Tunisia, l’illusione del cambio

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

Zine El Abidine Ben Ali è il nuovo presidente della Repubblica Tunisina, chiamato per la quinta volta consecutiva a guidare un Paese ormai assuefatto ad un modello di democrazia araba che a livello internazionale può rientrare solo in quei casi definiti come “particolari”. E’ dal 7 novembre 1987 che il settantatreenne ex generale guida il meno musulmano dei Paesi magrebini, dal giorno in cui, “deposto” per senilità Habib Bourguiba, si è auto proclamato Capo dello Stato.

Quattro mandati e ventidue anni di potere che sottolineano la scarsa attenzione della comunità internazionale verso un esempio di autoritarismo democratico che rasenta lo standard minimo dei regimi moderni. E’ un sistema politico consacrato dal “verdetto” delle urne che però dichiara la principale forza di opposizione, il Partito Democratico Progressista (Pdp), non eleggibile in 17 dei 76 distretti totali e che, durante la campagna elettorale, riserva al presidente Ben Ali e al suo partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (Rcd), il 97,22% degli spazi pubblicitari, lasciando al suo unico rivale rimasto in gara, Ahmed Brahim, lo 0,22%.

Per avere un’idea dell’affermazione e del potere che è nelle mani di Ben Ali, un sogno nel cassetto di molti altri leader politici europei e non, basta dare uno sguardo ai dati resi noti dall’agenzia di stampa Tunis Afrique Press (Tap). Innanzi tutto l’affluenza alle urne, che il 25 ottobre è stata pari all’89,45%: 4.737.367 votanti sui 5.296.008 aventi diritto; 7.718 schede nulle; 4.729.649 voti validi. Al presidente uscente sono andati 4.238.711, pari all’89,62%; ai sui tre avversari il restante 10,38%. Il segretario del Partito di Unità Popolare (Pup), Mohamed Bouchiha, ha ottenuto il 5,01%, 236.955 voti; al candidato dell’Unione Democratica Unionista (Udu), Ahmed Inoubli, sono andate 179.726 preferenze, pari al 3,80%; al leader del partito Ettajdid, Ahmed Brahim, unico vero avversario di Ben Ali, sono stati assegnati 74.257 voti, pari all’1,57%.

Il risultato delle elezioni parlamentari, tenutesi anch’esse il 25 ottobre, è stato praticamente la fotocopia delle presidenziali. I 214 seggi della Camera dei deputati, 161 eletti in altrettanti collegi uninominali e 53 votati in un unico collegio nazionale (seggi riservati per legge all’opposizione), sono stati distribuiti nel seguente modo: 161 al partito di governo, il Raggruppamento Costituzionale Democratico; 16 al Movimento Socialdemocratico di Ismail Boulahya (Mds), partito di opposizione che con la maggioranza condivide il programma politico; 12 al Partito di Unità Popolare; 9 all’Unione Democratica Unionista; 8 al Partito sociale liberale (Psl) di Mounir Beji; 6 al Partito dei Verdi per il Progresso (Pvp) di Mongi Khammassi, il leader ambientalista che appoggia il presidente Ben Ali; 2 al simbolo di Iniziativa democratica che raggruppa personalità indipendenti intorno agli ex comunisti del partito Ettajdid di Ahmed Brahim.

Nessun seggio alle 15 liste indipendenti e alle altre due formazioni politiche presenti alle elezioni, il Partito Democratico Progressista dell’avvocato Nejib Chebbi e il Forum democratico per il lavoro e le libertà (Fdtl) del medico tunisino Mustapha Ben Jafaar, entrambe già esclusi dalle liste per le presidenziali. Il primo per dichiarazioni improprie riguardo la legge elettorale, il secondo per non essere segretario del partito da almeno due anni, come previsto dalla legge elettorale entrata in vigore lo scorso anno.

Sin dalla sua ascesa al potere l’azione di governo dell’ex generale è stata finalizzata all’esclusivo contenimento di un sistema politico pluralista: una strategia che gli ha permesso di tenere in pugno il Paese per diversi anni e gli ha dato il tempo di preparare le basi per un sistema elettorale praticamente “ingessato”. Un cammino politico che Ben Ali è riuscito a completare nel 2002, con la legge costituzionale che per la carica di Presidente della Repubblica ha abrogato il limite dei tre mandati e ha innalzato l’età massima per la candidatura da 70 a 75 anni e con la norma che stabilisce nel 25% il tetto massimo dei seggi assegnati in Parlamento all’opposizione.

Un’opposizione in larga parte filo-governativa, perfettamente inserita in un contesto in cui il binomio politica-economia fonda le sue basi su un programma di privatizzazione iniziato negli anni Ottanta, un progetto di sviluppo definito dall’Occidente un vero e proprio miracolo, al quale però può partecipare solo chi è vicino al regime o con lui condivide il controllo dei beni.

In Tunisia il bisogno politico di cambiamento e modernizzazione non è una cosa nuova. All’indomani dell’Indipendenza, il pragmatico e tenace presidente Habib Bourguiba segna le linee strategiche delle riforme politiche e sociali che faranno uscire il Paese dalla dramma della fame e dalla povertà, linee strategiche che avrebbero imposto grandi sacrifici: la rinuncia al pluralismo, alla costruzione dei valori democratici e alla salvaguardia dei diritti umani. E’ passato mezzo secolo da quei giorni ed oggi la Tunisia rappresenta un modello di apertura all’Occidente: un Paese laico, sensibile nei riguardi dei diritti della donna ed attento alle problematiche relative all’istruzione.

Un Paese che nei confronti dell’islam attua una politica di contenimento, tendente ad assicurare un contesto interno particolarmente stabile ed adeguato ad un mercato aperto ai partner europei e americani. Un “paese emergente”, costruito sui modelli definiti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea, che hanno dettato le nuove regole dello sviluppo e che nel 1995, con l’accordo di associazione con l’UE, hanno proiettato la Tunisia nell’economia globale.

Il miracolo economico tunisino, quello targato Ben Ali, quello che oggi sventola la bandiera del rinnovamento e parla di partenariato con l’Europa, di Processo di Barcellona e di aree di libero scambio, deve comunque fare i conti un Pese spaccato in due, con un divario di tra nord e sud che con gli anni è diventato praticamente incolmabile. Deve fare i conti con una democrazia che è rimasta congelata alla fase embrionale, con una stampa imbavagliata, con una potente macchina di sicurezza che soffoca le proteste sindacali, con i grandi bacini minerari di fosfato che raddoppiato la produzione e tagliano i posti lavoro, con i giovani disoccupati che non vogliono emigrare. E’ con queste cose che la governance che nel 1999 ha vinto le elezioni con il 99,5% delle preferenze, nel 2004 si è assicurata il 94,5% dei consensi e oggi torna a vincere con quasi il 90% del voti, che deve fare i conti.