Italia, stop alle violenze in carcere

di Benedetta Guerriero
da www.peacereporter.net

Un garante nazionale dei detenuti per vigilare sull’operato degli agenti penitenziari
Dopo la morte di Stefano Cucchi, brutalmente picchiato dalla polizia penitenziaria, si torna a parlare della violenza nelle carceri. Le immagini del corpo martoriato del giovane hanno scosso l’opinione pubblica, riportando l’attenzione su un problema del quale si è scritto e discusso tanto, senza, però, mai arrivare a una soluzione.
Arrestato, perché in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti, Stefano è entrato in carcere in buone condizioni di salute, per non uscirne più.

La sua morte si somma a quella di tante altre “misteriose” scomparse avvenute nei penitenziari nell’indifferenza e nell’omertà delle guardie carcerarie. In queste ore un’altra inchiesta è stata aperta per la notizia di un’altra morte in carcere, quella di Giuseppe Saladino, morto a 32 anni dopo la prima notte che passava in cella, per aver infranto gli arresti domiciliari. Peacereporter ha sentito sulla questione Susanna Marietti, responsabile dell’associazione Antigone, da anni impegnata nella difesa dei diritti dei carcerati.

Il caso di Stefano Cucchi ha riaperto il dibattito sulla violenza nei penitenziari. Pensa che anche questa volta, nel giro di pochi giorni, tutto tornerà a tacere?
Spesso è capitato che qualche settimana dopo il verificarsi di simili barbarie, la gente se ne dimenticasse, ma questa volta potrebbe non essere così. La determinazione della famiglia Cucchi potrebbe effettivamente riuscire a bucare il muro di silenzio che si crea intorno a questi episodi.

Da molti anni Antigone denuncia il ricorso alla violenza nelle carceri. In che modo si potrebbe cambiare questa situazione?
C’è molto da fare. Per prima cosa bisognerebbe evitare la creazione di una condizione di impunità in cui lo Stato e la polizia si rifugiano per coprire se stessi.

Che cosa intende per condizione di impunità?
Affermazioni come quelle del ministro La Russa che, senza sapere nulla, si è definito certo “del comportamento assolutamente corretto dei carabinieri” non aiutano a scoprire la verità.

Da un punto di vista giudiziario come si potrebbe agire?
Per prima cosa bisognerebbe velocizzare le pratiche dei procedimenti penali che, altrimenti, si insabbiano e cadono nel dimenticatoio. Stefano Cucchi purtroppo non è il primo a morire in carcere. Sorte analoga è toccata a Marcello Lonzi, morto in prigione nel luglio 2003. Il suo caso venne addirittura archiviato, ma nel 2006, grazie alla determinazione della madre, l’inchiesta è stata riaperta. Nell’ottobre 2007 è stata, invece, la volta di Aldo Bianzino. Arrestato perché scoperto a coltivare qualche pianta di marijuana, Aldo non è mai uscito dal carcere di Perugia.

Che cosa rende così difficile indagare su queste morti?
In realtà sono processi molto semplici. Le carceri sono strutture chiuse, non è difficile scoprire i colpevoli. Il problema è che non si vuole trovarli. Per la morte del giovane Federico Aldovrandi, gli agenti ritenuti responsabili del fatto sono stati condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per omicidio colposo. Una pena irrisoria. Questa impunità è un segnale preciso per le forze dell’ordine che si sentono libere di agire. Sono certi che nulla verrà loro fatto.

L’introduzione di una figura come quella del garante nazionale dei detenuti potrebbe servire a far diminuire gli episodi di violenza in carcere?
Abbiamo proposto la figura del garante nazionale dei detenuti per la prima volta a Padova nel 1998, ma da allora tutto è ancora fermo. Ci sono garanti a livello comunale, provinciale e regionale e funzionano molto bene.

Che compiti svolge il garante?
E’ una figura indipendente che media tra l’istituzione carceraria e il detenuto. Ha inoltre una funzione preventiva perché, trattandosi di una persona terza, chi lavora in carcere sa di essere controllato. Fino a quando il garante non verrà riconosciuto a livello nazionale i suoi poteri rimarranno però limitati. Ora spetta alle singole strutture carcerarie decidere se aprire le porte ai garanti, ma, qualora venisse approvata la legge a livello nazionale, i penitenziari sarebbero costretti a far intervenire questo personaggio.