L’addio di Abu Mazen

di Luca Mazzucato
da www.aprileonline.info

Il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni palestinesi, che lui stesso ha convocato per il prossimo gennaio. La decisione è stata presa in seguito alle forti polemiche per la sua posizione ambigua sul rapporto della Commissione Goldstone su Gaza e il buco nero in cui sono precipitate le speranze di pace in Medioriente. A capo dell’ANP da cinque anni, Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) è stato un pilastro di moderazione nel panorama palestinese, dopo la morte di Yasser Arafat. A settantaquattro anni, una vita di militanza nell’OLP e in Al Fatah, ha rappresentato insieme al premier palestinese Fayyad l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e il garante dello status quo. Personaggio chiave della strategia del “processo di pace,” durante l’amministrazione Bush e i governi Sharon-Olmert-Livni si è distinto per il suo supino allineamento alle richieste occidentali e israeliane.

Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e il sequestro da parte israeliana di tutti i parlamentari eletti nel movimento islamico, Abbas ha avallato un vero e proprio golpe, insediando Fayyad a capo di un governo di Fatah e cercando di riconquistare con la forza delle armi la Striscia di Gaza, controllata da Hamas. Quest’ultima azione, portata avanti dal compagno di partito Muhammad Dahlan sotto il controllo americano, è sfociata in una sanguinosa guerra per bande e nell’espulsione di Fatah dalla Striscia di Gaza. Il conflitto intra-palestinese cominciato allora rimane tuttora irrisolto, nonostante gli assidui tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah perpetrati da Egitto, Qatar e Arabia Saudita.

Rappresentante della vecchia guardia di Fatah, notoriamente corrotta e ormai priva di consensi, Abu Mazen non ha perso occasione per minare la propria credibilità agli occhi del popolo palestinese. In seguito ai sanguinosi scontri tra Hamas e Fatah a Gaza, le forze di polizia palestinesi in West Bank, sotto il controllo del presidente, hanno attuato una feroce repressione ai danni degli attivisti di Hamas, in un gioco di squadra insieme alle forze di Occupazione israeliana. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso riguarda l’atteggiamento tenuto da Abu Mazen nei confronti della Commissione Goldstone sull’invasione di Gaza nello scorso Gennaio.

Il rapporto della Commissione ONU, guidata dal giudice Goldstone, fervente sionista e dunque inattaccabile dalla propaganda israeliana, accusa governo ed esercito israeliano (insieme ad Hamas) di crimini di guerra durante l’invasione di Gaza. A fine settembre, la delegazione palestinese all’ONU avrebbe dovuto iniziare le procedure per presentare il dossier all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite. Ma Abu Mazen si è piegato alle pressioni americane e ha deciso di bloccare l’iniziativa e posticiparla all’anno prossimo, cercando di insabbiare il procedimento.

La sottomissione di Abbas al diktat americano è stata di fatto percepita come un tradimento imperdonabile della causa nazionale da parte dei palestinesi, che sono scesi in piazza numerosi a dimostrare contro Abbas, tanto che persino la Siria e gli altri paesi arabi hanno condannato la mossa. Nonostante siano stati presi di mira dalla Commissione Goldstone, i leader di Hamas hanno accusato Abbas di giustificare a posteriori il massacro dei millequatrocento palestinesi morti nelle tre settimane di conflitto. Abbas ha cambiato idea la settimana scorsa, ottenendo l’approvazione del dossier Goldstone dal Consiglio ONU per i Diritti Umani nonostante la contrarietà americana, ma l’indecisione dimostrata in precedenza sarà difficile da digerire per gli elettori palestinesi. Durante una recente telefonata con Obama, in cui lo avvisava della sua volontà di farsi da parte, Abbas ha ammesso al presidente americano che il caso Goldstone è stato un grave errore politico.

Questo è il percorso che ha portato Abu Mazen a non ricandidarsi. Ha atteso la partenza del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, in visita ufficiale tra Israele e Palestina, per rendere nota la propria decisione con un messaggio in diretta tv, ammettendo che qualsiasi tentativo di dialogo con il governo del falco Netanyahu è inutile e dunque la sua missione politica è esaurita.

Nonostante le elezioni siano programmate per il prossimo gennaio, è improbabile che la data venga rispettata. Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha dichiarato che non riconoscerà le elezioni fino a quando non verrà raggiunto un accordo tra il movimento islamico e Fatah, accordo che al momento resta lontano. Dunque Abu Mazen rimarrà saldamente al potere ancora per qualche tempo, in attesa che tra le file di Fatah emerga un candidato alternativo. Ma quali sono le alternative?

Al recente congresso di Fatah, il maggior consenso è stato riscosso proprio da Muhammad Dahlan, l’artefice del fallito colpo di stato a Gaza contro Hamas e uomo di fiducia dei servizi segreti americani. Ma la popolarità di Dahlan tra i palestinesi è ridotta, per via delle voci di corruzione e soprattutto per la sua rocambolesca fuga da Gaza in West Bank, orchestrata dall’esercito israeliano. Rimane Marwan Barghouti, ex-capo delle milizie Tanzim, che gode di un enorme consenso popolare e pare l’unico in grado di battere Haniyeh, il premier del governo Hamas a Gaza. Purtroppo, Barghouti si trova nelle carceri israeliane, dove sta scontando una condanna a cinque ergastoli, sebbene voci sul suo possibile rilascio riaffiorino di tanto in tanto.

Quel che è certo è che le speranze di pace per il Medioriente, all’apice un anno fa dopo l’elezione di Barack Obama, sono sprofondate. Nell’opinione pubblica palestinese, l’atteggiamento della nuova amministrazione americana nei confronti di Israele non è cambiato rispetto all’era Bush. La questione del congelamento delle colonie illegali in West Bank, che Obama aveva posto come precondizione per la ripresa del negoziato, è naufragata miseramente. Netanyahu ha chiamato il bluff americano e ha vinto la partita. L’ultima doccia fredda per i palestinesi è stato infatti l’accordo tra Clinton e Netanyahu per un cosiddetto “blocco temporaneo delle colonie,” ostentato come un grande successo dagli Stati Uniti, ma visto dai palestinesi come la definitiva capitolazione americana. Non è del tutto implausibile che la moneta di scambio sia stato l’addolcimento della posizione israeliana sull’Iran, che Netanyahu avrebbe offerto in cambio della mano libera sugli insediamenti nei Territori.

Dopo la notizia dell’abbandono di Abbas, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha dichiarato che “i palestinesi dovranno abbandonare l’idea di uno stato indipendente,” e che Abbas dovrebbe “dire la verità al suo popolo, cioè che con l’espansione degli insediamenti la soluzione dei due-stati non è più un’opzione possibile.” Secondo Erekat, “non rimane che focalizzare la propria attenzione sulla soluzione dello stato singolo, dove musulmani, cristiani ed ebrei possono vivere con gli stessi diritti.”