Morire dietro le sbarre

di Rosa Ana De Santis
da www.altrenotizie.org

Stefano Cucchi, 31 anni, è morto nella notte tra il 22 e il 23 ottobre scorso. E’ morto di botte. Solo, lontano dagli affetti familiari di cui è stato privato senza motivo. Il decesso viene certificato all’ospedale Pertini di Roma, dove era stato ricoverato per dolori alla schiena. Questa almeno la motivazione ufficiale riportata dall’Arma dei Carabinieri. All’ospedale Stefano arriva per mano di chi lo ha arrestato il 16 ottobre. Motivo dell’arresto: possesso e spaccio di droga, così hanno detto. Pare invece si sia trattato di due pasticche di hashish, prescritte dal suo medico per l’epilessia di cui pativa. In casa per la perquisizione e al carcere di Regina Coeli, dove lo portano i carabinieri, Stefano arriva sulle sue gambe. Ma già il giorno seguente, in udienza, Stefano Cucchi non è più quello del giorno prima. Il padre vede sul viso segni e tumefazioni che non può essersi procurato da solo.

Al giovane detenuto viene riservato uno strano trattamento, degno di un pericoloso criminale o di un mafioso, non di un giovanotto con un po’ di droga addosso. Non viene mandato agli arresti domiciliari, ma è sequestrato in carcere e poi spedito in ospedale. Per sei lunghissimi giorni i genitori e la sorella non possono avere colloqui con lui. Quando lo incontrano e lo rivedono è tardi ed è per l’ultima volta. Siamo nell’obitorio del Pertini e i familiari sono stati convocati per il riconoscimento.

Stefano è morto e disteso su quel gelido lettino. Addosso a lui dorme per sempre una storia strana e un finale losco. Ha un viso massacrato, segni dappertutto, un occhio è quasi fuori dall’orbita, la mandibola è fratturata. La morte ufficiale parla d’infarto. Non c’è altro. I Carabinieri, che escludono ogni forma di violenza, raccontano di un giovane che in quella notte maledetta si lamenta, dichiara di essere epilettico, ha forti mal di testa e viene accompagnato in ospedale per normali controlli, lì dove muore per cause naturali. Eppure questa morte non spiegherebbe il trattamento accanito e sproporzionato riservato al giovane, tantomeno il divieto imposto alla famiglia di vederlo. Quella morte non spiega niente. O spiega tutto.

Probabilmente era necessario occultare qualcosa di scomodo, forse proprio quei segni di terribile violenza che il giovane, come dichiara disorientata sua sorella, non può essersi inflitto autonomamente. L’indagine dovrà accertare di cosa realmente sia morto Stefano; le testimonianze sconcertate dei familiari raccontano una storia già nota agli italiani sulle divise di Stato, sulla loro impunità, sulla sospensione di ogni diritto civile nelle loro stanze e sull’omertà con cui sono solite coprire i misfatti o assolvere i responsabili.

Questa storia assomiglia a quella del giovanissimo Federico Aldovrandi, caduto vittima per mano della Polizia di Stato. Un clan di poliziotti rambo appena appena infastiditi dalla condanna per omicidio colposo, mentre Federico sta sotto metri di terra, morto per niente, per sfogo e per libido violenta delle divise di Stato. Il legale della famiglia di Stefano è lo stesso che seguì la vicenda Aldovrandi e i contorni delle due storie sembrano tratteggiati dalla stessa mano. Morti per repentini decessi naturali. Giovanissimi e in buona salute solo una manciata di ore prima. Sotto arresto e in balia dei poliziotti o dei carabinieri di turno. Visi e corpi tumefatti e pieni di botte. Tenuti lontano da casa. Famiglie avvisate tardi, solo alla fine.

Le indagini andranno avanti, ma l’ansia di giustizia porta già sulle spalle il peso di un’amara consapevolezza. In Italia si può morire senza verità. Si può al massimo ottenere una sentenza riparatrice che non basterà a togliere quell’immunità de facto con cui tanti utilizzano arma e divise, almeno con i più deboli ovviamente. Reati contro figli minori, contro cui si può pensare di farla franca.

La storia di Stefano Cucchi non è soltanto una storia personale. Chi vuole guardarla bene può trovarci la memoria di tanta storia della democrazia italiana, la militarizzazione crescente del controllo sociale e l’intoccabilità degli uomini dello Stato. Quelli che non vengono pubblicamente umiliati da condanne esemplari nemmeno quando uccidono. Quelli che non hanno mai alcuna evidente responsabilità penale e pubblica, perchè quando le divise non sono innocenti, sono al massimo delle mele marce. E quest’ultima moda o bieca strategia di difesa dovrebbe bastare a una madre e a un padre che seppelliscono un figlio ucciso?

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Federico, Marcello, Aldo, Stefano

di Anna Pizzo

da www.carta.org

La notte del 25 settembre 2005, dopo una chiamata al 113 di una signora che segnalava un ragazzo «che sbatteva dappertutto» dalle parti dell’ippodromo di Ferrara, una pattuglia della polizia fermava Federico Aldrovandi, 18 anni. Secondo il rapporto della questura, all’arrivo della volante Alfa 3, ci fu una colluttazione tra il ragazzo e gli agenti.

Dopo l’arrivo di una seconda volante, Alfa 2, alle 6.04 la prima pattuglia richiedeva l’invio di un’ambulanza, per «sopraggiunto malore». Il personale del 118 trovava il paziente «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, incosciente». L’intervento si concluse, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione della morte del giovane, per «arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale».

Marcello Lonzi muore in una galera livornese nel 2003 per «arresto cardiocircolatorio»: il suo corpo era sfigurato e sua madre cerca ancora la verità.

Aldo Bianzino, falegname, arrestato il 12 ottobre 2007 e condotto nel carcere Capanne di Perugia, viene trovato morto in cella il 14. A due anni di distanza, ieri c’è stata l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio nel procedimento nei confronti di un agente della polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza nella sezione 2 B. Pochi mesi fa Roberta, la sua compagna, se ne è andata per sempre senza riuscire a conoscere la verità.

Stefano Cucchi aveva 31 anni e faceva il geometra nello studio che divideva con il padre e la sorella. È morto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre scorso con il viso pestato e due vertebre rotte. Era stato arrestato il 16.

Crimini «di pace» che «normalmente» si consumano nelle carceri italiane e nei tanti luoghi in cui la legalità è sospesa.

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La morte di Stefano Cucchi vuole risposte chiare

di Red

da www.aprileonline.info


Cronaca di un incubo senza risposte, che getta un’ombra pesante sullo Stato di diritto in Italia. Una morte tragica, sospetta che richiede risposte dalla magistratura, dall’amministrazione penitenziaria, dai carabinieri, dai medici del nosocomio romano Pertini e dalla Asl competente

Giovedì 15 ottobre 2009
Verso le ore 23.30 Stefano Cucchi viene fermato dai carabinieri nel parco degli acquedotti, a Roma.

Venerdì 16 ottobre
Alle ore 1.30 del mattino si presentano, con Stefano, presso l’abitazione della famiglia Cucchi in via Ciro da Urbino, due uomini in borghese, poi qualificatisi come carabinieri e altri due carabinieri in divisa della caserma dell’Appio Claudio. Iniziano a perquisire l
a stanza di Stefano mentre questi tranquillizza la madre dicendole “tranquilla, tanto non trovano nulla”. In effetti nulla trovano nella sua stanza, rinunciando a perquisire il resto dell’appartamento e dello studio, pur dopo l’invito della famiglia a procede. I carabinieri a loro volta tranquillizzano i familiari, dicendo che Stefano è stato sorpreso con poca “roba” addosso (20 gr. principalmente marijuana, poca cocaina e due pasticche, secondo alcune notizie filtrate da ambienti delle forze dell’ordine e degli inquirenti, “di ecstasy”: secondo il padre “di Rivotril”, un farmaco salvavita contro l’epilessia, regolarmente prescrittogli dal medico curante). I carabinieri comunicano inoltre che l’indomani alle 9 si sarebbe celebrato il processo per direttissima nelle aule del tribunale di Piazzale Clodio. Alle ore 12 circa del mattino Stefano arriva in aula scortato da quattro carabinieri. Il suo volto è molto gonfio, in contrasto impressionante con la sua magrezza (i genitori affermano che il suo peso prima dell’arresto è di circa 43 kg) e presenta lividi assai vistosi intorno agli occhi. Durante l’interrogatorio del giudice, si dichiara colpevole di “detenzione di sostanze stupefacenti, ma in quanto consumatore”. Stefano alle 13 circa viene condotto via, ammanettato, dai carabinieri, dopo la sentenza di rinvio a giudizio (udienza fissata per il prossimo 13 novembre) con custodia cautelare carceraria. Alle ore 14 viene visitato presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia, dove gli vengono riscontrate “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente” e dove Stefano dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. I carabinieri lo conducono quindi a Regina Coeli affidandolo alla custodia della Polizia penitenziaria. All’ingresso in carcere viene sottoposto a visita medica che evidenzia la presenza di “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”. Viene quindi trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per effettuare ulteriori controlli: in particolare radiografie alla schiena e al cranio, non effettuabili in quel momento all’interno dell’istituto penitenziario. In ospedale viene diagnosticata “la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea”.

Sabato 17 ottobre
Nel corso della mattinata viene nuovamente visitato da due medici di Regina Coeli i quali ne dispongono nuovamente il trasferimento al Fatebenefratelli. Da qui, nel corso della mattinata (ore 13,15), viene trasferito all’ospedale Sandro Pertini. La famiglia viene avvisata del ricovero di Stefano solo alle ore 21. Alle ore 22 circa i genitori si presentano al pronto soccorso e vengono indirizzati al “padiglione detenuti”. Al piantone viene chiesto se è possibile visitare il paziente, ma la risposta che viene data ai familiari è: “questo è un carcere e non sono possibili le visite”. Alla precisa domanda rivoltagli dai genitori: come sta Cucchi Stefano?, il piantone li fa attendere per poi invitarli a ritornare il lunedì successivo (dalle 12 alle 14), per parlare con i medici.

Lunedì 19 ottobre
I genitori si recano alle ore 12 presso il padiglione detenuti e ripetono al piantone la richiesta di visitare Stefano. Vengono fatti accomodare nel vestibolo, gli vengono presi i documenti e nell’attesa chiedono a una sovrintendente appena uscita dal reparto quali siano le condizioni di salute del figlio. La risposta della sovrintendente è: “il ragazzo sta tranquillo”, ma ancora una volta viene negata ai genitori la possibilità di un colloquio con i medici con la motivazione che l’autorizzazione del carcere non è ancora arrivata. Di fronte all’insistenza dei genitori, che specificano di voler solo parlare con i medici, e non anche avere un colloquio con il figlio, la stessa sovrintendente li invita a ripresentarsi il giorno successivo, affermando che per l’indomani l’autorizzazione sarebbe sicuramente arrivata.

Martedì 20 ottobre
Alle ore 12 i genitori si recano nuovamente al “Pertini”, ripetendo al piantone la richiesta di visitare Stefano. Questa volta il piantone nega loro l’ingresso, dichiarando – ed è la prima volta che viene detto esplicitamente – che “sia per i colloqui con i detenuti sia per quelli con i medici occorre chiedere il permesso del Giudice del Tribunale a Piazzale Clodio”.

Mercoledì 21 ottobre
Alle 12.30 il padre di Stefano, dopo una mattina passata in tribunale, ottiene il permesso del Giudice della settima sezione per i colloqui. Decide di non andare a Regina Coeli per farsi vistare il permesso in quanto l’ufficio competente chiude alle 12.45, rimandando tutto al giorno successivo.

Giovedì 22 ottobre
Stefano Cucchi muore alle 6.20 di mattina. La certificazione medica rilasciata dal sanitario ospedaliero parla di ‘presunta morte naturale’. Alle ore 12.10 un carabiniere si presenta a casa Cucchi trovando solo la madre del ragazzo, essendosi il padre recato a Regina Coeli per il visto, e chiede a questa di seguirlo in caserma per comunicazioni. La signora non può, trovandosi sola con la nipotina, e così il carabiniere dichiara che sarebbe tornato più tardi. Alle ore 12.30 alla madre di Stefano viene notificato il decreto del Pm con cui si autorizza la nomina di un consulente di parte. È in questo modo che la signora Cucchi viene a sapere della morte del figlio. Entrambi i genitori si recano al Pertini dove il sovrintendente e il medico di turno dichiarano di “non aver avuto modo di vederlo in viso in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia”. Si precipitano quindi all’obitorio dell’istituto di medicina legale dove si presenta loro un’immagine sconvolgente: il volto del figlio devastato, quasi completamente tumefatto, l’occhio destro rientrato a fondo nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella destra con un solco verticale, a segnalare una frattura, la dentatura rovinata.

Venerdì 23 ottobre
Viene effettuata l’autopsia. Al consulente di parte, nominato dalla famiglia, non viene consentito di scattare fotografie. Il corpo di Stefano Cucchi ora pesa 37 Kg