Honduras, la pax americana

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org

Lo scorso venerdì le delegazioni del presidente deposto dell’Honduras Manuel Zelaya e del governo golpista al potere hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per la risoluzione della crisi politica iniziata nel paese centroamericano il 28 giugno. Dopo mesi di trattative che si erano continuamente arenate sulla questione del reintegro del presidente democraticamente eletto, a sbloccare la situazione è stato l’intervento del governo americano che ha inviato una propria delegazione a Tegucigalpa per convincere il leader del regime, Roberto Micheletti, a cedere alle pressioni della comunità internazionale.

Nonostante il compromesso sia stato propagandato da Washington come un trionfo per la democrazia, il ritorno di Zelaya alla guida del paese a meno di un mese dalle elezioni presidenziali appare, prima che inutile, tutt’altro che scontato. Così come la tardiva presa di posizione dell’amministrazione Obama non potrà evitare il compiersi dello scopo ultimo di un colpo di stato che essa stessa aveva in definitiva tacitamente appoggiato: impedire il cambiamento politico e sociale nel secondo paese più povero del continente. Se Zelaya verrà restituito al suo ruolo costituzionalmente legittimo, la sua sarà in ogni caso una brevissima presidenza privata di poteri in un governo da condividere con le stesse persone che cinque mesi fa lo avevano costretto all’esilio.

Le premesse per lo scioglimento dell’impasse honduregna, come già anticipato, erano state poste dall’arrivo nella capitale dell’assistente al Segretario di Stato americano per l’emisfero occidentale, Tom Shannon, già in carica durante l’amministrazione Bush, e del consigliere di Obama per l’America Latina, Dan Restrepo. Obiettivo della delegazione americana era quello di rendere legittime agli occhi della comunità internazionale le elezioni presidenziali del 29 novembre prossimo, trasformandole nell’occasione per ristabilire finalmente l’ordine in Honduras. Dal momento che praticamente nessun paese, USA compresi, appariva disposto ad accettare il risultato di un voto condotto con il presidente legittimo asserragliato nell’ambasciata brasiliana, dove era giunto a fine settembre, il governo di Micheletti ha finito col cedere.

I termini dell’accordo firmato dalle due parti a Tegucigalpa con la benedizione di Washington risultano molto simili a quelli contenuti nella proposta avanzata dal presidente del Costa Rica, Oscar Arias, dopo il golpe di giugno e che da subito aveva mostrato ben poche possibilità di raggiungere un qualche risultato definitivo. Ciò include in primo luogo la formazione di un governo di unità nazionale, all’interno del quale non è chiaro quale sarà la sorte dei politici e dei funzionari ministeriali vicini a Zelaya e rimpiazzati all’indomani del golpe. Nessun provvedimento invece verrà preso nei confronti di quei membri dell’esercito protagonisti del colpo di mano dello scorso giugno.

Da parte sua, Zelaya rinuncerà a qualsiasi pretesa di dar vita ad un Assemblea Costituente per modificare una Carta che l’Honduras ha adottato nel 1982, dopo la fine del regime militare, e che da allora ha servito gli interessi di un’oligarchia detentrice della gran parte della ricchezza del paese. Proprio il tentativo di Zelaya di tenere una consultazione popolare non vincolante per rivedere la costituzione era stato il pretesto scatenante il golpe. Secondo i golpisti, infatti, il presidente stava cercando di cambiare la costituzione in modo da ottenere l’abolizione del limite di un solo mandato alla guida del paese per poter correre nelle elezioni di novembre. Un’accusa evidentemente falsa, dal momento che l’eventuale elezione di un’assemblea costituente avrebbe dovuto tenersi proprio al momento della scelta del suo successore.

Una commissione con il compito di investigare a fondo gli eventi legati al golpe verrà poi istituita, mentre un organo costituito da esperti indipendenti honduregni e internazionali veglierà sull’implementazione dell’accordo. Mentre sarà escluso qualsiasi procedimento criminale ai danni di quanti sono stati coinvolti nel colpo di stato, nessuna amnistia è prevista invece, come chiedeva inizialmente Zelaya, per eventuali reati politici. Una condizione verosimilmente voluta dai militari, a quanto pare tuttora intenzionati a processare il presidente legittimo per tradimento.

Un altro punto critico delle trattative era poi la scelta dell’organismo a cui affidare l’eventuale decisione formale di reintegrare Zelaya. Quest’ultimo si aspettava infatti un voto del parlamento, nonostante in esso conservasse il supporto di appena un quinto dei deputati, mentre per Micheletti avrebbe dovuto essere quella stessa Corte Suprema che aveva deliberato la rimozione del suo rivale a deciderne il ritorno. Secondo il compromesso mediato agli USA, alla fine, la Corte Suprema dovrà emanare una propria opinione in merito allo status di Zelaya, sulla quale poi il Congresso sarà chiamato ad esprimere il voto decisivo.

Sui tempi tuttavia rimane estrema incertezza e le prime indicazioni fanno temere ulteriori ritardi nell’applicazione dell’accordo. In un’intervista alla stazione radio honduregna HRN, infatti, il presidente del Parlamento, José Alfredo Saavedra, ha già fatto sapere di non voler accettare ultimatum da parte di nessuno in merito alla data di un possibile voto sulla sorte di Zelaya. Fino a quel momento, Micheletti rimarrà così in carica con i pieni poteri. Ancora più preoccupanti sono state addirittura le dichiarazioni rilasciate da un membro dello staff del presidente golpista, Marcia Facussé de Villeda, a Bloomberg News, alla quale ha ammesso che “Zelaya non sarà reintegrato. Con la firma dell’accordo semplicemente ci siamo assicurati il riconoscimento delle elezioni presidenziali da parte della comunità internazionale”.

In attesa dei nuovi sviluppi della situazione, Mel Zelaya e il suo entourage rimangono bloccati dentro l’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa, accerchiata dalle forze di sicurezza honduregne che nelle ultime settimane hanno puntualmente dissolto con la forza ogni manifestazione pacifica a sostegno del presidente deposto. Zelaya, che verrà comunque sostituito dal suo successore il prossimo mese di gennaio, ha da parte sua descritto l’accorso siglato venerdì scorso come un “segno di pace per il nostro paese e del ristabilimento della nostra democrazia”. I suoi ringraziamenti sono andati al Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton e alla delegazione americana protagonista della mediazione, così come al presidente costaricano Arias e al governo brasiliano di Lula.

Significativamente assente dai ringraziamenti di Zelaya è stato invece il presidente venezuelano Hugo Chavez, tra i critici più vigorosi del golpe di giugno. Proprio la progressiva vicinanza con Chavez, consolidata da contratti di fornitura di petrolio all’Honduras al di sotto del prezzo di mercato, era stata un’altra delle scuse che avevano condotto al colpo di stato. La classe dominante honduregna aveva più volte criticato la svolta a sinistra di Zelaya nel corso del suo mandato presidenziale, paventando per il proprio paese un percorso verso il socialismo simile a quello intrapreso dal Venezuela.

Il presunto successo diplomatico degli Stati Uniti, in ogni caso, non dissolve di certo le ombre e le ambiguità di un’amministrazione che pure aveva condannato ufficialmente il golpe fin dall’inizio. Innanzitutto, rimane l’interrogativo di un intervento americano che avrebbe potuto giungere ben prima della fine di ottobre per risolvere la crisi. Soprattutto alla luce della profonda influenza storicamente esercitata da Washington sull’Honduras, per il quale rappresenta di gran lunga il primo partner commerciale e l’investitore estero più importante.

Una strategia dilatoria quella dell’amministrazione Obama che, se ufficialmente è stata
dettata dalla volontà di non intervenire direttamente nelle questioni interne di un paese sovrano, favorendo piuttosto il dialogo tra le parte in causa, ha dato l’impressione a molti di assecondare il governo di Micheletti prolungando le trattative fino alle elezioni di fine novembre, così da mettere da parte Zelaya e, di riflesso, contenere l’espansione nel continente di Hugo Chavez. Un sospetto alimentato anche dagli stretti legami dal punto di vista militare tra USA e Honduras, circostanza che rende difficile credere che Washington fosse stata all’oscuro delle manovre golpiste in atto la scorsa estate.

Nelle parole di Hillary Clinton dopo l’annuncio dell’accordo, gli esponenti del governo golpista sono stati allora descritti alla stregua di eroi della democrazia honduregna, spazzando via le loro responsabilità nel ribaltamento illegale dell’ordine democratico, ma anche dell’assassinio di almeno una ventina di oppositori, di centinaia di feriti e della soppressione sistematica del dissenso nel paese.

Se l’esito della crisi politica dell’Honduras rimane insomma ancora tutto da verificare, con i due candidati della destra favoriti per la vittoria nelle elezioni presidenziali, chi esce sconfitto dall’intera vicenda, almeno per ora, sembra essere il movimento di protesta sorto tra i lavoratori e le classi più emarginate nel corso dell’esilio forzato di Zelaya. Una richiesta di cambiamento diventata però impetuosa negli ultimi mesi, proprio in seguito al golpe promosso da quella ristretta aristocrazia economica che controlla il potere, e che promette di portare frutti importanti anche in questo paese nel prossimo futuro.