Israele-Palestina: pace ardua, malgrado Obama

di Lucia Cuocci e David Gabrielli
da www.confronti.net

Al vertice tri-partito di New York tra Obama, Netanyahu e Abbas, malgrado le pressioni della Casa Bianca il premier israeliano ha rifiutato di congelare gli insediamenti, condizione posta dai palestinesi per trattare. Complicano la scena il Rapporto Goldstone su «piombo fuso», a Gaza, e il nucleare iraniano.

La pace – pace giusta – tra Israele e Palestina (futura) è più vicina o più lontana, dopo gli ultimi eventi in Medio Oriente, e soprattutto dopo il «vertice» tri-partito, a New York, tra Barack Obama, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen)? Eravamo a Gerusalemme e dintorni, quando si è svolto l’evento: partendo dunque dalle reazioni di laggiù, ci sembra di poter dire che la situazione sul terreno peggiora, e fa intravedere scenari molto amari, se un colpo d’ala della super-potenza non farà riprendere il volo all’aereo della pace.

Se Obama perde la pazienza…

Il 22 settembre, a New York, nell’ambito della 64ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, Obama ha incontrato Netanyahu ed Abbas. Dopo il vertice, Haaretz – uno dei più autorevoli quotidiani «liberal» israeliani – il 23 settembre titolava in prima pagina: «Al summit tri-partito, Obama mette in guardia Netanyahu ed Abbas: “Sto perdendo la pazienza”». E lo stesso presidente ha spiegato ai giornalisti: «Non possiamo continuare a fare passi in avanti e poi tornare indietro. I negoziati permanenti debbono cominciare, e cominciare subito».

Il «vertice» veniva una settimana dopo che l’inviato del presidente per il Medio Oriente, George Mitchell, aveva fatto la spola tra le capitali della regione, e incontrato sia Netanyahu che Abbas. Malgrado le pressioni statunitensi, il premier israeliano non accettava però di porre un alt definitivo alla costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, o al sostanziale allargamento di quelli già esistenti là (circa centocinquanta, con trecentomila abitanti, escludendo Gerusalemme-est); e, per una limitata sospensione temporanea, chiedeva agli arabi di riconoscere Israele come «Stato ebraico». Abbas ribadiva, invece, che la sospensione senza condizioni della costruzione di nuovi insediamenti era la premessa indispensabile per riprendere le trattative; e si domandava poi che cosa significasse Israele = «Stato ebraico»: non sarebbero più legittimamente a casa propria 1.513.000 arabi che vivono in Israele, discendenti della popolazione stanziata da secoli in quella che era la Palestina dal 1517 in mano turca ottomana, e dal 1917 al ’47 sotto Mandato britannico? Il 20,26% dell’intera popolazione del paese (ove gli ebrei sono 5.634.000, il 75,47%) sarebbe dunque straniera nella terra dove è nata?

Più volte, negli ultimi mesi, Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton avevano ripetuto a Netanyahu che proprio la continua espansione (o l’inarrestabile ampliamento) degli insediamenti era un macigno sulla strada della pace; ma il premier era rimasto della sua idea e, quando ha fatto balenare un sia pur temporaneo blocco, lo ha legato a condizioni inaccettabili per i palestinesi. Perciò la dirigenza di al-Fatah, il partito di Mahmud Abbas, aveva quasi ipotizzato di evitare l’incontro di New York. Drastico, poi, il giudizio di Ismail Haniyeh, il leader di Hamas che, de facto, controlla la Striscia di Gaza e che contesta la legittimità dell’autorità del presidente palestinese: «Non accetteremo cedimenti ad Israele».

L’ombra delle armi nucleari iraniane

Due temi si sono mescolati, alla 64ma Assemblea generale dell’Onu, quando, dalla tribuna, hanno parlato Obama, il 23 settembre, Netanyahu, il 24 settembre, e poi Abbas l’indomani: l’Iran, il cui presidente, Mahmud Ahmadinejad, di nuovo ha minacciato Israele e deciso di «provare» in patria dei missili che, con una gittata di oltre duemila chilometri, potrebbero raggiungere Israele; e poi il conflitto israelo-palestinese. Temi distinti, ma per certi aspetti mescolati. Sul primo argomento il capo della Casa Bianca ha detto: «Nelle loro azioni i governi della Corea del Nord e dell’Iran minacciano di portarci su di un pendio pericoloso. Noi rispettiamo i loro diritti come membri della comunità delle nazioni… Ma se i governi dell’Iran e della Corea del Nord decidono di ignorare gli standard internazionali, se essi dimenticano il pericolo di una escalation della corsa verso le armi nucleari sia in Asia orientale che in Medio Oriente, allora essi debbono essere messi sull’avviso. Il mondo deve alzarsi in piedi unito per dimostrare che il diritto internazionale non è una promessa vuota».

E Netanyahu (interessato solo alla politica di Teheran): «L’uomo [Ahmadinejad] che considera l’Olocausto [la Shoah] una bugia, ieri ha parlato da questa tribuna. Ringrazio chi di voi lasciò allora, per protesta, quest’aula. Voi avete affermato la chiarezza morale e reso onore ai vostri paesi. Ma a quelli che hanno dato ascolto a questo negatore dell’Olocausto, io dico, in nome del mio popolo, il popolo ebraico, e in nome della gente onesta che vive ovunque: non avete vergogna?». Poi, affermato che «il regime iraniano è alimentato da un fondamentalismo estremo», ha proseguito: «La più grande minaccia che deve affrontare oggi il mondo è il matrimonio tra il fanatismo religioso e le armi di distruzione di massa. E la più grande sfida è prevenire che i tiranni di Teheran acquisiscano armi nucleari. La comunità internazionale sarà capace di opporsi al dispotismo che terrorizza la sua stessa gente quando essa coraggiosamente si erge per difendere la libertà? Vorrà la comunità internazionale contrastare il più pericoloso sponsor e professionista mondiale del terrorismo?».

Obama critica gli insediamenti, e Netanyahu Goldstone

«L’America – ha detto Obama all’Onu – lavora risolutamente per far avanzare la causa dei due Stati, Israele e Palestina, ove siano garantite pace e sicurezza, e i diritti sia degli israeliani che dei palestinesi… Ieri ho avuto un confronto costruttivo con il premier Netanyahu e con il presidente Abbas. I palestinesi hanno rafforzato il loro impegno per la sicurezza. Gli israeliani hanno permesso una maggiore libertà di movimento ai palestinesi. Come risultato degli sforzi delle due parti, l’economia in Cisgiordania ha iniziato a crescere. Ma occorrono ulteriori progressi. Noi continuiamo a chiedere ai palestinesi di porre fine agli incitamenti contro Israele, e continuiamo a sottolineare che l’America non accetta la legittimità dei continui insediamenti israeliani».

E Netanyahu: «Io, il mio governo, il popolo di Israele vogliamo la pace. Ma vogliamo una pace genuina, difendibile, permanente. Nel 1947 quest’assemblea votò per creare [nella Palestina del Mandato britannico] due Stati per due popoli: uno Stato ebraico ed uno Stato arabo. Gli ebrei accettarono quella risoluzione, gli arabi la rifiutarono. Noi domandiamo ai palestinesi di fare finalmente quello che per 62 anni hanno rifiutato di fare: dire sì ad uno Stato ebraico… Il popolo ebraico non è un conquistatore straniero nella terra di Israele. Questa è la terra dei nostri antenati».

Il 15 settembre era stato reso noto il Rapporto della Missione, istituita dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, di accertamento sugli eventi legati all’operazione «Piombo fuso», l’attacco alla Striscia di Gaza attuato dal governo israeliano dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio seguente per stroncare alla radice – questa la motivazione ufficiale – il lancio di razzi, dalla Striscia di Gaza, contro la popolazione civile delle confinanti città israeliane. Il capo della Missione era Richard Goldstone, giudice sudafricano di origine ebraica che, tra i molti altri compiti di carattere
internazionale, dal 1994 al ’96 era stato capo del tribunale dell’Onu per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e in Ruanda. Il Rapporto (vedi pagina 10) afferma che Israele ha compiuto crimini di guerra, e così pure li ha compiuti Hamas. Criticando con asprezza il testo come «aprioristicamente» anti-israeliano, «Viesti», il maggior giornale in lingua russa in Israele (dove vivono più di un milione di ebrei di origine russa o ex sovietica), il 17 settembre titolava: «Giorno nero nella storia del diritto internazionale».

E Netanyahu all’Onu: «Per otto lunghi anni Hamas ha lanciato da Gaza missili e razzi contro le vicine città israeliane. Anno dopo anno, mentre questi missili erano deliberatamente lanciati contro i nostri civili, non vi è stata nemmeno una risoluzione dell’Onu che condannasse tali attacchi… Nel 2005, sperando di far progredire la pace, Israele si è unilateralmente ritirato dalla Striscia. Abbiamo smantellato ventuno insediamenti e ritirato più di ottomila israeliani. Non abbiamo raggiunto la pace. Al contrario, abbiamo ottenuto un terrore sostenuto dall’Iran e con base a cinquanta miglia da Tel Aviv… Infine, dopo otto anni di questo interminabile assalto, Israele è stato costretto a rispondere. Affrontando un caso evidente di chi sia l’aggressore e di chi sia la vittima, chi il Consiglio dell’Onu per i diritti umani ha deciso di condannare? Israele. Quale perversione della verità!».

Abbas: la radice di tutto è l’occupazione israeliana

«La sofferenza del popolo palestinese come risultato dell’occupazione coloniale israeliana è di chiara evidenza al mondo»: così iniziava l’intervento del raìs (presidente) Abbas all’Onu. E, ricordata la continua espansione degli illegali (secondo le norme della convenzione di Ginevra del 1949) insediamenti ebraici, in Cisgiordania ed a Gerusalemme-Est, costruiti dopo il 1967, e le ulteriori restrizioni imposte dal muro (di separazione tra Israele e Cisgiordania, eretto però non sulla linea armistiziale del 1949, ma chilometri all’interno del territorio palestinese), aggiungeva: «Se il diritto internazionale stabilisce l’inammissibilità dell’acquisizione di un territorio con la forza, come allora noi possiamo affrontare l’attuale situazione, quando la politica israeliana sugli insediamenti svuota la possibilità di creare uno Stato palestinese con territorio continuo, e svuota l’attuazione delle varie risoluzioni internazionali e accordi di principio, compresa la Road map [lanciata nel 2002 da Onu, Usa, Russia e Ue], che è basata sul principio “la terra in cambio della pace” e la fine dell’occupazione iniziata nel 1967?». Tutte le varie proposte per raggiungere la soluzione di «due Stati, due popoli», da quella lanciata da Obama, all’iniziativa della Lega araba (riconoscimento di Israele purché si ritiri entro i confini del 1967), sono fallite «a causa dell’intransigenza di Israele. Come è concepibile che si tengano negoziati sui confini e su Gerusalemme mentre i bulldozer israeliani stanno lavorando per cambiare la realtà sul terreno allo scopo di crearne una nuova e imporre confini come Israele desidera?». Per non parlare, ha continuato, degli undicimila palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane, delle sofferenze causate dagli arresti, dai check-point (sono oltre cinquecento in Cisgiordania) e dalle uccisioni.

«Il popolo palestinese – ha spiegato poi – è determinato a porre fine alle sue divisioni interne ed a ristabilire l’unità nazionale. Il nostro fratello, l’Egitto, sta facendo rilevanti sforzi per raggiungere tale meta». Con queste parole, generiche, Abbas ha fatto indiretto riferimento al lavorio del Cairo per superare la spaccatura tra al-Fatah, che governa la Cisgiordania, ed Hamas che governa la Striscia. In agosto Hamas ha impedito ad alcuni delegati di Gaza di raggiungere il congresso di al-Fatah, celebrato a Betlemme. Il VI congresso, il primo che si svolgesse nei Territori occupati palestinesi, dopo il V celebrato a Tunisi nel 1989, ha visto la partecipazione di oltre 2300 delegati; vi è stato un ampio rinnovamento nel comitato centrale del partito ed in esso è entrato anche Marwan Bargouti, emblema della Resistenza palestinese che, in un carcere israeliano, sta scontando cinque ergastoli.

Abbas non ha toccato il tema Iran. I palestinesi – in generale – non sono affatto entusiasti dell’eventuale armamento nucleare iraniano, perché temono di essere ancora loro, infine, a pagare il prezzo di vicende di cui non sono responsabili. Spesso, tuttavia, si domandano perché mai la comunità internazionale non chieda anche ad Israele di poter verificare gli armamenti nucleari che questo paese certamente possiede, senza che l’Occidente protesti.

Intanto, il Rapporto Goldstone ha aperto una crisi, dalle conseguenze per ora non valutabili, in campo palestinese. Infatti Abbas ha deciso di chiedere ai paesi arabi ed islamici membri del Consiglio dell’Onu per i diritti umani di rinviare a marzo l’approvazione del Rapporto. Dilazione che ha provocato la protesta della Siria (è stato differito un suo viaggio a Damasco) e, soprattutto, di molti palestinesi, anche di al-Fatah, che apertamente lo accusano di «tradimento», e perciò ne chiedono le dimissioni. Alcuni sostengono che, cedendo alle pressioni statunitensi, il raìs ha congelato il voto per non urtare troppo Netanyahu che, altrimenti, non avrebbe mai più trattato con lui.

La mossa di Abbas ha inasprito lo scontro con Hamas. Quest’ultimo ha annunciato il rinvio della firma degli accordi di riconciliazione con Al Fatah, prevista per il 26 ottobre al Cairo. Abbas, da parte sua ha dichiarato il 20 ottobre scorso di voler indire, per decreto, le elezioni presidenziali e legislative il 24 gennaio 2010, nonostante il parere contrario di Hamas.

Il carisma di Obama alla prova del fuoco

I vari fronti tratteggiati – e che si inquadrano nel più vasto scenario mediorientale, dalla Siria all’Egitto, all’Iraq, all’Arabia Saudita… – rinviano tutti ad Obama: riuscirà il presidente statunitense, con tutto il suo carisma, accresciuto ora dall’attribuzione a lui del Nobel per la pace 2009, a costringere i vari responsabili alla pace, o anch’egli fallirà? Egli dispone delle pressioni politiche, militari (stop alla fornitura di armi ad Israele) ed economiche per indurre Netanyahu – perché Abbas già ha detto sì – a riempire di contenuto la formula «due Stati, due popoli», il che, oltre che permettere a Gaza una vita normale (mentre ora è una prigione a cielo aperto, dove tutto – cibo e medicine compresi – entra solo con il consenso di Israele), significa bloccare gli insediamenti. Ma, per ora, essi proseguono, e il fatto che il capo della Casa Bianca si limiti a perdere la pazienza non turba i piani dell’espansionismo israeliano nella Cisgiordania occupata.

D’altronde, l’emergenza Iran, e l’eventuale e devastante strike israeliano per impedire che Teheran si doti di armamenti atomici, cancellerebbe l’urgenza della questione palestinese, lasciando continuare a patire chi laggiù patisce. Non sappiamo se i colloqui ad alto livello, iniziati ai primi di ottobre a Ginevra tra Usa ed Iran sulla questione del nucleare, riusciranno, favorendo così indirettamente i palestinesi; o se falliranno, rafforzando l’opzione militare di Israele. Il futuro è più incerto che mai.