No, laicità non significa togliere il crocefisso, simbolo d’amore

di Aurelio Mancuso
da “Gli Altri”, 5 novembre 2009

Non sono d’accordo con la sentenza della Corte europea dei diritti e non mi piacciono la gran parte delle reazioni della politica e della chiesa italiane. D’impulso direi: giù le mani dal crocefisso, chiunque voi siate, cattolici, cristiani, atei, agnostici, giudici europei o italiani, cardinali, leader politici.

Non si cancellano consuetudini (non tradizioni) con sentenze anche illuminate e dal punto di vista della difesa della laicità dello Stato ineccepibili. So che mi attirerò le ire di tante e di tanti, ma trovo la polemica sul crocefisso inutile, sopra le righe e soprattutto ipocrita.

L’Italia è un paese cattolico e non si può offendere il sentimento popolare rispetto alla religione? Forse no, forse sì, non è questo il punto. Il nostro paese ha un lungo percorso da fare dal punto di vista dell’emancipazione dai poteri superstiziosi delle gerarchie cattoliche.

Il misticismo cristiano, dopo alcuni falliti tentativi di correzione da parte del Concilio Vaticano II, è di nuovo ripiombato nella magia blasfema, nei riti di guarigione fisica e spirituale saccheggiati da tutte le tradizioni religiose precedenti e coeve.

In questo clima, si è scientificamente lavorato per l’ampliamento della devozione infantile del popolo di Dio, che è tagliato fuori da qualsiasi dibattito e determinazione teologica, dalle approfondite riflessioni esegetiche.

Quando una religione è utilizzata da ristrette schiere, che a seconda delle posizioni dominanti propinano visioni parziali se non strumentali del Vangelo, è destinata a essere tragicamente faraonica, imbellettata da ori, pietre preziose, incensi, pompose processioni.

Un’egoistica aridità che negli ultimi ventanni ha dato sfoggio di se, facendosi scudo di migliaia di nuovi santi presentati come il rinnovato pantheon a difesa di una fede, che lascia il posto alla credulità.

Naturalmente certa politica ci va a nozze: più c’è dipendenza morale, incapacità di discernere, e più il potere agisce indisturbato, tronfio di un’alleanza affaristica con i gerarchi cattolici. Tutto questo non centra proprio nulla con il crocefisso che è il simbolo dell’estremo amore, del disinteresse, del rifiuto di ogni compravendita della fede.

Cancellare di colpo il simbolo della cristianità dagli uffici pubblici sarebbe un buon passo in avanti verso un completamento della laicità dello Stato? No, credo solo che riproporrebbe una antica e non paritaria lotta tra credenti e non credenti, élites guelfe e ghibelline, cui non interessano affatto comprendere che il sentimento religioso travalica i loro maneggi di potere.

Farsi il segno della croce dentro una chiesa o davanti a un cimitero è usuale, mentre quasi nessuno pensa di compiere quel gesto davanti a un crocefisso appeso in un’aula di tribunale. Ritornare al pre fascismo sarebbe auspicabile, ma la storia dovrebbe aver insegnato che ogni tempo ha bisogno di soluzioni possibilmente nuove.

Con quale educazione religiosa dobbiamo fare i conti? Quale senso civico e gelosa separazione tra Stato e chiesa sono maturati grazie all’opera delle classi dirigenti italiane?

Strappare il crocefisso da quei muri, non ascoltando le starnazzanti urla delle potenti sottane degli eunuchi per il regno dei Cieli, o peggio dei disgustosi politici devoti (non al Cristo, ma all’organizzazione del papa Re) significa offendere non Dio, ma l’amore che milioni di italiani hanno nei confronti di un simbolo di genuina pietas.

In questi tempi di sprofondamento morale, se proprio dobbiamo togliere simboli religiosi, separare i mercanti del Tempio da Dio, inizierei dalle pesanti collane d’oro, di cui si ornano schiere di monsignori, cui sono appesi orribili croci tempestate di preziose pietre. Riporterei all’essenza il messaggio cristiano, senza arrivare alla spogliazione, almeno cercando di avvicinarmi al buon gusto.

Invece di perdersi in assurde diatribe, perché non apriamo una vera e concreta riflessione su cosa oggi è la religione cattolica, perché continua a persistere nel 2009 il Concordato, perché a ogni inaugurazione, cerimonia ufficiale dello Stato siano necessarie schiere di edonisti preti, che senza alcun senso di preservazione della decenza, benedicono eserciti, monumenti, onorificenze, e così via?

La croce, simbolo per quanto mi riguarda anche di tutte le malefatte e tragedie consumate nel suo nome, è la nostra possibilità per ricordare come esista una volontà altra di amore, di cui gli umani difficilmente riconoscono l’importanza, che siano cristiani o meno.

Vi è poi un punto non indifferente che va indagato con serietà: quanto quel simbolo sia oggi percepito come invasivo dalle minoranze religiose non cristiane così fortemente in ascesa nel nostro Paese.

Anche in questo senso mi sembrerebbe utile aggiungere nuove culture, credenze e aspirazioni, più che cancellare un simbolo che per la stragrande maggioranza degli italiani significa unità e non divisione, nonostante il cattivo spettacolo che i suoi tanti interessati sostenitori propugnano sulle televisioni nostrane.

E ai miei amici e compagni Radicali e del Prc, vorrei solo dire, che testimoniare la laicità come hanno sempre fatto, è un bene prezioso per tutta l’Italia, quindi, comprendo le loro prese di posizioni. Mi permetto di rilevare che la sottrazione di quel simbolo non sarebbe oggi una vittoria della libertà sulle visioni autoritarie, ma sarebbe interpretato dai più come un protervo gesto di violenza culturale.

Le posizioni devono rimanere ferme: dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. La commistione tra politica e pregiudizio è talmente forte che il primo segno di buon senso è quello di impegnarsi in un lungo percorso di cambiamento educativo, che non passa attraverso le scorciatoie, come troppe volte ultimamente sta imboccando la sinistra politica e mediatica italiana; alla fine si sbatte sempre la testa.

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Perché pensiamo che il crocefisso a scuola sia inopportuno

di Alessio De Giorgi e Giuliano Federico

La lettera aperta che il presidente di Arcigay Aurelio Mancuso ha pubblicato sul suo profilo Facebook, nella quale si palesa il disaccordo con la sentenza dell’Unione Europea che invita a rimuovere i crocefissi dalla aule delle scuole, segnala la necessità di un’analisi più approfondita della questione, che trascenda la dicotomia credenti/non credenti e che superi le posizioni politiche intorno a questo dibattito.

Aurelio Mancuso sottolinea il valore della consuetudine culturale e umana legata alla croce cristiana, asserendo che essa è in primis un simbolo d’amore tanto profondamente radicato nel vissuto degli Italiani, che la sua sparizione rappresenterebbe un gesto di violenza. Questa asserzione implica una visione personale che però fa perdere di vista l’oggettiva realtà dei fatti. Il crocefisso infatti è, nella sua intrinseca natura, un simbolo religioso.

Il simbolo, non già di un Amore neutrale e generico, ma la bandiera di uno specifico, determinato credo. Come tale deve essere riconosciuto, come tale deve essere rispettato. La potenza di un simbolo non può e non deve essere sottovalutata: qualsiasi emblema, di ogni natura – sociale, politica, religiosa – esercita potere sullo spazio in cui è posto, annullandone la neutralità.

Un crocefisso appeso a un muro non è soltanto il retaggio di una tradizione, non può essere visto solo come parte di una consuetudine sociale, come presenza di un vissuto al quale possiamo anche essere affezionati: esso è una bandiera, legata in mondo imprescindibile e univoco a una specifica appartenenza religiosa
, che segnala il proprio potere su un determinato luogo. E il luogo in questione, in questo caso, è il più sacro di tutti.

La scuola è infatti il tempio della formazione, lo spazio che raccoglie le menti più ricettive e influenzabili di una società, le menti sulle quali facciamo affidamento per il nostro domani. La scuola rappresenta, per i bambini, il primo contatto con lo spazio “pubblico”: come tale ha la responsabilità di mantenersi neutrale, tollerante, aperta a tutti, laica nel senso più nobile del termine.

Un’aula con un crocefisso appeso sopra la lavagna non è solo una consuetudine: è un potente messaggio di appartenenza che, in un luogo preposto alla formazione, si amplifica e diventa sottilmente impositivo. Questo non può essere considerato accettabile nell’ambito dell’istruzione pubblica, in un luogo che dovrebbe essere “spazio bianco” per la formazione politica, sociale e culturale libera e laica. La sfera privata rimane lo spazio preposto alle scelte personali, tra le quali anche quelle religiose.

Lo spazio pubblico, in uno Stato laico deve essere de facto un luogo neutrale, senza simboli e senza emblemi. Confondere la tradizione culturale dell’Italia con la diffusione di un simbolo – si torna a dire – intrinsecamente e specificatamente religioso, porta a cadere in un tranello che troppe volte è stato invocato. Il cattolicesimo non è una tradizione, non è una consuetudine. Il cattolicesimo è una religione. E la croce è il suo simbolo. Simbolo di questo, e di nient’altro.

L’assenza di un crocefisso sul muro della scuola non priverà un bambino cattolico della sua fede. L’assenza di un crocefisso sul muro non farà sentire un bambino ebreo o musulmano “fuori posto”. L’assenza di un crocefisso sul muro lascerà uno spazio bianco, neutrale, laico e libero, nel quale i due bambini potranno confrontarsi.

Ad Aurelio Mancuso vogliamo dire che è questo il ruolo di una scuola laica. E di uno Stato laico. E ricordargli che la possibilità ch’egli ha avuto oggi di esprimere la propria posizione in difesa del crocefisso è figlia proprio di una società che non impone né a lui, né a noi, un pensiero unico. Così come non dovrebbe imporre ai nostri bambini un solo simbolo religioso.