha dichiarato l’Ue. “Balle!”, ha ribattuto Humand Rights Watch, spiegando che la situazione nel paese centrasiatico non è migliorata di un millimetro.
Ma allora, perché?

Usa e Nato hanno bisogno dell’aiuto di Karimov. La vera ragione per cui l’Europa ha deciso di riappacificarsi con il sanguinario regime di Karimov è che l’Occidente si trova ad avere disperatamente bisogno dell’Uzbekistan per proseguire la sua guerra d’occupazione in Afghanistan.

Dopo la chiusura delle linee di rifornimento pachistane, a causa dei continui attacchi talebani ai convogli, le truppe alleate sono state costrette ad aprire un canale alternativo a nord, attraverso il Tagikistan. Ma i talebani hanno iniziato ad attaccare regolarmente anche questa nuova via, in particolare nella provincia frontaliera di Kunduz.

Da qui la necessità, per Stati Uniti e Nato, di trovare una soluzione sicura e definitiva. L’unica è la strada che entra dall’Uzbekistan e poi scende a sud attraverso la tranquilla regione di Mazar-i-Sharif, regno del famigerato criminale di guerra uzbeco Abdul Rashid Dostum, al momento alleato di Karzai e degli Stati Uniti.

La rimozione dell’embargo da parte dell’Unione europea è quindi il primo necessario passo per intavolare con Karimov una trattativa sul transito dei convogli alleati in territorio uzbeco.

I talebani conquistano il Nuristan e minacciano Kabul. La rotta uzbeca consentirà ai rifornimenti Usa e Nato di aggirare la zona talebana di Kunduz e di raggiungere il valico di Salang sull’Hindu Kush, da dove poi la strada scende verso l’altipiano di Shomali fino Kabul. Questa, oggi, è rimasta l’unica via d’accesso alla capitale non controllata dai talebani.

Ma presto le cose potrebbero cambiare perché la guerriglia si sta notevolmente rafforzando anche nelle regioni a nord-est di Kabul. Soprattutto ora che le truppe statunitensi si sono completamente ritirate dalla provincia del Nuristan.

Dopo anni di dure battaglie combattute tra le montagne di questa impervia regione, il comandante Stanley McChrystal ha ordinato la chiusura e l’abbandono di tutte le basi avanzate nella regione per tutto il periodo invernale a causa delle difficoltà di rifornirle: via terra non è possibile perché ci sono i talebani, via elicottero nemmeno perché i talebani hanno imparato ad abbatterli – come hanno ripetutamente dimostrato negli ultimi giorni.

Così il Nuristan è stato lasciato in mano alle milizie talebane di Qari Ziaur Rahman. Qualche centinaio di marines è stato lasciato solo nel capoluogo provinciale, Parun, a protezione del governatorato. Un obiettivo, questo, che ai talebani non interessa: per loro il Nuristan – le sue vette, le sue foreste, le sue gole – rappresenta una roccaforte ideale da dove lanciare operazioni in direzione ovest, verso Laghman e Kapisa – già infiltrate dai talebani – e da lì verso la strada che dal valico di Salang scende a Kabul.]
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