Testamento biologico: ragioni, nodi critici e prospettive

di Giannino Piana
da “Rocca”, 1 ottobre 2009

La questione del testamento biologico è divenuta, in questi ultimi anni, di grande attualità anche nel nostro Paese, a seguito soprattutto dell’esplosione di casi, come quelli di Welby e della Englaro, che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica. Non si può sottovalutare, tuttavia, il rischio che, proprio per questo motivo, le reazioni emotive prevalgano sulle argomentazioni razionali, favorendo pronunciamenti affrettati e improduttivi. A questo genere di pronunciamenti va ascritto anche il testo relativo alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», approvato dal Senato il 26 marzo dell’anno in corso e ripreso (e ci auguriamo largamente rivisto) dalla Camera probabilmente nel prossimo autunno.

La riflessione sul testamento biologico riveste – va detto fin dall’inizio – particolare importanza sul piano etico soprattutto per la varietà dei temi che attorno ad esso si condensano e che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte: dall’autodeterminazione del paziente nei confronti delle cure al ruolo del medico (e del personale sanitario in genere), dalle cure palliative alla terapia del dolore, dall’eutanasia all’accanimento terapeutico. Si tratta di una sorta di crocevia, in cui convergono i più significativi nodi critici riguardanti le situazioni esistenziali di fine-vita.

Le rapide note, che qui svilupperemo, prendono anzitutto avvio da una sintetica rilevazione delle ragioni strutturali e culturali, che hanno fatto emergere in questi anni, in termini sempre più insistiti, la richiesta di dare statuto giuridico al testamento biologico; per mettere, successivamente, in evidenza le problematiche più rilevanti legate alla sua stesura e alla sua applicazione; e delineare, infine, alcuni orientamenti volti a favorirne una corretta utilizzazione.

Le ragioni strutturali e culturali

Alla base della richiesta di legalizzazione del testamento biologico, in quanto strumento destinato a far valere le proprie volontà circa i trattamenti cui essere o non essere sottoposti nella fase di fine- vita qualora ci si trovi in stato di incoscienza, vi è senz’altro l’accresciuta consapevolezza della dignità della persona, e dunque del rispetto dei diritti che ad essa fanno capo lungo l’intero arco della sua esistenza. La modernità è infatti coincisa con lo sviluppo della civiltà dei diritti, il cui raggio di esercizio è venuto progressivamente dilatandosi, soprattutto a partire dall’ultimo dopoguerra.

Le Costituzioni degli Stati democratici e le Carte delle istituzioni internazionali – è sufficiente ricordare qui la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 – hanno assunto, come perno della vita collettiva e come limite all’intervento degli Stati, la salvaguardia dell’autonomia della persona e il riconoscimento (nonché la possibilità di espressione) dei suoi fondamentali diritti. In questo contesto deve essere dunque inserito il «diritto a morire dignitosamente», diritto che implica particolare attenzione alla qualità del morire in quanto momento supremo dell’esistere. E, in questo contesto, acquista soprattutto sempre maggiore consistenza il bisogno di decidere, in modo autonomo, a quali cure si desidera essere o non essere sottoposti.

Ambivalenza del progresso tecnico

A sollecitare tale attenzione e tale bisogno hanno contribuito, in misura determinante, gli sviluppi della tecnologia in campo biomedico; essa, accanto ad esiti altamente positivi – si pensi ai grandi successi ottenuti in campo terapeutico con la sconfitta di malattie un tempo letali – fa registrare l’emergenza di nuovi rischi, primo fra tutti quello dell’accanimento terapeutico. La possibilità di prolungare oltre misura la vita biologica, mediante interventi sempre più sofisticati e pervasivi, provoca spesso la dequalificazione della vita personale con grave attentato alla dignità umana. E ciò soprattutto in presenza di una cultura, nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione del tecnicismo abusivo; mentre, a sua volta, il dilagare della mentalità scientista spinge a coltivare una concezione rigidamente «biologica» della vita.

Si afferma così una forma di prometeismo, che ritiene eticamente legittimo (considerandolo umanizzante) tutto quanto è tecnicamente possibile, e che considera positivo ogni prolungamento artificiale della vita, prescindendo dalle pesanti ricadute che spesso l’accompagnano sul piano umano. Il confronto quotidiano con casi, che rivelano la disumanità di alcuni trattamenti sanitari, rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico, e concorre ad accentuare il bisogno di esternare la propria volontà circa le cure nel momento in cui ci si venisse a trovare nell’impossibilità di farlo direttamente.

Rimozione della morte

Accanto a queste motivazioni di grande rilievo sul piano umano va tuttavia aggiunto – e costituisce un elemento tutt’altro che secondario – l’atteggiamento disturbato con cui si vive oggi il rapporto con la morte. Ad avere il sopravvento è infatti la rimozione della morte, causata da un insieme di fattori, quali la sua radicale separazione dalla vita – si muore sempre più in ospizi ed ospedali, al di fuori cioè dei luoghi nei quali si svolge l’ordinaria esistenza –, la sua spettacolarizzazione – la televisione e internet ci mettono ogni giorno di fronte ad episodi di morte, ma si tratta di eventi spersonalizzati, che determinano scarso coinvolgimento e producono assuefazione –, e infine la perdita del simbolismo, sia religioso che laico, che in passato contribuiva, in qualche misura, a riscattarla.

Rimozione e perdita di significati sono poi ulteriormente accentuati dalla presunzione dell’uomo di aver raggiunto il controllo e il dominio di tutti gli ambiti della realtà con la conseguente percezione della morte come scacco insopportabile, come l’irruzione del non controllabile o del non dominabile; in una parola, di ciò che non può essere razionalizzato. Da questo punto di vista, eutanasia ed accanimento terapeutico, pur rimanendo fenomeni di segno opposto, possono venire ricondotti a una identica matrice: la volontà dell’uomo di esercitare la propria signoria sulla morte, trasformandola da evento «naturale», di fronte al quale egli risulta del tutto impotente, in evento «culturale» sottoposto alla propria volontà: nel primo caso – quello dell’eutanasia – dandosi la morte, scegliendo cioè il tempo e il modo secondo cui morire; nel secondo – quello dell’accanimento terapeutico – prolungando in maniera illimitata la vita nella (illusoria) speranza di poter vincere la morte.

Paura e rimozione finiscono così per sostenersi reciprocamente, entrando in una sorta di spirale o di circolo vizioso: la paura alimenta infatti la rimozione, la quale, a sua volta, non fa che accentuare la paura. Se questo rende, da un lato, ragione della richiesta insistita di dare forma legislativa al testamento biologico come tutela della persona, spiega tuttavia, dall’altro, perché dove esso è già stato da tempo introdotto venga scarsamente utilizzato – la percentuale di chi se ne serve si aggira attorno al 10-20% – prevalendo la tendenza, psicologicamente comprensibile ma accentuata dal disagio ricordato, ad allontanare il più possibile il pensiero della propria morte.

I fondamentali nodi critici di ordine etico

Le questioni di carattere etico che affiorano in riferimento al testamento biologico sono molte e di diversa consistenza: tre ci sembrano tuttavia quelle di maggiore importanza sulle quali è opportuno soffermarsi.

1) Autodeterminazione ma non solo

La prima rigu
arda anzitutto il principio di autodeterminazione, che è il presupposto in base al quale viene rivendicata l’istituzione del testamento biologico. L’affermazione di tale principio ha trovato, nell’ambito della bioetica, concreta espressione nel «consenso informato», di cui il testamento biologico altro non è che il logico prolungamento in situazioni nelle quali il paziente si trova a vivere in stato di incoscienza. Il principio di autodeterminazione è senza dubbio un principio fondamentale di riferimento per affrontare le questioni della bioetica, ma – è importante sottolinearlo – non può essere assunto come criterio esclusivo. Esistono infatti altri principi – quello di non maleficità, quello di beneficità e quello di giustizia o di equità sociale – ai quali ispirare l’attività di cura.

La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dall’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente. Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario nel caso del testamento biologico) e che devono avere di mira il bene del singolo e quello della collettività.

L’interpretazione rigidamente individualista che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista, derivante da un contesto come quello degli Usa dove – è bene non dimenticarlo – circa cinquanta milioni di persone sono tuttora escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria. Chi per me?

2) Gestione del testamento biologico

La seconda questione ha come oggetto la gestione del testamento biologico, cioè le concrete modalità della sua esecuzione. Vi è, al riguardo, chi ritiene che esso abbia un preciso valore giuridico, e vada pertanto eseguito alla lettera, senza alcuna possibilità di mediazione, escludendo di conseguenza ogni spazio di intervento del medico. E vi è chi, invece, ritiene che si tratti di indicazioni da tenere in seria considerazione, che vanno tuttavia fatte oggetto di ulteriore valutazione tra il medico e il fiduciario designato dal paziente. In realtà tanto la stesura del testamento biologico quanto la sua esecuzione non sono (o non dovrebbero essere) atti puramente individuali, ma espressione di un processo che coinvolge il paziente (o chi lo rappresenta), in quanto portatore di bisogni e di diritti, e il medico in ragione della sua specifica competenza.

Il modello cui ispirare la condotta ci sembra possa essere dunque quello della «alleanza terapeutica» la cui attuazione comporta l’instaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia, che sfocia nella volontà di collaborare alla comune ricerca del bene del paziente. La giustificata reazione all’atteggiamento paternalistico del passato si traduce oggi spesso – per reazione – nell’opposta tendenza a fare del medico un mero esecutore tecnico della volontà del paziente, impedendogli di mettere a frutto la propria competenza con conseguente danno per lo stesso paziente. La mutua cooperazione, oltre ad evitare l’estensione (altrimenti inevitabile) dell’obiezione di coscienza dei medici, consente di verificare con maggiore precisione la reale situazione, prendendo in considerazione le novità nel frattempo intervenute in campo terapeutico e interpretando la volontà del paziente anche in relazione a questi cambiamenti.

3) Nutrizione e idratazione

Infine la terza e ultima questione (non ultima in ordine di importanza) concerne il significato che si attribuisce alla nutrizione e all’idratazione, e perciò la possibilità o meno di deciderne la sospensione in alcune situazioni particolari. Il dibattito, che si è sviluppato, in questo ultimo anno nel nostro Paese (in occasione soprattutto della vicenda di Eluana Englaro) ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte, con punte a volte di forte tensione ideologica. Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulle modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possano essere incluse nell’attività di «cura», e debbano pertanto essere in molti casi sospese.

Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa. È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico » (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico). Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quella area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva «eutanasia passiva») e accanimento terapeutico.

Questo implica che si debba di volta in volta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico. In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente. L’inserimento del loro rifiuto nel testamento biologico implicherebbe perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) potrebbe bastare – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di «diritto mite» da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto tra il proprio fiduciario e il medico.

Orientamenti per una corretta utilizzazione

L’acquisizione del significato proprio del testamento biologico e la disponibilità al suo corretto utilizzo esigono l’adempimento di alcune condizioni, che costituiscono la cornice entro cui il testamento va collocato. La prima di tali condizioni consiste nel farsi strada di una concezione relazionale dell’umano. Si è già detto dei rischi che si corrono quando ci si muove entro un orizzonte radicalmente individualista. Ogni atto umano si sviluppa all’interno di una rete di relazioni, ed implica pertanto il ricorso a una condivisione di responsabilità che non può essere elusa. Anche il testamento biologico, tanto nella fase di stesura che in quella esecutiva, comporta il concorso di altri soggetti (il medico di base o quello curante e successivamente il fiduciario) ed esige la convergenza di tutti attorno al bene del paziente.

La seconda condizione è costituita da una sempre maggiore estensione, a tutti i livelli, del concetto di cura proporzionata; concetto che laddove viene praticato, rappresenta il miglior antidoto tanto nei confronti dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico. Da questo punto di vista, è importante che si potenzino, anche nel nostro Paese, le cosiddette «cure palliative», il cui obiettivo è quello di «prendersi cura» della persona nella sua globalità, offrendole i necessari supporti fisici – si pensi alla terapia del dolore – e psicologici per vivere anche i momenti più drammatici di avvicinamento alla morte con la maggiore serenità possibile.

Infine, la terza (e ultima) condizione è costituita dall’esigenza di dare vita a una nuova «cultura della morte», che ne faccia riscoprire il profondo legame con la vita e, p
ur senza rinnegare il carattere di tragicità che inevitabilmente la connota, non rinunci a renderne trasparente il significato di compimento dell’esistenza e, per chi crede, di «realtà penultima», che prelude – è questo il senso della speranza cristiana – a una vita che non ha termine.

L’adempimento di queste condizioni è la via per accedere a una visione più umanizzata della malattia e della morte e per togliere al testamento biologico il carattere, oggi prevalente, di strumento difensivo o rivendicativo dei diritti soggettivi, trasformandolo in un vero esercizio di collaborazione all’azione medica, che è tanto più corretta ed efficace quanto più è rispettosa della volontà dei pazienti e quanto più tende, nel contempo, a salvaguardarne, in tutte le fasi della malattia, la dignità umana.