Per chi suona la suina

di Mario Braconi
da www.altrenotizie.org

Il modo in cui sui media si parla di H1 N1 è decisamente allarmistico, addirittura ansiogeno per l’uomo della strada. In compenso, le case farmaceutiche migliorano il proprio conto economico, grazie a vendite record di farmaci quasi inutili e, chissà, forse anche di ansiolitici. Nel Regno Unito, lo scorso aprile gli epidemiologi avevano immaginato un numero di 100.000 contagiati al giorno al momento di picco della cosiddetta “pandemia”, mentre, secondo lo scenario più devastante, un terzo della popolazione sarebbe stata infettata (65.000 morti). I numeri veri, fortunatamente, raccontano un’altra storia, assai più rassicurante: a metà ottobre, in quel paese si contano un totale di 83 decessi per H1 N1, su 370.000 infettati (tasso di mortalità pari allo 0,02%).

Non solo il virus sembra essere assai meno aggressivo di quanto si ritenesse inizialmente, ma, come scrive Simon Garfield sull’Observer dello scorso 25 ottobre, “siamo riusciti a sopravvivere nonostante i farmaci proposti per combattere la pandemia, solo marginalmente più efficaci delle nostre normali difese immunitarie.” Stiamo parlando di Tamiflu e Relenza, prodotti rispettivamente, dalla Roche e della GlaxoSmithKline (GSK).

Il principio attivo del Tamiflu venne ideato al virologo Peter Colman che, già nel 1983, si sforzava di comprendere le ragioni della capacità del virus dell’influenza di mutare di anno in anno. Colman si concentrò sullo studio degli inibitori della neuroaminidase, un enzima che presiede il processo di diffusione del virus presso cellule sane. L’Australia’s Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO), presso cui Colman lavorava, cedette la ricerca ad una società farmaceutica, la Biota, in cambio di una royalty sulla vendita di prodotto farmaceutici da essa derivati. Dopo tre anni di ricerca, Biota confermò la validità del principio attivo, anche se poi lo concesse in licenza alla Glaxo: solo una grande farmaceutica, con le sue notevoli risorse, infatti, avrebbe potuto sperimentare il farmaco su larga scala.

Il componente GG167, uno degli innumerevoli che Biota aveva passato a Glaxo per i test e che presto sarebbe stato ribattezzato con il nome commerciale di Zanamivir, risultò particolarmente efficace: il suo vero punto di forza era, pare, quello di combattere la neuroaminidase contenuta nel virus dell’influenza senza fare danni gravi alla neuroaminidase normalmente contenuta nelle cellule sane del corpo. Secondo Richard Bethell, l’enzimologo di Glaxo che sviluppò il prodotto, Zanamivir era in grado di “ridurre i sintomi dell’influenza del 30 – 40%”. Il difetto dello Zanamivir, cui il marketing di Glaxo aveva nel frattempo trovato un nome ancora più simpatico (Relenza, crasi di “Relief from Influenza”, ovvero cura dell’influenza), era che doveva essere somministrato per inalazione con il Diskhaler, un aggeggio simile ad una modellino di astronave. I preparati anti-influenzali, infatti, sono tradizionalmente in pillola; e la Roche stava ormai tallonando la Glaxo con un preparato molto simile al Relenza, ma che poteva essere realizzato in pillole (il Tamiflu).

Nonostante l’entusiasmo con il quale la Glaxo spingeva il Relenza, già nel 1999 il National Institute for Health and Clinical Excellence (Nice) rifiutò di approvare il medicamento sostenendo che i suoi benefici fossero insufficienti. Sempreché assunto entro 48 ore dall’infezione, il farmaco avrebbe potuto giovare ai gruppi a rischio (anziani, portatori di malattie respiratorie o cardiache croniche, diabetici di tipo 1). Tuttavia, il NHS (National Health Service, Servizio Sanitario Nazionale) si raccomandò di non utilizzare lo Zanamivir in persone in condizioni di salute generali buone. Insomma, il Relenza è, nella migliore delle ipotesi, un farmaco utile in casi limitati.

Nel 2006 la rivista medica The Lancet realizzò una ricerca avente ad oggetto 19 studi sulle medicine anti-influenzali, la cui conclusione fu netta: “Non c’è ruolo per gli inibitori della neuraminidase nel trattamento dell’influenza”. Tra l’altro, un altro studio, pubblicato sempre su The Lancet a settembre del 2009, ha dimostrato che l’affermazione delle case farmaceutiche, secondo cui Tamiflu e Relenza avrebbero ridotto del 30-40% i sintomi dell’influenza, era molto ottimistica. Nella migliore delle ipotesi, la durata della malattia veniva ridotta di poco più di mezza giornata (un giorno, per i soggetti a rischio di complicanze); il che, quando si parla di un decorso che normalmente si protrae per una settimana, corrisponde ad un taglio del 15% – metà di quello minimo pubblicizzato. Il tutto senza considerare che, se il farmaco non viene assunto entro le 48 ore dall’infezione, gli effetti si avvicinano allo zero assoluto, fermi restando eventuali effetti indesiderati.

Eppure, riporta sempre Garfield sull’Observer, i governi mondiali hanno acquistato 270 milioni di terapie di Tamiflu dal 2006 (di cui la metà negli ultimi sei mesi); la GlaxoSmithKline, o GSK, (ex Glaxo) ha aumentato la sua capacità produttiva per arrivare a realizzare 190 milioni di dosi di Relenza per fine 2009 (il triplo della sua produzione normale). Si stima inoltre che il solo governo britannico abbia acquistato Tamiflu e Relenza per un valore di mezzo miliardo di sterline, un esborso pari a circa la metà della budget complessivo per l’emergenza influenza suina.

Non a caso GSK, che quest’anno ha perso un mucchio di soldi a causa della scadenza dei brevetti sulle sue medicine più vecchie, grazie alla “pandemia” di influenza H1 N1 – vera o immaginaria poco importa – riuscirà a cavarsela piuttosto bene: il fatturato del terzo trimestre del 2009 è cresciuto del 15%, grazie soprattutto all’effetto Relenza. Inoltre, l’azienda ha annunciato di aver ricevuto ordini per 440 milioni di dosi del suo vaccino contro all’influenza dall’evocativo nome Pandemrix (da “pandemia”), appena approvato dalla Unione Europea. Dopo aver fatto il pieno con le vendite del praticamente inutile Relenza, nell’ultimo trimestre del 2009, periodo in cui si procederà all’immunizzazione di massa della popolazione, GSK porterà a casa l’equivalente di oltre 1,1 miliardi di Euro.

GSK non ha ritenuto di commentare le indiscrezioni secondo cui il nuovo vaccino costerà nei paesi industrializzati 7 euro, a fronte di un costo industriale stimato attorno all’euro (un ricarico del 700% su un farmaco spacciato come di importanza primaria pare un tantino eccessivo). Anche Roche non se la passa male: a metà ottobre, ha riportato vendite di Tamiflu per 2 miliardi di franchi svizzeri, un incremento pari a quasi 4 volte il fatturato dell’anno precedente.

Per quale ragione i governi sperperano denaro pubblico acquistando farmaci che si sono dimostrati insufficienti a sconfiggere una normale epidemia di influenza, figuriamoci una pandemia? Secondo l’Observer, la risposta è la disperazione. “A dispetto degli spettacolari progressi medici, ogni anno siamo messi al tappeto da un vivaio di virus comuni che minacciano di mutare in modo da andare fuori controllo. E questo è un fallimento duro da ammettere. Una pandemia potrebbe moltiplicare gli effetti di questo fallimento, e questo preoccupa i governi responsabili, al punto da spingerli ad agire, anche sapendo dell’inadeguatezza delle misure messe in campo. Ma questa politica è saggia? O invece finirà per peggiorare la nostra salute futura?”.