Giustificazione senza papa

di Fulvio Ferrario
da Riforma, 30 ottobre 2009

Dieci anni fa, accompagnata da trionfali fanfare, ma anche da polemiche ferocissime, faceva il suo ingresso nella interminabile serie dei documenti ecumenici la Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, sottoscritta dalla chiesa di Roma e dalla Federazione luterana mondiale.

Un testo istruttivo

Un documento complesso, estremamente tecnico, che gli stessi teologi di professione (almeno quelli di più modesta preparazione, come chi scrive) hanno potuto comprendere, nelle sue diverse sfumature, solo mediante ripetute letture. Che non tutti i problemi ricevuti in eredità dalla tradizione fossero risolti, è stato subito chiaro; che alcune riserve del mondo teologico protestante avessero un loro fondamento, è anche indiscutibile.

In questi dieci anni, tuttavia, siamo stati in molti a imparare, anche grazie alla Dichiarazione congiunta, a capire meglio i problemi del XVI secolo e, cosa ancora più importante, a essere stimolati a trovare ancora una volta consolazione autentica nella meditazione dell’annuncio evangelico, così come la Riforma lo ha compreso. Alcuni di noi hanno potuto anche cogliere l’occasione per studiare meglio le posizioni del Concilio di Trento, riscoprendo la pertinenza del giudizio del vecchio Barth, che le riteneva “in sé non antipatiche”, per quanto non condivisibili. Insomma: grazie alla Dichiarazione, per quanto ci ha insegnato.

Un’epoca nuova per l’ecumenismo?

Tuttavia, non ci si può nascondere dietro un dito: esistono dichiarazioni ecumeniche che hanno l’ambizione di inaugurare un’epoca nuova, di aprire orizzonti inediti di comunione. Il testo di Augusta, firmato alla vigilia del “grande giubileo” papale del 2000, rientra in questa categoria. Un accordo sulla dottrina della grazia, dopo cinque secoli di divisione, non poteva non suscitare enormi aspettative per il futuro. Vediamone alcune.

Molti ambienti luterani hanno creduto di poter salutare una svolta, come usa dire, “epocale”. Se si è d’accordo sulla giustificazione, si è pensato, che cosa ancora può separarci? Per la verità, qualche rispostina chiarificatrice si poteva rintracciare già nel documento stesso. Chi però lo ha fatto notare si è preso il rimprovero di essere un uccellaccio del malaugurio ecumenico. In fondo, non saper vivere la speranza nel nuovo, che Dio è capace di creare, è qualcosa che si avvicina al peccato (l’unico imperdonabile, secondo Gesù) contro lo Spirito santo.

Il cammino iniziato da Roma con il Vaticano II procede, si è detto: tra mille difficoltà, certo, ma procede. Nel 1983 l’eresiarca di Wittenberg è diventato, come regalo per il suo cinquecentesimo compleanno, un mezzo santo; ora passa, sia pure con qualche noticina a margine, persino la giustificazione per grazia soltanto. Solo gli eterni rompiscatole dell’ecumenismo, che si ritengono, essi soli, i depositari del puro verbo della Riforma, possono ancora avere l’improntitudine di storcere il naso. Ben altro dev’essere il tono. Così il luteranesimo ufficiale.

Roma, che nella sua storia ne ha viste tante, e sa come va il mondo, ha festeggiato con maggiore sobrietà. Il successo, per il Vaticano, non è consistito tanto nei passi avanti teologici, quanto in una bella festa ecumenica alla vigilia del giubileo. Per la verità, il modo scelto per celebrare l’evento è parso ad alcuni (soprattutto ai luterani più entusiasti) un poco strano: poche settimane dopo Augusta, Roma ha solennemente bandito una bolla sulle indulgenze, in occasione del giubileo. Lo stupore, a mio parere, era fuori luogo. Cristo elargisce la grazia e il papa l’amministra: semplificando un po’, il nucleo della teologia romana è questo e dunque c’è poco da stracciarsi le vesti.

Il seguito è stato conforme alle premesse: ripetute dichiarazioni sul fatto che quelle protestanti non sono “chiese in senso proprio”; rifiuto drastico del modello ecumenico delle chiese evangeliche (la Concordia di Leuenberg); pesanti allusioni al loro agnosticismo etico, e ora anche dogmatico (Kasper dice che molti protestanti sono confusi su Cristo e sulla Trinità: per cinquecento anni non se n’era accorto nessuno); e così via. E, come sintesi simbolica, il rifiuto tenace di ogni forma di condivisione eucaristica.

E ora?

Se in precedenza alcuni avrebbero voluto calmierare gli entusiasmi, ora gli stessi invitano a non disperarsi troppo. In fondo la notizia è questa: Roma è gerarchica, episcopale, papale. Lo sapevamo da un pezzo. La giustificazione va bene, ma non senza il papa né senza il vescovo: quello giusto, sia chiaro, non un qualsiasi vescovo luterano. Si mettano una buona volta il cuore in pace, su questo, i nostri fratelli e sorelle scandinavi e tedeschi, e anche gli aspiranti vescovi protestanti di altri paesi: ci vuol altro che una croce al collo, magari deposta nel taschino di una camicia clergyman violetta, per ottenere da Roma la patente di legittimità.

Di questo, del vescovo e del papa, vorrebbero parlare i vertici vaticani con quelli luterani (gli altri, a esempio i cattivi riformati, dietro la lavagna, in castigo), in previsione di un altro giubileo, quello della Riforma, nel 2017. Non credo però che dobbiamo preoccuparci di quello che pensa Roma, bensì di noi stessi. Il 2017 può essere, per noi, un’occasione per dire che sì, Lutero era bravo, ma ha anche combinato molti pasticci; che una schiera di vescovi e un papa, magari un po’ meno infallibile (chissà che cosa vorrà mai dire) non hanno, in realtà, mai fatto male a nessuno e, anzi, potrebbero conferire alla chiesa un poco di “visibilità” nel mondo secolare. Questa è la sinfonia che piacerebbe al Vaticano.

Oppure si potrebbe dire qualcos’altro: che l’evangelo è uno, ma è stato capito e vissuto in forme differenziate, e che la comprensione di Lutero ha arricchito la cristianità; che le chiese della Riforma non mendicano alcun riconoscimento dal Vaticano, ma pregano Dio di volerle riconoscere, davanti a sé, come comunità di peccatori e peccatrici perdonati; che il messaggio dell’evangelo, oggi più che nel Cinquecento, può e deve essere annunciato senza ipoteche gerarchiche; che è giunto il tempo che i cristiani lo celebrino insieme, anche nella cena del Signore, in barba ai divieti delle gerarchie vaticane; che l’evangelo della grazia mantiene, mezzo millennio dopo, la carica eversiva che Lutero ha proclamato con una forza sconosciuta dai tempi di Paolo e da quelli di Agostino e che di questo la chiesa può e deve, oggi ancora, vivere nella gratitudine, con o senza le benedizioni delle gerarchie romane.