Gli afgani di Capitan Bavastro

di Nicola Sessa
da www.peacereporter.net

Abbiamo un problema. Quanto è credibile lo Stato Italiano? In otto anni di guerra in Afghanistan abbiamo speso oltre 2,5 miliardi di euro (più o meno due finanziarie), inviato nei diversi avvicendamenti dei contingenti almeno 10 mila soldati, con una presenza fissa adesso di 3 mila e 22 di loro sono rientrati in Italia solo in bare di legno avvolte dal Tricolore.

Tutto questo perché, tra i principali obiettivi della missione c’è quello di garantire la sicurezza, una vita quotidiana tranquilla a milioni di afgani. Ma saremo realmente in grado di mettere in salvo 25 milioni di afgani dalla ferocia dei talebani, dai proiettili degli Ak-47, dagli Ied se nel cuore di Roma alle spalle della stazione Ostiense non siamo in grado di proteggere 150 profughi afgani da pioggia, pulci, topi e soprattutto a preservarne la dignità? Su di loro, lunedì, incombe l’ennesimo sgombero.

Via Capitan Bavastro, Roma. Sera. L’aria è bagnata. L’umido entra nelle ossa. Nel piazzale adiacente ai binari della ferrovia ci sono i camper di Medu, i Medici per i diritti umani, che da oltre tre anni si prendono cura e difendono i 150 afgani. Le loro tende, le loro baracche, sono sparpagliate sulla terra in uno sbancamento di terreno a una decina di metri sotto il livello della strada. Alberto, affacciato alla balaustra guarda in basso in quella buca e racconta della sua angoscia.

Il 23 ottobre la polizia è arrivata per una “operazione di bonifica ambientale”. Le ruspe hanno portato via l’immondizia accumulata, ma anche i pochi preziosissimi effetti personali: le coperte in cui si rannicchiavano la notte, i medicinali, la documentazione sanitaria. E poi l’ordine di abbandonare le baracche nel termine di dieci giorni. Il termine scade lunedì 2 novembre. È per questo motivo che i volontari di Medu Alberto, Francesa, Maria Rita, Francesco, Marieaud che ha un bambino nato da poco e che dorme tranquillo nel camper, presidiano il campo. Soprattutto nelle ore notturne, quelle più sensibili, quando potrebbe arrivare lo Stato con le luci bianche e il megafono a buttare fuori gli afgani.

Ground Zero. Uno striscione bianco dà il benvenuto a chiunque abbia voglia di andare a vedere come si vive da rifugiati politici. “Benvenuti nel nostro Ground Zero”. E infatti, le fotografie mentali del grosso buco a Manhattan, ti si presentano davanti agli occhi in rapida sequenza. Qui dovrà essere costruito un palazzone e per questo motivo gli afgani devono lasciare il posto che spetta alle fondamenta. È legittimo, si dirà, si tratta di proprietà privata.

Il punto è questo. Medu si è rivolta alle autorità, alle amministrazioni. “Bisogna trovare un posto alternativo per queste persone”. La risposta, in stretto politichese, fa riferimento a progetti, provvedimenti quadro, ordinanze. Ma le uniche volte in cui lo Stato si fa vivo, lo fa in uniforme, lo fa per dare avvertimenti. “Dovete lasciare questo posto”. Ma dove devono andare? Questo, a quanto pare, non è un problema dello Stato.

La delega al privato, al cittadino, è diventata prassi per lo Stato. Se non ci fossero “privati” come i volontari di Medu, la comunità di Sant’Egidio e qualcun altro che si preoccupi di portare generi di conforto a queste vittime di una guerra che di certo non hanno deciso loro di combattere, sarebbero abbandonati a loro stessi.

Gli afgani di Capitan Bavastro. Sono per lo più giovani, poco più che adolescenti. Sono di etnia pashtun, hazara, tagika. Hanno affrontato un lungo viaggio per sfuggire alla violenza e alla guerra. Quasi tutti sono arrivati attraverso la Grecia. Molti di loro hanno lasciato le impronte digitali alla polizia greca. Su molti di loro la polizia greca ha lasciato segni di percosse.

Sono richiedenti asilo o titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari e come tali hanno, avrebbero, diritto a un’assistenza sociale e sanitaria parificata a quella dei cittadini italiani. Vogliono inserirsi, vogliono lavorare. Vogliono che gli italiani vadano a consumare un tè con loro. Maria Rita e Francesca, nel fine settimana insegnano loro l’italiano. Gli afgani ricambiano: lezioni di aquilone e di panificazione nel piccolo forno che si sono costruiti da soli.

I tempi in cui Sandro Pertini abbracciava il piccolo Mustafà scampato alla guerra in Libano sono molto lontani. Oggi, a Roma, Italia, la questione del decoro urbano ha più dignità del civile dovere dell’accoglienza.