1981: Parola di Dio, lettura comunitaria, battesimo, confessione, comunione…

Alcune riflessioni della comunità cristiana di base di Pinerolo tratte da:

AA.VV., Massa e Meriba. Itinerari di fede nella storia delle comunità di base, Claudiana –TdF,  Torino 1980

1)  LA PAROLA DI DIO NELLA VITA DELLA COMUNITA CRISTIANA DI BASE DI PINEROLO  di cdb Pinerolo  (pagg. 74-81)

IL LUOGO DELLA LETTURA

La nostra comunità non sacralizza dei luoghi e dei modi con cui si scopre la Parola di Dio: conserviamo viva memoria del modo con cui la Bibbia ha cominciato a diventare per parecchi di noi Parola di Dio. Gli anni in cui giungevano a migliaia gli immigrati dal Sud, mentre esplodeva il boom della Fiat, mentre nel Vietnam si inaspriva il conflitto e il cardinale Spellmann benediceva le truppe americane e noi scoprivamo le complicità della gerarchia, cominciavamo a riconciliarci con la Bibbia. La aprivamo là dove si leggono le roventi invettive dei profeti e le più taglienti espressioni dell’Esodo e del Vangelo. Più tardi tale approccio biblico ci sembrò parziale e strumentale, ma esso ci servì per farci saltare il fosso, per aiutarci a superare la nostra estraneità e diffidenza verso la Bibbia.

Fu per parecchi di noi una grande scoperta il constatare che non solo la Bibbia parla della vita, ma che essa può essere capita solo all’interno dell’Esodo, in un contesto di liberazione. La figura di Gesù ci apparve allora, con parecchie semplificazioni, come lo zelante purificatore del Tempio dai venditori che lo avevano ridotto ad una spelonca di ladri, ad un luogo di affari. Erano gli anni di Torres, dell’esplodere delle speranze che in America Latina culminarono con Medellín (1968). Ma già in quegli anni uscirono dai nostri gruppi due raccolte di preghiere che sottolinea­vano la nostra preoccupazione di congiungere lotta politica e preghiera. Come da una visione caritativa in politica stavamo passando ad una visione più rigorosa e di classe con la scoperta del marxismo, così nella lettura biblica maturò gradualmente l’esigenza di superare una lettura spontaneistica, usando i necessari strumenti esegetici.

Sono passati da allora, su questa strada, parecchi anni. La maggior parte della attuale comunità — costituitasi a partire dal ’73 — è composta da persone che non hanno compiuto tutto questo cammino, per cui ci ritroviamo con storie molto diverse. Ma la memoria di questo cammino è in qualche modo patrimonio di tutti: la Parola di Dio è vuota fuori da un contesto di impegno politico. Essa ci spinge a cacciarci nella lotta e a rimanerci. Oggi per noi è importante non recedere da questa scoperta gioiosa della significanza della Parola di Dio all’interno di una pratica di libertà, di un cammino di liberazione.

La lettura della Parola, in tale contesto, non è per noi un’attività tra le altre, ma qualcosa di costitutivo e fondante per la nostra vita di fede. Il testo biblico non è magicamente Parola di Dio. La Bibbia può diventare Parola di Dio per chi si affida con fede alla sua testimonianza e quindi a Dio e a Gesù stesso, in essa “manifestati”. La Scrittura orienta costantemente oltre se stessa: «Andare alla Scrittura non significa fermarvisi, restarne prigionieri, recitarla ritualmente… Significa, al contrario, essere invitati alla fede in Colui che la Scrittura annuncia senza mai possedere… La modestia della Scrittura consiste nel fatto di essere come la porta aperta, come la porta stretta della fede, attraverso la quale è necessario in ogni tempo passare per entrare nella corrente rivoluzionaria e liberatrice dell’azione del Dio vivente nel suo Figlio. La modestia della Scrittura non le impedisce di occupare nella vita della chiesa un posto centrale, quello di un riferimento indispensabile, di un’autorità pari a nessun altro; è il luogo a partire dal quale si produce sempre il nuovo evento della Parola» (G. CASALIS. Lettura ecumenica della Bibbia, Bologna, 1977).

Questa lettura di fede della Bibbia, fatta da uomini e donne politicamente situati, non ha potuto prescindere dagli strumenti necessari per un approccio storico e critico al testo. La riappropriazione di queste conoscenze, seppure molto limitata e graduale, non costituisce lo scoglio principale neanche in una comunità come la nostra nella quale parecchi non hanno una consuetudine allo studio. Chi dispone di alcune conoscenze è sollecitato a metterle in comunione con semplicità.

LA LETTURA COMUNITARIA COME SCELTA DI FONDO

La ricchezza della sorgente biblica ci è diventata accessibile in una scelta di fondo diventata prassi normale: la lettura comunitaria. Questo credere che Dio si manifesta nella coralità, che lo si cerca insieme, si rivela sempre più fecondo. Nessuno possiede una verità , dei dogmi da erogare agli altri, ma tutto si cerca insieme. Gli stessi esperti non hanno da fornirci che semplici strumenti. Questo cercare insieme non solo cancella ogni pretesa d’un magistero inteso come bocca della verità, ma soprattutto approfondisce la fraternità cristiana. Si diventa attenti ai messaggi che Dio ci invia tramite le persone sovente più povere e “insignificanti” della comunità. Non si svela anche qui la sapienza di quel Dio che sceglie i deboli per confondere i forti?

Questa lettura, fatta a piccoli gruppi, ci ha aiutati non poco a far cadere le separazioni e le distanze tra vita e Parola di Dio. Così la vita interroga la Parola e la Parola interroga la vita. Nei piccoli gruppi, in casa o nella sede della comunità, un fratello o una sorella a turno introducono alla lettura, cercando di situare il brano nel suo contesto storico e letterario. Si tratta di un servizio che mira a far respirare il testo e ad aiutare tutti a cogliere il suo messaggio centrale. Poi diventa più facile esplorare e gustare insieme la scoperta del testo e del messaggio, prima di verificare se e come esso può diventare una parola viva per noi oggi.

Se nella scelta delle letture la comunità cerca di unire Vecchio e Nuovo Testamento, il punto di riferimento della nostra lettura in questi anni è il Gesù di Nazareth. La sua persona, la sua parola e la sua pratica di vita sono comunque il principio ispiratore e la direzione della ricerca. Egli, anzi, è la presenza che rende possibile il nostro cammino.

Il gruppo, nella esperienza della nostra comunità, conosce tutti i limiti e le difficoltà di ogni momento collettivo e partecipa di tutte le belle sorprese che sovente si hanno in questi rapporti di comunione intensa. Pensiamo che sia estremamente dannoso idealizzare il gruppo e volerne fare un’oasi paradisiaca che sopprima le tensioni e le metta ai margini o alla porta. L’entusiasmo e la depressione, la gioia di credere e il dubbio vi trovano cittadinanza e si incrociano continuamente non come peccato o debolezza, ma come condizione normale dell’esistenza e della fede. Il tentativo di mettere i diversi al centro e non ai margini, a volte ci crea parecchi problemi. Del resto gli stessi ritmi della vita quotidiana e i turni di lavoro sembrano spesso coalizzarsi contro un cammino di crescita comunitaria o, almeno, renderlo molto difficile.

Il piccolo gruppo ci ha rivelato in questi anni di essere il luogo più favorevole per stimolare ed attivare la riappropriazione della Parola di Dio e, più in generale, la coscienza e la pratica della corresponsabilità. Lì ognuno viene messo ai ferri corti, direttamente davanti a compiti da assumere e a piccoli servizi da svolgere, pur nel rispetto dei suoi tempi e delle sue possibilità. Sovente la vita della comunità e l’esistenza concreta delle singole persone pongono al centro del gruppo dei problemi e delle situazioni che fanno procedere a zig-zag la lettura della Bibbia, ma ci sembra che sia fondamentale privilegiare i ritmi della vita e non quelli scelti a tavolino.

UNA CORALITA UMANA NON SOLO GIOVANILISTICA

Uno dei passi decisivi, che ha dato stimoli e contenuti nuovi al nostro cammino di riappropriazione della Bibbia, è costituito dalla presenza in comunità di persone molto diverse anche per età e problemi esistenziali. I primi anni i nostri ritmi comunitari erano segnati da giovanilismo e solo astrattamente si ponevano i problemi connessi con una fascia esistenziale più ampia. Eravamo un po’ prigionieri dell’ottica propria di un gruppo giovanile. Successiva­mente la presenza di adulti, di genitori, di anziani dai 60 agli 80 anni ci ha resi più attenti ad esigenze nuove e a sensibilità diverse, aiutandoci a toccare con mano la vastità del vissuto umano, con tutte le sue gioie e con tutto il peso dei suoi drammi. L’esserci incontrati con il problema della coppia, degli omosessuali, dei figli, della malattia, delle difficoltà economiche, della vecchiaia, della morte, … ha conferito alla comunità una maggior consapevolezza dei suoi compiti ed ha interpellato molto più profondamente l’esperienza di fede. Non che si pretendano risposte o soluzioni magiche dalla Parola di Dio, quasi che essa assolva a questo compito; però noi crediamo che sia conforme all’Evangelo “pretendere” qualcosa da questa Parola ,mando si lotta, si spera, si gioisce o si muore. Crediamo, in sostanza, che essa sia viva, capace di far corpo con tutta la vicenda umana. Soprattutto ci siamo convinti che essa è capace di interpellarci dal di dentro di ogni situazione in cui ci troviamo coinvolti. Il giorno in cui un fratello che per anni ha fatto la strada con noi è morto, come non interrogare la Parola di Dio a riguardo della promessa che il Signore ci ha fatto? Di fronte alla gioiosa scoperta di sentieri di liberazione che alcuni vivono con particolare intensità, come non aprire gli occhi e il cuore verso quella pienezza del Regno che la Parola di Dio annuncia?

Paura di ritorni pietistici o paura della realtà? Non riusciamo a dirlo con sufficiente chiarezza, ma ci stiamo accorgendo che parecchie “fette” della più normale esperienza umana non s’incontrano ancora in profondità con la Parola di Dio, cioè sopravvivono aree non irrorate. Ci sembra che da questa frattura nasca spesso una cultura ancora separata dalla vita e sovente intellettualistica, dalla quale l’esistenza di fede riceve poco nutrimento.

Un’altra constatazione che stiamo facendo in questi anni è la differenza notevole di atteggiamenti tra coloro che appartengono esistenzialmente, cioè economicamente e culturalmente, alla “gente povera” e coloro che hanno scelto una classe alla quale però non appartengono. Ci sembra che la Parola di Dio conservi una freschezza e una forza tutta propria presso coloro che sono i più sprovvisti di sicurezze.

VERSO LA RIAPPROPRIAZIONE DEI SACRAMENTI

Il cammino non può fermarsi alla riappropriazione della Parola, ma investe necessariamente anche la prassi sacramentale. È la lettura stessa della Bibbia a portare la domanda sui sacramenti per con­frontarci con il dato biblico e rileggere l’esperienza storica delle chiese cristiane. A questo punto per noi è risultato particolarmente stimolante l’apporto dei fratelli valdesi. Nella consapevolezza di essere un popolo sacerdotale, la lettura della Parola di Dio ci ha reso meno rilevanti quelli che noi chiamiamo “i problemi del Tempio” e sempre più centrali quelli che riguardano la nostra fede come sequela di Gesù Cristo. Non è molto importante decidere chi presie­de l’eucarestia, ma piuttosto vivere la cena del Signore alla luce delle implicante bibliche; non è fondamentale disquisire all’infinito sul numero dei sacramenti, ma piuttosto interrogarci sul senso che essi hanno nella nostra vita di cristiani.

Ci accorgiamo intanto che l’assiduità alla Parola di Dio trasforma in profondità, anche se lentamente, tutta la nostra visione della fede e della chiesa. Questioni come l’infallibilità del papa, la verginità fisica di Maria, e parecchie altre cessano di costituire un problema per la maggior parte di noi. Con grande gioia si scopre il dono della riconciliazione che il Padre ci fa in Gesù Cristo, senza che nessuno tiranneggi sulle nostre coscienze. È proprio questo amore che perdona che ci conduce anche a scoprire quanto siamo lontani dalla via del Regno e ci sospinge ad entrarvi convertendoci a Gesù. Per un fratello ed una sorella che decidano di sposarsi non è necessario rendere sacra la loro unione, come non è necessario fare del matri­monio un’istituzione divina. In comunità preferiamo semplicemente vivere queste realtà profane davanti al Signore anziché caricare di sacralità delle istituzioni e delle scelte umane.

Ci pare che l’assiduità alla Parola di Dio abbia determinato una visione dei sacramenti e una prassi sacramentale incentrate sull’ascolto di questa Parola, realtà capace di mettere al giusto posto anche il momento rituale che però è posto a servizio dell’annuncio dell’Evangelo e non è qualcosa che ha senso in sé e per sé. È proprio ancora la lettura della Parola che ci ha liberati da certi devozionalismi e da tutto un arsenale di pratiche religiose estranee al messaggio del Nuovo Testamento.

Constatiamo però che la mancanza e la povertà di segni, di riti e (il simboli non rappresenta un elemento completamente positivo, anzi un fattore pericoloso e ambiguo. Come esiste l’ambiguità dei riti e dei segni, ci sembra che esista un rischio non minore quando, per ragioni di essenzialità e di purificazione dell’esperienza religiosa, si rifiuta ogni segno come magia e superstizione. Non è questa un’allergia infantile che ignora l’importanza dell’universo simbolico e dell’intreccio insostituibile dei segni nell’esperienza umana? Non c’è forse una deviazione intellettualistica alla radice di un simile “purismo “? Rileviamo il problema, ma restiamo tuttora senza risposta adeguata.

PASSI CHE GIUDICHIAMO POSITIVI

Pur tra incertezze e sottolineature diverse, si fa strada in comunità «la coscienza che la “parola viva” del Signore va cercata tanto nella Bibbia quanto nella storia. Senza l’incontro con il vissuto quotidiano la Parola di Dio non dice nulla alla nostra esistenza concreta, ma è altrettanto vero che soltanto alla luce che viene dalla Parola di Dio la storia acquista per noi un senso di fede, cioè diventa teologicamente leggibile e decifrabile. È molto di più di una reciproca fecondazione: Bibbia e storia si richiamano a vicenda, l’una rispetto all’altra in una necessaria circolarità.

La comunità qui ci sembra svolgere un ruolo pedagogico essenziale. Siccome tra i fratelli e le sorelle esistono doni e sensibilità anche molto diverse, c’è chi è più attento ai dati della storia e chi tiene in maggior considerazione i dati della Bibbia, proprio la vita comunitaria, evitando ogni livellamento, promuove il confronto e da’ a ciascuno la possibilità di arricchirsi prendendo sul serio l’esperienza dell’altro. Vorremmo cercare di approfondire sempre meglio e sempre di più un dato rilevante nel nostro cammino di comunità: la possibilità di essere “insieme ” e di essere “diversi”. Praticare la diversità, porla al centro e non ai margini, ci sembra una strada utile per riscoprire la multiforme grazia del Signore. Di tanto in tanto è risorta o si è ripresentata la voglia di elaborare dei modelli, ma la tentazione è quasi sempre stata superata. Oggi siamo convinti che l’aver lasciato vivere (e a volte esplodere) le nostre diversità continua a produrre tensioni, ma favorisce una pratica di confronto evangelico che non sopporta regole fisse. Per questo tutti i metodi, gli strumenti, gli approcci che abbiamo provato e tentato nella lettura della Bibbia sono sempre molto relativi ed esigono, in qualche modo, di essere reinventati.

La lettura della Parola di Dio — questa è constatazione unanime tra di noi — ci ha messi al riparo da un pericolo corso più volte in questi lunghi anni, cioè quello di essere trascinati e quasi riassorbiti dalla sola dimensione      “anti-istituzionale”. I difficili rapporti con la gerarchia locale e con l’istituzione ufficiale hanno rischiato a volte di assorbire troppe forze ed eccessiva attenzione. E stata la Parola di Dio a metterci in guardia da questo gioco pericoloso e da questo tranello della gerarchia. Anche in questi momenti (che ora non sono affatto passati) ci è parso determinante continuare, con atteggiamento costruttivo, a fondare la nostra vita di fede sulla Parola di Dio. La lotta all’istituzione ecclesiastica nei suoi aspetti alienanti ci compete ed è irrinunciabile; essa però non è ciò che fonda o sta al centro della nostra fede. In questo senso la lettura della Parola di Dio ci ha spinti a superare la dimensione del semplice dissenso. Ci siamo sovente domandati se lo svuotamento di certe esperienze comunitarie, verificatosi nel movimento in questi anni, non sia anche stato determinato da una concezione della lotta           “anti-istituzionale” sganciata dalla Parola di Dio.

ABBIAMO DEI PROBLEMI NON RISOLTI

A volte la Parola scoppia di vita e di significati, ha senso e dà senso. A volte invece essa sembra risuonare lontana e, paradossalmente, muta per noi. Sembra non dirci più nulla. Si tratta di momenti o di periodi che in alcuni determinano ansia, senso di delusione, smarrimento e impotenza. Quella Parola che vogliamo mettere a fondamento della vita è sorgente secca, cisterna senz’acqua! Che fare? Battere ostinatamente la roccia, come Mosè, o mollare tutto? Forzare la Parola di Dio o attendere in silenzio? Il nostro cammino comunitario conosce parecchi di questi momenti. Stiamo imparando a prenderne atto e a viverli insieme, a condividerli. Non sappiamo se ciò accada perché Dio è muto o noi siamo sordi, ma la condizione del credente non può prescindere né dalle ore del giorno, né da quelle della notte. Anche qui la fraternità è sostegno perché sovente la luce del tuo giorno rischiara le tenebre della mia notte. Sovente ci è capitato che proprio nel cuore della notte Dio ci ha preparato il nuovo giorno. A questa visione ci conduce anche la pratica politica on il suo alternarsi di alti e bassi, di avanti e indietro…

Non è che rimpiangiamo i giorni della chiesa onnipotente, munita di tutte le sicurezze del Tempio, ma soffriamo lo scandalo di chi deve accettare una sfida: vivere un’esperienza fondata su una Parola povera e fragile, piccola e insignificante e ritenere che essa possa diventare la roccia su cui costruire la casa: «I cristiani tentano di contrabbandare la ricchezza di cui sono in possesso. Non riescono a dire, come Pietro allo storpio, che non hanno oro e argento. Non riescono a pronunciare solo il nome di Gesù Cristo Nazareno» (G. RUGGIERI). A volte questa piccolezza, questa mancanza di potere e di influenza, questa stessa irrilevanza politica, questo perderci senza etichette cristiane nella dispersione del mondo e dei luoghi in cui si lavora per la liberazione, viene da noi vissuto come uno svuotamento, una perdita di identità. Ma non è questa la strada per una fede più adulta? Molti di noi vivono questa situazione risentendo ancora i richiami delle sicurezze ecclesiali, ma sempre di più avvertiamo che questo è un dono che il Signore ci ha fatto, una vera liberazione che rende più libero e spedito il nostro cammino nel mondo e più fraterno il nostro impegno.

Stiamo scoprendo che fuori dal campo del sacro c’è più vita: è quello lo spazio primo e privilegiato per la riscoperta e la testimonianza della Parola di Dio. Senza ombra di disprezzo per le altre esperienze ecclesiali, ci pare che questo nostro “uscire dal campo” (che non significa uscire dalla chiesa), sia pieno di promessa evangelica e di liberazione umana. La comunità in questa luce diventa un momento di sistole, di raduno fraterno, di ascolto e di preghiera in vista della diastole, cioè della dispersione nel mondo. Questo è il momento della verità per il cristiano.

«Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d’ora innanzi non può più vedere Dio senza il mon­do né il mondo senza Dio » (D. BONHOEFFER): il problema non è di sapere se questo è un bel teorema o una bella formula, ma se diventa una verità, cioè una pratica quotidiana, nella nostra vita.

2)  BATTESIMO E CATECHESI DEI BAMBINI  di cdb Pinerolo (pagg. 339-342)

Sul problema del battesimo esistono nelle comunità di base diverse posizioni ancora noti sufficientemente amalgamate nè sufficientemente maturate.

Il battesimo dei bambini poi registra soluzioni completamente opposte: da una parte – ed è forse anche una posizione maggioritaria – si tende a considerare il battesimo come una scelta di fede che può essere fatta solo in età adulta, dall’altra parte, sospinti soprattutto da situazioni concrete, si propende a conferire il battesimo anche ai bambini. Diverso ci sembra il problema di una educazione alla fede (catechesi dei bambini): essa non può in nessun caso mancare, ma potrebbe rimanere distinta dal sacramento del battesimo.

Le comunità di base presentano su queste tematiche una prassi non sempre armonicamente riflessa con quell’ampio discorso di fede che emerge da quest’opera.

Presentiamo qui due contributi, quanto mai parziali e frammentari, che mostrano l’accennata problematica. Essi intendono essere più uno stimolo per un’ulteriore ricerca, piuttosto che presentare una qualche soluzione, forse denunciano lo stato di immaturità in qui il problema ancora si dibatte.

IL BATTESIMO NELLA NOSTRA COMUNITA

Il modo con cui la nostra comunità cristiana di base di Pinerolo si è messa di fronte al battesimo è segnato da tappe successive, da alcune prese di coscienza e da parecchie ambiguità.

1) Non siamo partiti, come forse sarebbe stato astrattamente più corretto, dall’esigenza di ripensare come cristiani adulti il nostro battesimo. La nascita dei bimbi che si è succeduta quasi ininterrottamente a partire dal 1973 (quando eravamo soltanto un gruppo di base e non avevamo ancora deciso di costituire la comunità) pose concretamente il problema. Nell’estate del 1973 nella casa di Carla e Beppe nasceva Caterina. La decisione dei genitori di non battezzare la bimba suscitò discussione, consenso e dissenso nel gruppo più vicino a loro. La loro decisione fu tanto ferma quanto motivata: occorreva finirla con una sacramentalizzazione abitudinaria che non rappresentava né una scelta né una decisione. Nella testimonianza del Nuovo Testamento e delle primitive comunità il battesimo ci sembrò un fatto “da adulti”. Questa rottura (che creò in principio parecchie incomprensioni anche presso i familiari e parenti) si proponeva anche di porre il problema nell’ambito della chiesa locale a partire dalla parrocchia in cui eravamo ancora inseriti.

2) Il problema posto aprì tutta una serie di ricerche (due incontri significativi furono quelli organizzati con il teologo G. Gramaglia) che coinvolse parecchie famiglie in un confronto più approfondito con il Nuovo Testamento, e con le esperienze delle comunità cristiane dei primi tre secoli.

Constatavamo però che alla maturazione teorica verso nuovi orizzonti non conseguiva una diversa pratica pastorale: le difficoltà parentali e la forza delle abitudini al momento della nascita ritornavano a prevalere. Era possibile concretamente fare in modo che, rispettando come pienamente legittima la scelta di battezzare i bambini, si aprisse però la strada del battesimo degli adulti? Questa era la nostra preoccupazione centrale negli anni ’74-’75.

3) Con la decisione di costituirci in comunità di base, maturata nel ’75, questa ricerca si fece ancora più concreta perché dovette tenere conto di elementi nuovi anche in rapporto all’istituzione. I primi due bimbi nati nel ’76 riproposero il problema. I genitori manifestarono il desiderio, pur tenendo conto degli orientamenti della comunità e delle riflessioni maturate in parecchi fratelli e sorelle della comunità, di poter battezzare i loro bimbi perché, a loro avviso, anche il battesimo dei bambini esprime la bontà del Signore e ne sottolinea la sua totale gratuità. Essi, in occasione del battesimo dei bimbi, si impegnarono in una seria ricerca sul significato del battesimo, redassero uno scritto che presentarono alla comunità. Il documento suscitò, tra accordi e disaccordi, il desiderio di ricercare ulteriormente.

Il conferimento del battesimo a Daniele B. e Simone C. avvenne in una liturgia in cui si sottolinearono principalmente due elementi:

a) i  doni del Signore sono sempre gratuiti e quindi dobbiamo vivere nella gratitudine a lui;

b) il battesimo dei bimbi ci rimanda al nostro battesimo che dobbiamo assumere come la chiamata del Signore a far nuova la nostra vita nella quotidianità.

Non possiamo a questo punto dimenticare una vicenda connessa molto importante.

Il battesimo di Daniele e Simone non avvenne senza guai. Il nuovo vescovo aveva accettato di incontrare, dopo il nostro invito, la comunità di base in un incontro serale. Avvertito “premurosamente” da qualcuno, egli ci chiese insistentemente di non battezzare perché il conferimento dei sacramenti, a suo avviso, compete soltanto alle parrocchie. Egli quindi, codice e rituale alla mano, insistette perché la comunità di base non celebrasse alcun sacramento. Non diede però alcun ordine. La comunità in una apposita assemblea, valutò le perplessità e le proposte del vescovo, ma poi decise di conferire il battesimo rispettando la scelta dei genitori. La cosa fu da alcuni di noi comunicata tempestivamente al vescovo che non perdonò mai più alla comunità la trasgressione del suo “consiglio” e ruppe le relazioni per un anno.

PROBLEMI E RIFLESSIONI LUNGO IL CAMMINO

Il primo fu un problema non solo amministrativo: registreremo (e come?) questi battesimi? Dapprima non si diede grande importanza alla cosa e si decise, di fronte alle pressioni del vescovo che sottolineava l’esigenza di redigere un atto, di annotare gli avvenuti battesimi. su un apposito registro di comunità. La cosa però non trovò poi esecuzione perché la comunità maturò la convinzione che il battesimo, o vive nella esistenza del battezzato e nella coscienza e nella testimonianza della comunità, o è un nulla che non sopravvive per virtù di un atto burocratico.

Le pressioni giuridiche del vescovo fecero nascere una domanda: come mai il vescovo, mentre noi siamo preoccupati del messaggio evangelico, è così assorbito dall’aspetto giuridico e istituzionale? Non ci sarà sotto anche una preoccupazione di potere e di controllo? Ci apparve allora importante verificare in quale misura la chiesa ufficiale intenda la prassi sacramentale come momento di dominio e di obbedienza.

Tutti questi problemi accrebbero in noi l’esigenza di confrontarci con le altre comunità di base, di sentire le loro esperienze, di conoscere le loro scelte concrete. Fu così che, accanto all’approfondimento biblico, si cominciò a dare maggior ascolto a tutte le esperienze di cui potevamo venire a conoscenza tramite «Com Nuovi Tempi» e «Tempi di Fraternità». Questo tuttavia non poteva mai esimerci dal decidere noi, come comunità, nella nostra precisa situazione.

IN QUESTI ULTIMI ANNI

In questi ultimi anni sono nati una quindicina di bimbi in comunità. I genitori hanno deciso, in stragrande maggioranza, di non battezzare i loro figli. Un bambino, l’ultimo di parecchi fratelli, è stato battezzato in questi giorni in comunità.

Non prevediamo dunque un comportamento rigidamente tassativo anche se esiste un orientamento ben chiaro e preferenziale per il battesimo degli adulti. Tre caratteristiche segnano attualmente il nostro atteggiamento sul problema del battesimo:

1) I sacramenti, specialmente il battesimo, sono una “realtà da adulti ” e la comunità deve riflettere al battesimo non tanto quando nascono dei bimbi, ma per interrogarsi sulla dimensione e sulle esigenze e, ancor più, sulla grazia del battesimo.

2) Nelle scelte concrete è per noi fondamentale non imporre alcuna prassi come obbligatoria, ma nemmeno rinunciare alla proposta che riteniamo più coerente con i dati del Nuovo Testamento. Però tutto questo, verificandosi in una comunità dove esistono esperienze anche molto diverse, esige una apertura ed un rispetto pastorale tutto particolare. La comunità di base deve caratterizzarsi per la possibilità di scelte libere, responsabili, differenziate. Questa duttilità pastorale fa parte, secondo noi, di quell’amore fraterno che rispetta i tempi e le originalità di ciascuno.

3) Ci preme fare in modo che questa possibilità di scelta, che questa doppia strada sia conosciuta e percorsa non solo tra di noi delle comunità di base, ma diventi realtà in tutta la chiesa, a partire dalla nostra chiesa locale. Fino ad ora però non siamo riusciti a porre adeguatamente il problema nemmeno a livello ecumenico. E’ ciò che ci proponiamo di fare nei prossimi anni, continuando parallelamente la riflessione biblica.


3)  COMUNITA’ DI BASE – PER CAPIRE UN’ESPERIENZA
(pagg. 217-224)

Quando ci si accinge a descrivere i punti fondamentali di un cammino, ad evidenziare il quadro teologico entro il quale si muove un movimento, si compie un’operazione delicata, esposta al rischio della parzialità, suscettibile di travisamenti, spesso riduttiva o apologetica. L’esigenza di schematizzare rischia soprattutto di fornire un’immagine unitaria e livellata di un movimento che, come quello delle comunità cristiane di base, non sopporta camicie troppo strette e schemi troppo rigidi. Esso, pur all’interno di alcune acquisizioni comuni che lo caratterizzano, conosce tutte le dinamiche provvisorie e sovente contraddittorie del vivere quotidiano, fatto di tortuosità, di vai e vieni, di fughe in avanti e di ritorni all’indietro, di intuizioni audaci, di semplificazioni pericolose. di ricerche e prassi significative.

In questi anni quindi, pur tra le oscillazioni e le ambiguità, sono emerse alcune scelte di fondo. Alcune prese di posizione che costituiscono la coscienza teologica del movimento, il suo quadro teologico di riferimento. Punti fondamentali di metodo e di contenuto che il movimento non intende come fissità dogmatica, ma come pietre miliari di un cammino sempre aperto. In questa ottica la riflessione teologica in corso nella comunità di base tenta di superare sia il divorzio tra chiesa e società moderna, sia il profondo scisma esistente tra dogmatica e storia vissuta, tra sistema teologico ed esperienza religiosa. Tale scelta esige il coraggio di misurarsi con la storia, di costruirsi giorno per giorno, di non accantonare le sfide che le sono rivolte, di non cedere alla tentazione affascinante delle sintesi concluse e perfette, per continuare a raccogliere e vagliare con faticoso e fecondo discernimento i frammenti di prassi che si esprimono nelle comunità cristiane. Un tentativo di valutazione della produzione teologica del cosiddetto “dissenso” non può certo chiudersi in grande attivo, ma non può misconoscere la accresciuta consapevolezza dei compiti che attendono il movimento. Non è irrilevante il fatto che questo modo di riflettere teologicamente, questo metodo che si sta delineando trovi una più larga eco anche nella chiesa italiana e implicito sostegno nell’attuale dibattito teologico.

ALCUNE LINEE TEOLOGICHE

La scoperta della Bibbia e la scoperta del politico sono le due coordinate che hanno generato la “reinvenzione” della fede o, almeno, ne hanno avviato il processo su binari precisi. L’euforia post-conciliare e il clima “sessantottesco” si sono incontrati, nei modi più svariati, tra mille tensioni, dando vita ad una vera e propria esplosione di novità ecclesiale. Molti cristiani, disseminati in tutto il tessuto ecclesiale e nelle più svariate situazioni, furono protagonisti di un travagliato rivolgimento che dalla loro esistenza si riversò e serpeggiò in tutto il corpo istituzionale della chiesa.

La Parola di Dio, riscoperta a partire dalle pagine dell’Esodo, dei Profeti e degli Evangeli, fece cadere una frattura drammatica che lacerava la coscienza di molti credenti: l’amore di Dio e l’amore per l’uomo possono camminare insieme, la lotta per la giustiziar la fede cristiana non si escludono a vicenda. Come si può parlare del Regno di Dio, che è l’annuncio primario dell’Evangelo, senza essere coinvolti nella liberazione dell’uomo concretamente oppresso? Come si può accostare la persona, la prassi e la predicazione di Gesù senza entrare con Lui nell’orizzonte escatologico, cioè senza aprirci al futuro che Dio ci ha svelato e ci tiene aperto? Come si può ancora vivere in pace e restare “funzionali” alle forze che riproducono l’oppressione? Proprio attorno alla tematica del Regno di Dio le comunità cristiane di base costruiscono la loro lettura della Bibbia. Gesù, ponendo al centro della sua predicazione il Regno di Dio, si serve di una “categoria” già ben nota al suo popolo e in sostanza si ricollega all’esperienza fondamentale di Israele, all’Esodo. Infatti, « l’esodo è il cuore della rivelazione biblica. In esso Dio si manifesta come re (cfr. Es. 15,18). È l’esperienza storica di liberazione di un popolo oppresso e schiavo in Egitto. Nella narrazione biblica l’esodo viene presentato sulla base dell’antica prassi sociale della difesa dei diseredati (cfr. Es. 22,20-26; 23,9; Dt. 15,1-11; 24,17-22) e della liberazione degli schiavi (cfr. Es. 21,2-11; Dt. 15,12-18). A sua volta, serve successivamente a giustificare e storicizzare queste medesime regole giuridiche circa i diseredati (cfr. Dt.24,18-22; Es. 22,20; 23,9) e gli schiavi (cfr. Dt. 15,15). Da questa lettura dei testi derivano alcune considerazioni. L’esperienza storica dell’esodo e la parallela prassi giuridica circa i diseredati e gli schiavi indicano che l’esodo è visto come liberazione dalla miseria e dalla schiavitù. Ciò significa che il Regno di Dio è realizzato da chi è in tensione verso la liberazione, da chi è povero, oppresso. Il Regno di Dio è unilaterale: al grido degli oppressi contro gli oppressori Dio porge ascolto. Il grido degli oppressi è dunque la cosa più seria della storia umana se Dio interviene proprio per loro».

La Parola di Dio colloca e mantiene in un esodo, in un cammino di liberazione continua e globale e fornisce criteri nuovi per valutare l’esistenza della comunità dei credenti nella storia. Non è più prioritario definire la chiesa, ma sapere dove essa deve trovarsi. cioè da quale parte, e conoscere quali sono i criteri per verificare l’autenticità della sua testimonianza, dei suoi sacramenti.

Non si tratta di adorare la storia o di idolatrare i processi di liberazione, ma semplicemente di riconoscere la decisiva parzialità di Dio verso chi è oppresso e di prendere coscienza che questa storia concreta in cui siamo inseriti è uno dei luoghi della rivelazione di Dio, un elemento costitutivo della stessa rivelazione. Già il concilio Vaticano II aveva diffusamente parlato dei segni dei tempi nella costituzione Gaudium et Spes al n. 11 e al n. 4. In questa prospettiva: «II popolo di Dio, mosso dalla fede per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio» (n. 11). «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (n. 4).

La Scrittura non viene spodestata nella sua “normatività” perché i segni dei tempi vanno decifrati alla luce della Parola di Dio. Ma la storia diventa un ineludibile luogo teologico’.

Questa nuova coscienza della storia e della fede ha liberato molti credenti dalle pastoie devozionali` immergendoli in una fede essenzializzata e li ha aiutati ad uscire dalle innocenze filantropiche e da ingenui umanitarismi. E diventato così evidente nelle comunità di base che la vita di Gesù Cristo e il suo significato — come pure la sequela — sono inseparabili dalla scelta degli “ultimi” e dall’impegno per la loro liberazione. Ma non si è trattato di dati acquisiti per sempre, quanto di scelte e di maturazioni che esigono continua verifica. Soprattutto lungo questo cammino sono stati compiuti errori, semplificazioni e ingenuità che pesano tuttora. Sovente la scoperta della politica è avvenuta con forti connotati religiosi, la lettura della Bibbia è stata ristretta e “usata” ai fini del movimento, talvolta l’impegno politico ha assorbito e liquidato l’esperienza di fede.

Tuttavia l’intrecciata riscoperta della Bibbia e della prassi politica ha posto al centro la riflessione del Regno di Dio; privilegiando la cristologia dal basso, ha dato spessore teologico ad una chiesa che cresce dalla base `.Per coloro che sono stati protagonisti di questo processo di “rifondazione della loro fede”` è parso davvero, senza presunzione, un reinventare la fede e un reinventare la chiesa.

Ma strada facendo l’utopia del Regno ci rimanda continuamente alle sue origini, al suo fondamento: in Gesù noi sappiamo che Dio ha posto la sua fedeltà a fondamento della promessa. In Gesù il Regno si è fatto presente, cammina in mezzo a noi nella dinamica escatologica del “già” e del “non ancora “. Nella morte e Resurrezione di Gesù il Padre ci dona il «punto archimedico della nostra speranza». Soltanto la presenza del Padre che si è avvicinata a noi in Gesù Cristo rende possibile camminare non solo verso l’utopia del Regno, ma ci rende fedeli fin da oggi a questa utopia vivendo “davanti a Lui”. cioè “al suo cospetto” la nostra prassi quotidiana di liberazione. La chiamata a seguire Gesù comporta una grazia e una sfida: vivere come « vero culto a Dio» (Rom. 12,1) il nostro impegno profano, secolare, di liberazione.

Su questo sentiero, anche se molti problemi restano aperti, si pongono le premesse per superare il divorzio tra fede in Gesù e liberazione degli oppressi. Non è forse ciò che Bonhoeffer definiva il pregare e fare giustizia? Questo esistere al cospetto di Dio e il fare la giustizia diventano il binomio inscindibile e la struttura portante della fede cristiana. Fuori di questo orizzonte messianico la chiesa vive per se stessa, non a servizio del mondo e in funzione del Regno; fuori di questa prassi messianica la sequela di Cristo non si misura con il Gesù di Nazareth, separa il Risorto dal Crocifisso. Su questo sentiero invece il discepolo di Gesù si sente chiamato a verificare, con il test delle beatitudini, la verità della propria conversione e a restare ogni giorno aperto alla “rivoluzione escatologica””.

Se volessimo individuare la bussola di tutto questo orientamento e di questa ricerca dovremmo dire che essa è costituita dalla riscoperta del Gesù storico che ha profondamente segnato il cammino delle comunità di base in questi anni. L’apporto delle giovani chiese latino-americane è stato determinante per riscoprire l’altro Gesù, cioè quello dimenticato o emarginato dalla nostra tradizione occidentale. Il dibattito su Gesù è tuttora vivo ed appassionato; anzi lo scoglio e il nodo cristologico si rivelano come sempre più centrali e fecondi.

L’enfasi con cui le comunità di base, fin dai loro primi scritti, parlano del Gesù di Nazareth sta a significare la centralità di questa riscoperta all’interno delle loro ricerche e delle loro battaglie. Se non si coglie la portata ed il senso della vita di Gesù nella sua storia, che cosa potrà egli dire a noi oggi? Senza un preciso ancoraggio al Gesù di Nazareth, alla sua prassi e alle sue parole, nel preciso contesto politico, economico e culturale nel quale egli visse, la nostra sequela è destinata a rimanere astratta, cioè priva di contenuti, o manipolabile; non diventa la sequela della sua vita storica. Ci troviamo ancora prigionieri di una «cristologia vaga ed indifferenziata, al di sopra delle parti e ad usum omnium» (W. Kasper). Possiamo dire che «il Cristo che risulta definitivamente irrecuperabile per una visione di comodo e di opportunismo è il Gesù storico» (J. Miranda) e che da questo orientamento dipende in larga misura tutta la possibilità di rinnovare la fede cristiana e la riflessione su di essa.

ALCUNE LINEE OPERATIVE

All’interno di questo quadro teologico dal quale emerge che fede cristiana e laicità non sono affatto realtà nemiche, le comunità di base si muovono con alcune caratteristiche salienti che non possono essere ridotte a questioni di metodo.

La riappropriazione in corso in tutte le comunità e lo sforzo che si sta compiendo per renderla complessiva deriva sia dalla nuova coscienza teologico-ecclesiale, sia dal confronto con le prassi di libe­razione politico-esistenziali in cui siamo inseriti. Quando ci si sente tutti insieme « sacerdoti al servizio di Dio » (Ap. 5,10), quando, nel superamento dell’economia del Vecchio Testamento, ci si sente comunità in cui ad ognuno è fatto il dono della profezia`, allora la riappropriazione diventa l’espressione concreta e storica di quella comunione fraterna e solidale in cui non esiste più « né uomo né donna, né giudeo né greco, né schiavo né libero, poiché tutti siamo un essere solo in Cristo Gesù» (Gal. 3,28).

Solo decifrando la riappropriazione delle comunità di base all’interno del grande processo storico con cui vaste porzioni delle masse popolari cercano, organizzandosi e lottando, di superare la dimensione di alienazione e di espropriazione quotidiana per riprendere in mano la loro vita, se ne può misurare fino in fondo la portata. La riappropriazione biblica, teologica ed ecclesiale non può essere separata dal processo complessivo di cui, con caratteristiche proprie e originalità insopprimibili, fa parte.

In tale contesto, quando noi alludiamo all’esperienza della riappropriazione, che del resto conosce ritmi, forme e contenuti molto diversi, non intendiamo né una generica ” promozione dei laici nella vita della chiesa, né una operazione che si prefigga di monopolizzare in proprio la Parola di Dio, i sacramenti e la vita della chiesa 16. Per questo, quando parliamo di riappropriazione della Bibbia, lungi dall’intendere un atto di dominio sulla Parola (nella fede infatti crediamo che è la Parola a possedere noi e non viceversa), vogliamo dire con chiarezza che deve cessare il monopolio della Parola da parte della chiesa gerarchica, affinché tutto il popolo credente, in crescente fraternità, acquisisca la capacità e gli strumenti per accostarsi alla Parola di Dio. Non si tratta affatto di far proprio qualcosa, di metterci le mani sopra, ma di una pura e semplice reintegrazione nel possesso di un dono già acquisito. Alla radice di questo cammino ci sta il dono e la responsabilità che esso comporta: « Se hai qualche cosa, non è forse Dio che te l’ha data? » (I Cor. 4,7). Così pure la riappropriazione non comporta il disprezzo o la sottovalutazione del servizio degli esperti, ma pone al centro il popolo che Dio chiama all’ascolto come destinatario primo delle sue promesse. Lì la Parola diventa vivente e liberante, capace di sfuggire alle catture di chi detiene il potere e di superare il muro che divide la chiesa in docente e discente, in vista di una fraternità che cerca insieme la volontà del Signore. Non esiste una chiesa che “possiede e sa” la Parola ed un’altra che deve solo o quasi udire ed imparare. Facciamo tutti parte di un’unica chiesa che confessa la propria cecità e implora dal Signore la grazia di un ascolto di fede per rendersi obbediente nella sua esistenza storica quotidiana.

La riappropriazione della Parola di Dio ha rappresentato il primo e decisivo passo di questo cammino che si preannuncia lungo e tortuoso. Proprio la Parola di Dio spinge a vivere questa responsabilità come risposta alla nostra vocazione di popolo sacerdotale investendo in questo processo tutta la vita della comunità.

La seconda tappa, costituita dalla riappropriazione dei sacramenti`, è in pieno svolgimento: si tratta di una riflessione e di una prassi che debbono fare i conti, ben aldilà delle improvvisazioni anti-istituzionali, con il problema fede e religione, con la realtà della preghiera cristiana, con un contesto contraddittorio tra secolarizza­zione, secolarismo e permanenza del sacro. Su questo terreno esiste un notevole divario tra ciò che si intuisce e si elabora culturalmente e la prassi reale delle comunità. La riappropriazione dei sacramenti infatti diventa veramente possibile solo quando, superando la fase del semplice gruppo, si diventa una autentica comunità, cioè fratelli e sorelle che si riappropriano di tutto il loro essere chiesa e si fanno carico di tutti i problemi che la vita quotidiana di una comunità cristiana comporta’.

L’incanto evangelico e, nello stesso tempo, la feconda fatica di questa prassi sta nella gioia di una comunione aperta. Infatti su questa strada ogni comunità è sollecitata ad aprirsi ad una comunio­ne “cattolica”, ad uscire dall’angustia del proprio orticello per un confronto allargato e a mettere a disposizione di tutti la propria esperienza.

Il cammino di questi anni ha anche evidenziato alcuni pericoli. Il rischio di una riappropriazione prevalentemente culturale, viziata di intellettualismo, è sempre in agguato specialmente per quelle comunità che hanno connotati meno popolari, e una matrice più studentesca.

Un altro pericolo, non ancora completamente superato nel movimento, è il mito della base. In questi anni abbiamo giustamente demitizzato la figura e il ruolo degli esperti` per fare spazio ad una ricerca più comunitaria. Ma se, come talvolta è avvenuto, alla demitizzazione dell’esperto segue la mitizzazione della base, sopravvive Io stesso meccanismo. Se la “base” è idealisticamente vista come il giardino delle delizie teologiche e la sorgente incontaminata di ogni bene e di ogni verità, va da sé che occorrerà difenderne anche ogni slogan, sacralizzarne ogni scelta, accettarne eventuali ingenuità o miopie. Questa visione mitica e ideologica della base ecclesiale, impedendo il rigore della analisi, ha prodotto guasti non lievi. Una pratica di base concretamente analizzata, anche all’interno del movimento di cui facciamo parte, rivela delle distinzioni irrinunciabili.

Non si possono infatti sminuire le istanze fondamentali che a livello sociale, politico ed evangelico la base esprime o almeno dalla base emergono, ma come dimenticare che esistono, anche all’interno delle nostre comunità, i capricci, le immaturità, i ritardi, le puerilità, le semplificazioni e le inadempienze della base? Vivere ed assumere storicamente la realtà della base comporta anche il diritto-dovere di smascherare certe semplificazioni mistificanti, di resistere a certo spontaneismo aculturale, di non cedere alla tentazione della popolarità basista o del silenzio complice. Tacere di fronte a certe schematizzazioni che derivano dalla disinformazione o da una superficialità che impedisce di cogliere lo spessore dei problemi, significa anche incoraggiare l’operazione di chi rischia di valorizzare il servizio degli esperti solo quando conferisce veste teologica ai propri gusti o alle proprie idee. Nel ministero fraterno degli esperti deve rimanere intatta la libertà profetica e professionale che tale servizio spesso “impopolare” comporta. Del resto, un vero impegno nella base fa i conti sia con le novità sempre emergenti, sia con la desolante povertà di proposte e di contenuti che segna molte tappe del cammino. La riappropriazione non permette esaltazioni mitiche della base o facili scorciatoie, ma è un cammino di cui si godono già i primi frutti e si intravvedono grandi promesse.

4)  LA CELEBRAZIONE DELLA RICONCILIAZIONE NELLE CDB di A. Giudici (pagg. 394-399)

(…)   Le comunità di base hanno maturato, prima nella prassi e poi nella riflessione, il passaggio dal problema dei peccati al tema della riconciliazione. Questo passaggio ha comportato cambiamenti profondi, schematicamente riassumibili lungo due direzioni:

–   il perdono è apparso sempre più come un dono disponibile nella fede: esso non sta in fondo ad un cammino penitenziale ma è la premessa da cui parte ogni conversione. Il perdono è la dimensione stessa del gratuito dentro l’esistenza della fede. Come conseguenza il perdono non è un bene a disposizione di alcuni nella chiesa, ma è il pane quotidiano dato a ciascuno perché possa continuare a camminare.

–  quando tutte queste dimensioni del perdono — la gratuità, la disponibilità, la necessità per l’esistenza quotidiana ecc. – si dilatano e si universalizzano si cade nelle dinamiche della riconciliazione. Si passa in una specie di mare aperto, l’orizzonte si amplia e lo sguardo non ha più dove posarsi. Mentre il perdono dei peccati è un tema ancora ecclesiale o ecclesiocentrico, la riconciliazione è sentita come la vocazione stessa dei mondo. Mentre il perdono dei peccati mette l’accento sull’individualità, la riconciliazione focalizza una collettività che trascende la chiesa stessa per coincidere con l’intera umanità. Alla luce della riconciliazione il perdono dei peccati si ridimensiona a problema particolare, quasi secondario.

Si tratta di due passaggi per noi collocabili lungo il cammino di liberazione: il primo ci ha liberati dal problema della “confessione “, il secondo ci ha liberati dalla chiusa aria del mondo ecclesiale, fatta di interiorità e di moralità, per aprirci alle dimensioni del progetto globale di salvezza.

Questa distinzione tra perdono dei peccati e riconciliazione perderebbe la sua forza se parlassimo, come più esattamente fa tutta la tradizione biblica, di perdono del peccato, assunto, come si è visto, dal linguaggio religioso a fondamento e a radice di tutte le diverse forme di divisione. La liberazione dal peccato viene allora a coincidere con la riconciliazione, così come è stata presentata. In effetti il cammino storico delle comunità di base è passato dalla problematica dei peccati al tema del peccato e da quest’ultimo alla riconciliazione. Vorrei qui esporre brevemente come il tema della riconciliazione viene vissuto e celebrato nella prassi liturgica e nella prassi di fede dalle comunità di base.

a) La riconciliazione è il disegno generale di Dio sulla storia umana ed è anche il progetto di Dio per ogni singolo uomo. Essa non è cioè un aspetto particolare, ma è invece lo stesso piano di salvezza, preso nella sua globalità e visto sotto una particolare angolatura. Dio vuole trasformare la storia umana nel suo Regno e vuole ugualmente trasformare l’uomo in uomo-Dio, secondo l’immagine già anticipata in Gesù Cristo. Da parte dell’uomo riconciliarsi significa inserirsi in questo piano di Dio, accettarlo e viverlo. « Possiamo definire la riconciliazione come l’essere d’accordo con il pensiero e l’azione di Dio nella storia, come un ritorno continuo alla proposta di Dio. È una conoscenza e una apertura al messaggio di Dio sull’uomo e sulla storia. In questo senso si capisce perché siamo già riconciliati, perché Dio ha da sempre questo progetto sulla storia e sull’uomo e non lo ritira mai. Riconciliarsi significa costruire giorno per giorno il mondo come Regno di Dio e l’uomo come figlio di Dio. Per un credente allora tutta la vita ed ogni sua azione, se ne vanno nel senso del progetto di Dio, sono riconciliazione. O meglio: la riconciliazione è l’azione di Dio per portare gli uomini e la società dentro al suo disegno di salvezza. Da parte dell’uomo riconciliarsi significa credere a questo piano di Dio, attuare la proposta di Dio sul mondo e sull’uomo, riprendere questa proposta quando è stata dimenticata o disattesa»`.

Riconciliarsi allora è lo stesso che credere, dove la fede però non è intesa come un atto posto una volta per sempre, ma come un continuo ricominciamento, come una scelta che deve essere sempre fatta. E la riconciliazione esprime della fede, oltre a questa inesauribile necessità di ricominciare sempre da capo, la dimensione di accettare un piano e una proposta che parte da Dio. Nella riconciliazione emerge cioè l’aspetto fiduciale della fede: il credere a Dio che ha preso l’iniziativa di fare qualcosa per noi.

Secondo questa impostazione il riconciliarsi, prima di essere un atto concreto e puntuale, è una dimensione costante e quotidiana della fede, fa un tutt’uno con il credere stesso. In qualunque momento in cui il rapporto con Dio prende una qualche forma, da quella più inconscia a quella più esterna e più precisa, l’accettazione della riconciliazione operata da Dio stesso è intrinsecamente presente, sia come condizione previa, sia addirittura come culmine dello stare davanti a Dio.

b) Se partendo da questa situazione fondamentale vogliamo cogliere un momento o un segno specifici della riconciliazione, dobbiamo dire che il sacramento della riconciliazione è l’eucarestia. Tutta la simbolica eucarestia si incentra sul tema della riconciliazione: Dio raduna, dai quattro venti, uomini e donne, fa una comunione profonda con loro Egli stesso per sua iniziativa. A partire da questa comunione di Dio — l’opposto del peccato genesiaco, visto come radice di tutte le divisioni — si sviluppano tutte le riconciliazioni:

–    la riconciliazione di ciascuno con gli altri nella fraternità eucaristica;

–  la riconciliazione dell’uomo con la donna e della donna con l’uomo, perché proprio qui non c’e più alcuna differenza di sessi;

–   la riconciliazione con la natura, perché il pane e il vino sono qui docilmente la gioia dell’uomo e di Dio, il mezzo della loro reciproca comunione;

–   la riconciliazione del mondo in quanto tale, perché l’eucare  stia non è un banchetto riservato alla chiesa, ma è un banchetto aperto ai quattro venti, è un ricordo dei banchetti di Gesù, fatti sulle pubbliche piazze con i peccatori e con i pubblicani. L’eucarestia contiene e indica la vocazione del mondo, invitato da Dio a entrare nel Regno e a banchettare con Dio nei cieli nuovi e nella terra nuova; infine nell’eucarestia ciascuno è chiamato a credere di essere personalmente accolto, di essere personalmente accettato, di essere un pochino sanato in quella ferita che lacera l’esistenza contrapponendo sé a sé.

Si deve anzi aggiungere che il senso più profondo della riconciliazione può essere colto unicamente nell’eucarestia, perché qui unicamente tutta la tematica della riconciliazione esplode e si impone come la buona novella del Regno che oggi e qui viene ripetuta ai partecipanti e, tramite loro, al mondo intero. Sembra quasi superfluo aggiungere, dato lo stretto legame posto tra riconciliazione e perdono dei peccati, che dunque nell’eucarestia vengo perdonato e Aperto a un futuro nuovo. Non solo vengo perdonato, ma unicamente qui, di fronte al dono di Dio colgo di essere peccatore: solo quando vengo perdonato scopro di essere peccatore.

Le comunità di base, secondo una prassi che dura ormai da parecchi anni, ritengono che l’eucarestia contenga anche il perdono dei peccati. Nell’eucarestia dunque, in uno con il banchetto della riconciliazione e del Regno, i presenti vengono perdonati e invitati nella fede ad andare oltre il loro peccato. Questa prassi è profondamente tranquilla e generalizzata. Essa nasce, non va dimenticato, da un approfondimento del significato dell’eucarestia e da una riscoperta del discorso cristiano sulla riconciliazione.

c) Una seconda modalità penitenziale che in questi ultimi anni è andata imponendosi nelle comunità di base è la celebrazione comunitaria della riconciliazione. Ogni tanto — in media due o tre volte all’anno — la comunità si riunisce per una verifica critica della, propria vita di fede: alla luce della parola di Dio vengono esaminate sia la vita individuale sia la vita comunitaria. Si fa un bilancio della vita di fede della comunità. Con la celebrazione della Parola viene annunciato il perdono operato da Dio in Gesù Cristo, perdono che investe le singole persone e l’intera comunità. Con il conforto del perdono e con la speranza della promessa di Dio si elabora comunitariamente una conversione, una linea programmatica per il futuro. Non vi è alcuna accusa individuale al sacerdote, ma una adesione nella fede al piano riconciliativo di Dio manifestato nelle parole e nelle azioni di Gesù. Questa celebrazione comunitaria del perdono è di nuovo una celebrazione della fede, un ricupero di tutti alla luce della promessa che supera ogni avversità e ogni contrarietà.

A differenza dell’eucarestia, dove prevalgono il senso di gioia, il senso festoso del banchetto di Dio con tutta l’umanità e la dimensione straripante del dono gratuito di Dio, nella celebrazione comunitaria viene maggiormente sottolineata la necessità di collaborare al disegno di Dio con una attiva conversione.

Qui è importante aiutarsi a scoprire il peccato, è importante costruire assieme con serietà le linee concrete di una conversione: qui, in fondo, ci si rende conto che la grazia di Dio non è una grazia a buon mercato. In questo modo la celebrazione comunitaria della riconciliazione completa in qualche maniera il discorso riconciliativo dell’eucarestia, che lasciato a se stesso sarebbe troppo -divino-, quasi sopraelevato a una condizione umana che non può abbeverarsi al gratuito senza depauperarlo — ciò che nulla costa nulla vale! —. Una comunità adulta sa regolarsi, secondo le sue necessità, tra queste due modalità riconciliativo, tenendo costantemente uniti il senso del dono gratuito del perdono e della riconciliazione con la necessità di collaborare attivamente al piano di Dio che vuole ricapitolare tutte le cose in Cristo Gesù.

Bisogna tener ben presente che con questa impostazione siamo completamente lontani dal discorso tridentino che tende a stabilire a quali condizioni « il sacramento è valido» : le due modalità esposte non si pongono lungo questa direzione. La riconciliazione è disponibile per la fede e nella fede; le modalità di celebrare questa realtà di grazia possono essere infinite, le comunità di base ne utilizzano alcune. Una forma particolare di celebrazione può essere più omeno perfetta nella misura in cui aiuta i partecipanti a ricuperare tutta la grandezza del mistero salvifico di Dio e non nella prospettiva magica in cui fa scattare o non scattare un effetto sacramentario.

d) Nella prassi delle comunità di base è completamente scomparsa la confessione individuale-auricolare tipica della tradizione cattolica. Ed è scomparsa non per una attenuazione del senso del peccato, né perché pratica pesante, ma è scomparsa per un complesso cammino teologico che ha riscoperto da una parte il discorso cristiano della riconciliazione e ha mostrato dall’altra le grosse carenze di questa pratica penitenziale. Infatti:

–  la confessione tradizionale, a causa della sua intelaiatura giudiziale, ripropone più la pagana espiazione del peccato che la buona novella del perdono gratuito portata da Gesù e messa a fondamento del suo vangelo.

–   sia per la sua origine storica sia per la sua struttura concreta essa rischia troppo facilmente di trasformarsi in un gesto magico, perché trascura una preparazione antropologica ampia, centrata sulla proposta di fede e sulla conversione.

–  gerarchizza la fraternità dei discepoli, trasformando gli eventuali carismi di alcuni — quelli del servizio ministeriali — in strumenti di potere su altri. In questo senso essa stravolge quella che dovrebbe essere la dinamica profonda della comunità, una dinamica di fraternità dove ciascuno serve gli altri. La confessione mantiene invece, come di fatto ha mantenuto, l’infantilismo dei laici e sopra di loro il potere del clero.

–    la confessione individuale isola il tema del peccato da quello

più importante e più globale della riconciliazione, e allora tende essa stessa a ricondurre l’esperienza morale nell’individualismo e nell’intimismo.

–    infine, ma non da ultimo, essa è, per l’esperienza di ciascuno che abbia onestà intellettuale e chiarezza analitica, una pratica malsana. L’esperienza del perdono radicale non può scaturire come conseguenza da una serie di atti che pongo, perché questa esperienza supera qualitativamente ogni mio atto. La confessione allora non mantiene ciò che promette e la sua ripetizione non è che il segno del suo fallimento. Il ragionamento di Paolo sulla impossibilità della legge-religione a salvare e sull’alternativa della fede, potrebbe essere applicato, con le stesse conseguenze, alla pratica della confessione.

5)  LA COMUNIONE (pagg. 595-606)

LA CHIESA: UNA COMUNIONE IN CRISTO CARISMATICAMENTE ARTICOLATA

La direzione ecclesiologica nella quale le comunità cristiane di base lavorano, portando un loro contributo originale, conosce ormai una lunga e feconda storia. In questi anni si è giustamente insistito nell’esplicitare’ la svolta teologica avvenuta con il superamento della ecclesiologia di società (perfetta). Ma, se da una parte il Concilio ha portato un contributo non indifferente in questa direzione, dall’altra non se ne possono tacere le ambiguità: esso contiene infatti le due ecclesiologia  tentando a volte un pericoloso compromesso tra di esse come è ben visibile nella Lumen Gentium. La prassi ecclesiale di questi anni postconciliari ha inoltre evidenziato sia un riemergere di elementi propri di una ecclesiologia di società, sia una interpretazione ambigua della “comunione ecclesiale”, nella prospettiva di una chiesa la cui comunione ruoti attorno alla gerarchia, cioè “fondata sull’ordine sacro”.

La notificazione dei vescovi lombardi sulla salvaguardia dell’unità della fede intitolata “La vera chiesa vive nella piena comunione” costituisce il manifesto di questa interpretazione della comunione.

Sia la lettura della Parola di Dio sia l’analisi di classe della realtà ecclesiale ha reso più attenta la riflessione e più articolata la prassi per quanto riguarda la comunione ecclesiale. Da un lato certi appelli alla comunione si rivelano nei fatti sempre utili perché rimarcano l’esigenza di riferimenti e di contenuti precisi, ma a volte mettono in risalto che può esistere «la strumentalizzazione dell’idea di comunione, che ne fa una copertura ideologica al servizio del potere gerarchico (l’appello a serbare la comunione ad ogni costo!): in piena analogia con certe soluzioni adottate dall’establishment politico, pur di garantire la sopravvivenza».

Come nella storia della chiesa si è conosciuto il «romanticismo dell’ecclesiologia dell’unità e dell’amore» (J. R. Geiselmann) e l’uso del vocabolario della comunione ai tempi della teologa liberale in cui la fede cristiana è messa a servizio di un connubio, di una sintesi cristiano-borghese, così in questi anni la base ecclesiale è divenuta cosciente del rischio che l’idea di comunione sia usata da chi detiene il potere nella chiesa come strumento di conservazione, di difesa, di consenso, e di pressione psicologica’. Nel difficile cammino di inventare una chiesa la cui unità risulti dalle convergenze di tutti verso Cristo e non dalle ingiunzioni, «molti vescovi che si sentono padroni della comunione non sono giunti forse a formulare addirittura inviti a lasciare la chiesa a quei cristiani che facendo opzioni differenti nell’incarnazione del messaggio hanno osato esercitare non solo il loro diritto di ricevere i beni spirituali della gerarchia, ma anche il diritto di mettere in atto il loro mandato cristiano nella costruzione carismatica della chiesa e nella missione del mondo? ».

Se, come scrive Giuseppe Alberigo, «“Avvenire” nel 1976 e nel 1977 ha ospitato e alimentato una campagna di odio vero e proprio cui nessuno ha trovato il coraggio di opporsi, non tanto per la difesa degli aggrediti, ma soprattutto per la tutela della chiesa intera da un inquinamento spirituale così importante », questo è uno dei mille casi in cui l’intransigenza ha prevalso sulla magnanimità favorendo una dialettica ecclesiale aggressiva e immatura`.

Proprio all’interno di questo quadro ecclesiale le comunità di base hanno avvertito l’esigenza di approfondire il dato biblico non per spulciare soluzioni, ma per assumere orientamenti normativi. L’indagine sulla nozione di comunione nel Nuovo Testamento, pur nella sua attuale inadeguatezza, ha evidenziato alcuni punti chiave. Prima di tutto la comunione ecclesiale non può mai prescindere dalla comunione con il povero che è parte costitutiva della prassi messianica di Gesù oppure concepirsi come un ambito separato e staccato dalla vicenda del mondo. Se la comunione con Dio o in Cristo fonda la comunione ecclesiale (I Gv. 13,7) e non viceversa, allora il nodo della comunione cristiana consiste (anche se non si esaurisce) nell’accettare la chiamata di Cristo a «stare con lui» (Mc. 3,14) e nell’accettare di essere coinvolti nella sua strada e sua missione (Mc. 3,13-19; 6,7-13). Si tratta dunque di una concezione cristocentrica che pone il fondamento della comunione ecclesiale nella comune disponibilità a rendersi obbedienti alla parola del Signore più che alla preoccupazione dei perimetri istituzionali della chiesa. Se la comunione con Dio fonda una comunione ecclesiale che necessariamente deve tradursi in fraternità concreta, ciò non comporta e non giustifica alcuna esaltazione dell’aspetto istituzionale a scapito del fondamento. «Non solo la nozione di un “centro di comunione “, ma anche l’idea di un vincolo di comunione istituzionale che fondi e garantisca (oltre che esprimere) il rapporto di comunione con Dio attraverso il Cristo, e che vada perciò assolutamente salvaguardato non emerge nel N. T. nei contesti in cui si tratta di koinonìa». Sembra altrettanto evidente che la koinonìa del Nuovo Testamento non implica mai un rapporto di subordinazione di una persona ad un’altra e non comporta nessuna gerarchizzazione dei rapporti all’interno della comunità cristiana. Essa piuttosto si traduce in una comunione carismaticamente articolata e differenziata, evitando sia la tentazione del costruirsi dei rapporti di dominazione, sia il piatto livellamento derivante da un malinteso egualitarismo

Finché degli uomini e delle donne guardano a Gesù Cristo riconoscendolo come unico Signore e salvatore delle loro vite e della storia e in cui si riconoscono radicalmente fratelli, la comunione ecclesiale, sebbene percorsa da ferite o da tensioni, non è spezzata. Proprio per questo le comunità di base respingono le frequenti accuse che sono loro rivolte da chi vede, nell’esplicarsi di un ricco e fecondo pluralismo teologico e politico, un attentato alla comunione, all’unità della chiesa o la volontà di costruire comunità separate oppure una chiesa parallela. Rimane esemplare al riguardo quanto scrissero le comunità cristiane del Piemonte in risposte ai vescovi della regione: « Ci siamo sempre sforzati di intendere la chiesa come comunione e perciò ci sentiamo impegnati a costruire questo dialogo e questa comunione fino in fondo, senza minimizzare le difficoltà e le diversità, ma trovando nelle diversità stesse la presenza multiforme dello Spirito. Secondo noi la comunione storica della chiesa non esclude le contraddizioni, ma le sopporta e le supera con la forza stessa della fede. Nella comunione vi è dunque ampio posto per posizioni critiche, perché questa è la legge stessa della vita e della crescita. Come comunità di base ribadiamo che ci sentiamo e vogliamo essere una parte viva della chiesa: non siamo una chiesa parallela, non siamo neppure comunità appartate e che vivono ai margini della comunione ecclesiale. In tutto e per tutto siamo parte attiva di quell’unica chiesa che Gesù ha iniziato, che lo Spirito conduce verso la venuta del Regno».

Non si tratta semplicemente di difendere un legittimo e necessario pluralismo all’interno della chiesa, ma di vivere la dimensione e la realtà carismatica della chiesa non come minaccia all’unità, ma come multiforme grazia del Signore che sola rende possibile tale comunione. Se non è una somma o una unione che fa la chiesa e se un carisma che non vive la sua relazione con gli altri è un non senso, allora diventa possibile affermare che l’unità del corpo di Cristo non solo non è intaccata da questa diversità di doni del Signore, ma si manifesta proprio in questa reciproca relazione dei carismi. Nasce così una unità che non è obbedienza ad un dogma o a un magistero, né accettazione di una mortificante uniformità, ma vittoria della grazia che ci prende e ci rende servi della Signoria di Cristo e ci configura a Cristo servitore. La signoria di colui che è il servo di Jahvè per eccellenza ed è venuto non per essere servito, ma per servire (Mt. 20,28), diventa visibilmente manifesta in quei discepoli che si fanno servi gli uni degli altri (Gal. 5,13). Vivere con consapevolezza evangelica la realtà carismatica significherebbe per la chiesa assumere fino in fondo una nuova coscienza di sé e una nuova presenza nella storia. Si tratterebbe davvero di una chiesa tutta ministeriale, strutturata e vivente nel servizio e per il servizio: « Associando e configurando a sé la chiesa nella sua missione, Cristo non poteva non imprimere per sempre sul volto di lei il raggio splendente del suo stesso volto. La carità pastorale e la prontezza a servire, con la capacità e la generosità di immolarsi per la vita del mondo, segnano indelebilmente l’essere e l’agire della chiesa» `.

Una chiesa serva non può stare dalla parte dei potenti, non può strutturarsi e organizzarsi come una potenza di questo mondo, non può mantenere in piedi pattuizioni o concordati miranti a garantire privilegi o potere. I suoi ministri, sull’esempio di Colui che lavò i piedi e non si lasciò incoronare re, sono messi in guardia da ogni ostentazione di potere e da ogni sinfonia della gloria, anche se religiosamente motivate. Una chiesa che sia comunione in Cristo, che si esprima nella relazione dei carismi, non può che tradursi in servizio sia al suo interno che nello spazio profano del mondo: la sua unica legge fondamentale è l’evangelo, la sua prassi è la lavanda dei piedi (Gv. 13) in contrasto con i potenti di questo mondo (Mc. 10,42-44).

Una chiesa tutta ministeriale non può significare semplicemente una comunità che favorisce al suo interno il fiorire e l’esplicarsi di tutti i carismi e servizi per cui, guidati dall’amore di Dio, ci si fa « servi gli uni degli altri » (Gal. 5,13). Nel Gesù che Giovanni ci presenta con la lavanda dei piedi (Gv. 13,14-15) l’indicazione ecclesiologica è imperiosamente precisata nella direzione del servizio forse per bollare qualche tentativo già in atto di gerarchizzare la chiesa e di legittimare eventuali nascenti strutture di dominio. In verità la sottolineatura giovannea è marcatamente intraecclesiale: « Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e, fate bene perché lo sono. Dunque, se io, Maestro e Signore, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv. 13,14-15). Ma tale accentuazione va compresa a partire dalla vita di quel Gesù di Nazareth, nel quale noi riconosciamo il servo di Jahvè per eccellenza, « il Figlio dell’uomo venuto non per farsi servire, ma per servire » (Mt. 20,28). Il suo servizio si consuna nell’assumere la causa dell’uomo oppresso senza distinzione di sacro e di profano: lì si compie la sua obbedienza al Padre al cui cospetto viene vissuta la causa dell’oppresso.

Una chiesa tutta ministeriale non può essere concepita come un giardino fiorito che profuma di caldo amore fraterno ai margini o separato da un mondo in cui regna la prassi del lupo che divora l’agnello. Le isole di fraternità nell’oceano del sopruso rappresentano l’eterna tentazione di fuggire dal reale. Tutto il discorso sui carismi e sui servizi nella comunità cristiana deve essere mantenuto come “secondario e relativo” rispetto a ciò che nella nostra vita di cristiani è centrale: vivere da servitori nella piena profanità della storia. Il centro infatti non sta nell’essere servitori all’interno della comunità, ma di vivere nel mondo la dimensione del servizio. Il discorso sui servizi nella comunità cristiana va vissuto, letto e verificato all’interno della prassi messianica, cioè della prassi di liberazione vissuta al cospetto del Padre. Se non esiste questo orizzonte messianico la diaconia all’interno della comunità cristiana diventa un alibi, una gratificante illusione, un travisamento e un travestimento religioso.

Se il servizio nella comunità non è collegato e correlato al servizio nel mondo, se non è propedeutico e funzionale ad esso, quasi come palestra della prassi messianica in aperta profanità, si cade in un nuovo ecclesiocentrismo più sottile e più pericoloso del primo. Servizi nella comunità e servizio nel mondo sono due momenti o, se si vuole, due facce di una medesima realtà. Ma non è mai la comunità o la chiesa al primo posto: al primo posto sta la storia profana, laica, nella quale e per la quale la chiesa compie il suo servizio di annuncio dell’evangelo come segno liberante del regno di Dio che viene.

Un discorso sui servizi che non “profani la comunità” cioè non la spinga a “dare la vita” nello spazio laico e politico, rimane sostanzialmente funzionale all’istituzione ecclesiastica e rinnega quel Gesù di Nazareth che ha perso la sua stessa vita non perda chiesa ma per il mondo. L’annuncio del regno di Dio decentra dalla chiesa e incentra sull’uomo. Per questo occorre mantenere una continui vigilanza nei riguardi di ogni discorso sulla chiesa perché esisti sempre il rinascente pericolo dell’ecclesiocentrismo. Non è forse stata, pur in mezzo a tanti discorsi a favore dei diritti umani, la grande tentazione di Puebla?

LA CHIESA E’LA COMUNIONE DI UN POPOLO SACERDOTAL

Su questa strada il Nuovo Testamento ci ha fatto riscoprire, dopo le aperture conciliare, la realtà del sacerdozio universale dei fedeli. Particolarmente significativi al riguardo sono i contributi che sono venuti alle comunità di base dal dialogo ecumenico. La classica divisione tra sacerdoti e laici diventa sempre più problematica all’interno del movimento per cui, anziché assumere posizioni drastiche e compiere scelte confessionali passando da una ecclesiologia all’altra, si preferisce rimanere in ricerca: « Sul rapporto tra il sacerdozio dei fedeli e il sacerdozio ministeriale la stessa teologia cattolica è in difficoltà nel precisare la conclamata “differenza” da voi sostenuta. Da un po’ di tempo, su questo problema, noi siamo in ricerca e vorremmo che ci fosse lasciato lo spazio per fare questa ricerca all’interno della chiesa».

Cristo «è il sacerdote unico. Negli scritti del Nuovo Testamento il titolo di sacerdote è riservato esclusivamente a Cristo e, di riflesso, e per partecipazione, al suo popolo, che è popolo sacerdotale. Quelli che noi chiamiamo sacerdoti — i vescovi e i presbiteri —nel Nuovo Testamento sono sempre chiamati semplicemente col nome della loro mansione o del loro ministero: “sovraintendenti o anziani “».

La sacerdotalizzazione del vocabolario per quanto riguarda i ministeri è un fatto che ha solide radici nella tradizione, ma non nella Scrittura”. La nuova alleanza costituisce una religione senza sacerdoti nel senso che in Cristo tutti gli uomini e tutte le donne possono accedere a Dio senza altri mediatori all’infuori di Gesù. Tutti i battezzati sono chiamati a vivere il loro sacerdozio, cioè a concretare la loro vita quotidiana nell’ottica sacerdotale di cui parla il Nuovo Testamento. Soltanto se siamo consapevoli di essere «un regno di sacerdoti per il nostro Dio » (Ap. 1,6; 5,10) riusciremo a «offrire noi stessi a Dio in sacrificio vivente, a lui dedicato, a lui gradito» (Rom. 12, 1). Allora sia «offrire le nostre preghiere a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (Eb. 13,15), sia vivere la carità fraterna in tutte le sue dimensioni, sia l’impegno quotidiano nello spazio pienamente laico e profano del mondo, significa compiere opera sacerdotale, esercitare il sacerdozio «perché sono questi i sacrifici che piacciono al Signore » (Eb. 15,16) e perché una vita impegnata e ricca d’amore «è come il profumo di un sacrificio che Dio accoglie volentieri» (Fil. 4,18).

Come l’apostolo Paolo scopriamo che stiamo esercitando il nostro sacerdozio quando compiamo le fatiche dell’annuncio, il ministero della testimonianza e della predicazione. Infatti se «siamo sacerdoti consacrati a Dio per offrire sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri » (I Pt. 2,5) siamo anche «il popolo che Dio si è scelto per annunziare le sue opere meravigliose» (11 Pt. 2,9).

«È per questo che i libri della Nuova Alleanza non chiamano mai sacerdoti i ministri della chiesa. Li chiamano invece diaconi (servitori), presbiteri (anziani), episcopi (ispettori), profeti (annunciatori della parola di Dio), dottori (insegnanti). Questa terminologia, presa dalla vita profana, fuori dall’ambito sacrale del Tempio, sembra dire che il sacerdozio cristiano non consiste in funzioni di specialisti del sacro, ma è, appunto, di Cristo e, per partecipazione, di ogni battezzato.

Si possono verificare questi dati fondamentali consultando un vocabolario di teologia biblica e, prima ancora, una concordanza dei termini del Nuovo Testamento greco. Qui si vede agevolmente come il concetto e il termine “sacerdote” non designa neppure una sola volta i ministri della chiesa, ma soltanto, con significati largamente analoghi, ora i sacerdoti del Tempio giudaico, ora il sacerdote pagano, ora il sacerdozio di Melchisedec, ora Cristo sacerdote, ora il popolo sacerdotale dei battezzati in Cristo. Questi due ultimi modi del sacerdozio, superano tutti i precedenti, sono gli unici che rimangono nell’economia cristiana`.

Queste riflessioni, che mutarono lentamente all’interno del movimento, rendono più acuta la sofferenza per la situazione attuale della chiesa cattolica nella quale il sacerdozio unico di Cristo è stato diviso.

Questa divisione per taluni è « la più grave di cui soffre la chiesa » a tal punto che «mantenere una distinzione tra sacerdoti e fedeli, ricostituire un clero…, è rendere vana la croce e rinnegare l’attuale intercessione di nostro Signore»`.

Su questo punto il concilio Vaticano II, come le affermazioni pi impegnative del magistero, ha riaffermato la posizione cattolica tradizionale mantenendo e ribadendo la divisione del sacerdozio «per essenza e non solo per grado ».

Le comunità di base s’inseriscono in questa riscoperta del sacerdozio universale non tanto con la presunzione di sciogliere dei nodi teologici (esistono infatti posizioni diverse all’interno del movimento) quanto per far crescere una prassi nuova. Non si tratta ovviamente di accantonare l’indagine biblico-teologica, ma di procedere a partire dalla prassi che i credenti assumono come propria nella vita concreta delle comunità.

Negare che esista una casta di sacerdoti non significa certo affermare che la chiesa nel suo esistere storico possa fare a meno dei ministri, anzi comporta una scoperta più profonda e una traduzione più concreta della nostra comunione in Cristo.

Non sarà superfluo ricordare che l’etimologia com-unio alla alle si fa spesso ricorso nell’argomentazione teologica, da molti studiosi è ritenuta falsa. Communis (da cui communio) deriva da com-munis (che ha in comune con altri un munus, cioè un incarico, un ufficio, un compito) ed è l’opposto di im-munis, cioè colui che a privo o libero da ufficio o compito`.

Alla luce della vocazione sacerdotale la comunione, intesa, in questa sua pregnanza anche etimologica, ci si svela non tanto come una unità da custodire, ma, dinamicamente, come qualcosa che è insieme un dono del Signore e una realtà da costruire mediante l’apporto di tutti i fratelli e le sorelle della comunità. Soprattutto è impensabile far parte di una comunità cristiana come cristiani “immuni”, cioè senza partecipare alla sua edificazione e alla sua missione. Così sacerdozio e comunione sono espressioni intimamente legate e reciprocamente feconde all’interno della struttura carismatica della comunità. Si tratta comunque di un orizzonte nel quale è difficile muoversi e progredire perché si devono fare i conti con un retaggio culturale` di segno opposto e con prassi ecclesiali profondamente marcate dalla delega. La pratica del sacerdozio universale si sviluppa infatti lottando contro una « educazione ecclesiale infantilizzante ed angosciante », che spegne la gioia umana ed evangelica di far esplodere in pienezza tutti i doni di Dio.

UNA CRESCENTE COMUNIONE ECUMENICA

Chiunque rilegga la storia delle comunità di base italiane e gli strumenti divulgativi che il movimento si è dato, si trova stupito dalla vastità dello spazio che la ricerca e la pratica ecumenica occupano. Con tutte le sue tensioni e con tutti i suoi limiti di discontinuità e di frammentarietà, tra l’alternarsi di stagioni positive e negative, il dialogo ecumenico con i valdesi e i battisti costituisce una delle realtà più promettenti della esperienza dei cristiani di base. Il volume ne tratta diffusamente in altri capitoli e quindi mi limiterò a questi pochi accenni che però non possono essere tralasciati perché la pratica ecumenica ha una grande rilevanza nella reinvenzione della nostra fede e della chiesa e fa parte integrante della nostra esperienza e del nostro orizzonte teologico ed ecclesiologico.

Da un ecumenismo sporadico e “curioso” stiamo ora passando ad un ecumenismo feriale, che parta dai luoghi, dalle situazioni, dalle occasione di tutti i giorni, dai problemi che la nostra testimonianza feriale – quotidiana a Gesù Cristo ci pone a livello ecclesiale, politico, esistenziale. Siamo giunti così all’esigenza di un confronto più ravvicinato e continuativo in cui è emerso che siamo reciprocamente molto disinformati sulle nostre storie e sulle nostre eredità teologiche. Questo ecumenismo feriale e di base non esclude ovviamente alcune grandi occasioni, confronti teologici, momenti e luoghi più istituzionali, ma punta soprattutto sul lavoro alla base che viene fatto nelle piccole realtà locali.

Tra le luci ecumeniche più significative vorrei mettere al primo posto la chiara coscienza del fatto che è finito l’ecumenismo migratorio, il tempo delle migrazioni di massa da una chiesa cristiana all’altra: l’ecumenismo di base, che potrebbe anche aver avuto a che fare con la tentazione proselitistica, oggi è limpidamente libero da questa mania di morboso attaccamento confessionale. Credo che si debba prendere atto di questa liberazione che il Signore ha operato in mezzo a noi e in noi.

La caduta di ogni eventuale spirito proselitistico è favorita, a mio avviso, anche da un fattore diffusissimo in vasti strati del movimento delle comunità di base e del mondo valdese.

Compare un genere di cristiani (lo chiamo il “terzo genere” di cristiani) per i quali è sempre meno rilevante il problema dell’identità confessionale e sempre più importante la propria vocazione o identità cristiana. Non che si prefiguri una fede senza chiesa comunità o che si disprezzi l’eredità avuta dalla (e nella) chiesa in cui si è ricevuta la predicazione dell’evangelo, ma: tale nuova coscienza comporta un modo profondamente rinnovato di stare nella’ “propria” chiesa. Credo che questo fenomeno debba essere attentamente analizzato in altra sede.

Forse è importante prendere atto di questa serena acquisizione per estinguere sospetti e non alimentare paure infondate. Sapere che lo spirito di conquista non esiste apre i .cuori e ossigena di speranza il nostro lavoro.

Certamente l’ecumenismo di base cammina su mille sentieri e respira con mille polmoni, ma mi sembra che una delle strade più feconde e significative sia rappresentata dal costituirsi di comunità ecumeniche di base. Qui l’ecumenismo cessa di essere la prerogativa di pochi “impallinati” o patiti di ecumenismo o di essere una questione teologica per diventare un fatto quotidiano. La gioia di sentire una profonda tensione verso l’unità, anzi la gioia di una unità in Cristo già saldamente operante, stimola a non semplificare i problemi, a non occultare le difficoltà e le tensioni; a lasciarsi profondamente interpellare dall’esperienza e dalle domande dell’altro. Forse non si tratta di stipulare patti federativi` tra cristiani di base ed evangelici, ma di continuare questo cammino cercando di non sciupare alcuna occasione di confronto, senza eludere nessuno dei problemi e senza ricadere in presunzioni confessionalistiche.

LE COMUNITA DI BASE: NON UN’ALTERNATIVA, MA UNA PROPOSTA

Il tentativo di parallelizzare le comunità o di inglobarle nelle istituzioni attuali della chiesa o, ancora, di dividerle in comunità buone e in comunità cattive prosegue da parecchi anni. Le comunità cristiane di base intendono far emergere un nuovo modo di essere chiesa, ma non pretendono in alcun modo di essere una alternativa globale alla chiesa-istituzione. In questi anni si è potuto verificare quanto sia difficile un cammino che instauri un rapporto corretto con la grande istituzione ecclesiale evitando la pretesa di esaurire in sé il concetto di comunità, nella presunzione di essere così l’unico modello valido di chiesa oggi, per costruire invece un rapporto dialettico che impedisca una integrazione e l’inglobamento. Questo però non significa che le comunità di base debbano, in nome di una malintesa e conformistica comunione ecclesiale, rinunciare alle novità evangeliche che da tali esperienze emergono. Senza essere la nuova chiesa di Cristo, sono però «una chiesa di Cristo nuova ».

Ci pare invece che continuare, come avviene di fatto nella chiesa italiana, a porre al centro di tutta l’azione pastorale la parrocchia, in modo quasi esclusivo, significhi non cogliere che esistono realtà ecclesiali che non possono più essere inglobate nella struttura parrocchiale. La comunione in Cristo non è affatto compromessa se, nella accettazione reciproca sincera e lieta, ci si sente parte viva della stessa chiesa locale che sa lodare il Signore per la molteplicità dei suoi doni. Ancora una volta la diversità fa paura forse perché abbiamo bisogno di una unità troppo incentrata sulle strutture e su schemi teologici e pastorali rigidi e stretti.

Vincenzo Bo avanza una prospettiva interessante: «Le strutture territoriali diventeranno una realtà sussidiaria, un “polo” per la vita delle comunità di base, e tuttavia queste non saranno sostitutive delle strutture territoriali ». Mi sembra però che al principio di sussidiarietà sia preferibile il principio della comunione in Cristo nel totale rispetto della originalità feconda ed insopprimibile di ogni esperienza che deve poter rimanere pienamente se stessa in tutte le sue potenzialità positive di annuncio dell’evangelo. Certi compromessi ecclesiali sono ibridismi che snaturano e impoveriscono le diverse esperienze in un tentativo di incontro a metà strada, che è soppressione delle originalità e livellamento depauperante. Il nostro incontro è la comunione in Cristo nella esistenza quotidiana e il nostro confronto fraterno, non privo di tensioni, nella chiesa locale di cui facciamo parte, non la soppressione delle dialettiche ecclesiali per un compromesso ecclesiologico

PER UNA CHIESA-COMUNITA SPAZIO APERTO PER OGNI “IMPURO”

Da quando Gesù si è compromesso con gli ultimi e ha profanato il nome di Dio con gli impuri, noi cristiani non abbiamo più altra scelta. La comunità è in realtà sempre tentata da ritorni e da riflussi ecclesiocentrici o, almeno, di rinchiudersi un tantino in una ben organizzata introversione ecclesiastica che privilegia la funzionalità delle istituzioni nei riguardi del servizio dell’uomo.

Perché questo ripiegamento non avvenga la comunità deve costantemente restare aperta alle presenze e alle sfide più scomode. Se essa sa rimanere uno spazio aperto per i più poveri, per gli emarginati, per gli omosessuali, per i dubbiosi, per gli atei, per i tossicodipendenti, per i relitti umani, per le persone sole e abbandonate, sarà meno esposta alla tentazione di diventare una “onorata” istituzione di questo mondo. Non che la comunità cristiana si prefigga di diventare un luogo verso cui i poveri debbano convergere come al centro della loro organizzazione, ma essa, realizzando un’accoglienza senza barriere, testimonia ai maledetti della terra o a chi è in ricerca, l’amore accogliente di Dio proprio per coloro che sono tentati di sentirsi un nulla anche davanti a Lui, che sono tormentati dal dubbio o bollati con l’emarginazione.

La presenza inquietante di tali fratelli e sorelle rappresenta un continuo appello a non lasciarsi prendere dal giro della routine ecclesiastica. Nel povero e nell’emarginato, primo sacramento di Cristo, ci viene incontro la chiamata di Gesù a far nuova la vita. Senza queste sfide le tormentate e scarne certezze della fede diventano sicurezze rassicuranti.

La chiesa vive per realizzare la prassi di Gesù nel mondo: impiegare tutte le forze perché chi è ai margini sia messo al centro, chi è l’ultimo diventi il primo (Lc. 13,30), chi è stato respinto ed emarginato possa ritornare nel villaggio (Mc. 5,1-20).

Come ci battiamo perché la diversità non sia relegata in periferia, ma sia riconosciuta come legittima nel cuore della chiesa, così la comunità dei discepoli di Gesù ritiene che la lotta per mettere al centro della storia coloro che sono emarginati sia la grande consegna del Signore, fino al giorno in cui ci sarà un Lazzaro escluso dalla casa e dalla mensa della convivenza.

Le nostre comunità solo su questa strada potranno essere libere dalla tentazione di fornire spazi e prodotti di lusso a uso dei benpensanti. Solo all’interno di questa prassi possiamo testimoniare al mondo che «i signori se ne vanno, ma il Signore della storia viene». Una linea che si incammini su questa strada non avrà nemmeno più il “monopolio dei cristiani “. Essa sarà stimolata a raccogliere la dura sfida che le viene dai “cristiani senza chiesa”.