Le bugie sulla ripresa

di Ilvio Pannullo
da www.altrenotizie.org

C’è una grande confusione in Italia sullo stato in cui versa l’economia. Nonostante la discutibilissima politica dell’ottimismo voluta ed imposta dal Presidente del Consiglio, la stessa maggioranza appare infatti divisa circa la valutazione dei problemi che affliggono il sistema produttivo italiano. Dopo la contro-finanziaria depositata presso il Senato della Repubblica dall’onorevole Baldassarri, a confermare lo stato di agitazione in cui versa la maggioranza è arrivato lo stop imposto al governo. L’esecutivo è stato infatti battuto due volte nell’Aula della Camera su due emendamenti, uno del Pd e uno dell’Idv. Con uno scarto prima di quattro e poi di soli tre voti (263 voti a 259 e 262 voti a 259) sono state approvate due proposte di modifica sulle quali il governo aveva espresso parere contrario.

Sarà certamente un caso, ma i due emendamenti mirano nella sostanza a sgomberare il campo da eventuali possibili fraintendimenti circa l’interpretazione da dare agli indicatori normalmente utilizzati nell’analisi della contabilità dello Stato. Questo a pochi giorni di distanza dal trionfale annuncio, fatto in conferenza stampa dal Presidente del Consiglio e rilanciato immediatamente dal ministro dell’economia, dei dati provenienti dall’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che apparentemente sembrano descrivere uno scenario in cui l’Italia è, per la prima volta, prima in Europa.

Il primo articolo sul quale l’opposizione ha battuto la maggioranza è l’art.21, che disciplina il bilancio di previsione. Con l’emendamento dell’Idv, a prima firma Renato Cambursano, viene introdotto un raccordo tra i programmi di bilancio e la nomenclatura Cofog (Classification Of Function of Government, una classificazione definita a livello internazionale dalle principali istituzioni che si occupano di contabilità nazionale: Ocse, Fmi ed Eurostat, ndr).

Con l’altro emendamento, a firma Linda Lanzillotta e fatto proprio dal Pd, si punta ad evidenziare il collegamento tra gli indicatori e i parametri che devono essere indicati negli stati di previsione e il sistema di indicatori ed obiettivi previsto dalla legge sulla trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione. Ora, visto il ristrettissimo margine con il quale i due emendamenti sono stati approvati, questo segnale potrebbe essere considerato come la prova, da parte di una minoranza all’interno del popolo della libertà, della volontà di una maggiore serietà nell’analisi dello stato dell’economia del paese.

Appena pochi giorni fa, il 7 ottobre, il Cavaliere si era infatti affrettato a comunicare che l’ economia italiana, secondo quanto si evince dal superindice dell’Ocse, appare in testa al gruppo dei 30 Paesi più industrializzati per la performance segnata nell’ ultimo anno. Rispetto al settembre del 2008 l’indice dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo che anticipa le fasi di crescita e rallentamento dell’ economia, mostra per l’ Italia, considerata in fase di “espansione”, un più 10,8%, contro l’ 8,4% della Francia, il 7% di Cina e Regno Unito, il 5,7% della Germania.

Dati che dipingono un’immagine apparentemente molto positiva dello stato dell’economia italiana a questo punto della crisi. Purtroppo per il paese, tuttavia, l’indicatore che si va tanto sbandierando in giro descrive semplicemente una particolare condizione dell’economia, un’attitudine, un possibile potenziale di crescita e non certo il concreto stato di avanzamento della stessa.

Addentrandosi nel meccanismo di formazione dell’indice si può comprendere, infatti, quanto questo in realtà non mostri altro che i punti di svolta del ciclo economico stimati con riferimento all’output gap. Un indice, cioè, che fa riferimento alla deviazione del livello dell’attività economica dal livello consistente con il pieno impiego. Rappresenta, dunque, il risultato di un rapporto e conseguenza di ciò è il fatto che l’indice finale può migliorare semplicemente perché è peggiorata la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo. E purtroppo per l’Italia la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010 è più ampia rispetto ad altri paesi.

Come infatti ha puntualmente fatto notare l’economista Francesco Giavazzi, “l’Ocse non rivela quanto del miglioramento registrato nel mese di settembre dipenda da una chiusura dell’output gap e quanto invece dipenda da un peggioramento delle previsioni sulla disoccupazione di medio periodo”. Se, esemplificando, si stima, ad esempio, che il tasso di disoccupazione di medio periodo dopo la crisi sarà più elevato di quanto non si stimasse prima, questo è sufficiente a far migliorare l’indicatore. Ciò significa che un suo miglioramento non è necessariamente una buona notizia. Paradossalmente, potrebbe indicare una cattiva notizia, cioè un aumento della stima degli effetti della crisi sulla disoccupazione nei prossimi anni.

Nonostante l’amara verità, il governo tuttavia non perde occasione per vendere agli ignari cittadini un po’ del suo fumo. Arrivano infatti immancabili le dichiarazioni di commento dei dati: «Ci sono forti segnali di ripresa un po’ ovunque. In Italia non possiamo lamentarci, non va malissimo», così il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ancor più soddisfatto il ministro dell’ Economia, Giulio Tremonti: “Sono tanti anni che stavamo dietro, sembrava che altri fossero pecore bianche e noi quella nera.

Invece il tempo è stato galantuomo, e ora dobbiamo insistere”. Sempre Berlusconi, forse incredulo per la possibilità di commentare dati positivi che non siano sondaggi commissionati dalle sue società, ha insistito sostenendo: “Ho continui contatti con il mondo delle imprese. Certo ci sono quelle in difficoltà, ma nella generalità dei casi c’ è ottimismo diffuso e una sensazione di ripresa”. E ancora: “Siamo i sesti contributori delle Nazioni Unite e l’ economia italiana ha recuperato la terza posizione in Europa, davanti alla Gran Bretagna” ha aggiunto non contento il premier, in evidente stato di estasi.

Lungi dall’essere catastrofisti, va tuttavia sottolineato come il dovere di ogni giornalista economico sia quello di commentare i dati e possibilmente contestualizzarli nella realtà politica e sociale del paese. Non è infatti pessimismo, ma realismo, osservare che l’entità di una ripresa non è indipendente dall’entità della caduta iniziale. Come ricorda, infatti, sempre Francesco Giavazzi nel suo ultimo articolo su La voce.info, “fra settembre 2008 e la primavera del 2009 l’indicatore era caduto di 32 punti in Italia e Germania, ma di soli 14 punti in Francia, 12 negli Stati Uniti, 10 in Gran Bretagna. Ciò significa che nella fase più acuta della crisi l’output gap, o almeno la stima calcolata dall’Ocse, si era allargato di oltre il doppio in Germania e in Italia rispetto agli altri tre paesi”. Non ci si deve dunque sorprendere se dopo una caduta tanto pronunciata, la ripresa sia ora più ampia.

Se a questo si unisce la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010, calcolato dall’Ocse e pubblicato nel giugno scorso nell’Economic Outlook no. 85, si comprende come l’indicatore possa migliorare semplicemente perché ad essere peggiorata è la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo dell’economia. In altre parole la spiegazione del miglioramento dell’indice è, almeno in parte, una chiusura dell’output gap non perché sia migliorata la stima del livello di produzione, ma perché si è ridotta la stima del livello potenziale. Appare dunque evidente quanto sia parziale e faziosa l’interpretazione data dal governo ai dati pubblicati dall’organizzazione internazionale.

Ancora una volta da un’analisi attenta dei dati e da una comprensione della logica seguita nel corso della loro elaborazione si evince quanto la politica del sorriso, del sole in tasca, abbia contaminato il rapporto tra governanti e governanti.
Se la semplice menzogna, infatti, in altri paesi è causa di sdegno e biasimo e può talvolta portare addirittura alle dimissioni dalle cariche pubbliche, in Italia questa è innalzata a livello di strumento di governo, mezzo attraverso il quale creare e mantenere il consenso, per la gioia di tutti coloro che sognano un governo seriamente impegnato nella gestione degli interessi pubblici.

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La farsa [mediatica] della ripresa economica

di Andrea Fumagalli
www.globalproject.info

Capita che i titoli dei giornali siano uguali, in particolare se le aperture riguardano notizie economiche. Di solito si tratta più di propaganda che di informazione. E’ questo il caso di sabato scorso, 7 novembre, quando sono stati pubblicati i dati Ocse relativi al superindice economico. Nell’esaltazione patriottica che ha pervaso la stampa nazionale, Repubblica, per esempio, ha sottolineato che «il nostro Paese dà i maggiori segnali di crescita su base annua [+10,8]», mentre già in sommario si dava spazio alle esilaranti dichiarazione di Berlusconi: «Il peggio è alle spalle. Abbiamo superato anche l’Inghilterra. Siamo i sesti contributori alle spese delle Nazioni unite, terzi per quelle dell’Europa».

A leggere Repubblica, si potrebbe dedurre che la crescita del Pil italiano nell’ultimo anno sia stata addirittura del 10,8 per cento. Un risultato incredibile, in tempi di crisi. Di conseguenza, sembrerebbe più che mai giustificata l’euforia del governo in carica [Tremonti: «Il tempo è galantuomo»]. Insomma, i nuovi dati Ocse confermano davvero il sorpasso della perfida Albione e la distanza dai cugini spagnoli?

In primo luogo, che tale sorpasso venga dimostrato sulla base dei contributi versati alle Nazioni unite dimostra che siamo veramente alla farsa. Più seriamente: anche prescindendo dal fatto che i contributi all’Onu sono spesso evasi, essi sono legati al Pil totale, mentre per fare confronti fra Paesi si deve usare il Pil pro capite. Capita così che la Spagna nel 2009 contribuisca solo per $80.7 milioni contro i $138.1 dell’Italia, nonostante la Spagna abbia superato l’Italia come reddito pro-capite già nel 2006 [ancora dati Ocse]: nel 2007 il Pil pro capite della Spagna era di $31,586 contro i $30,381 dell’Italia. Nel 2008 e 2009 il risultato finale darà una distanza ancor maggiore perché il Pil spagnolo è diminuito meno di quello italiano.

Ma nel III° trimestre 2009, si legge ancora sulla nostra libera stampa, l’Italia è quella che ha ottenuto la performance migliore. Siamo i primi in classifica. Ma in che genere di classifica? Di che cosa stiamo parlando? Iniziamo a precisare.
I dati pubblicati dall’Ocse non riguardano l’andamento del Pil [non esiste quindi una crescita del 10,8, come potrebbero essere indotti a pensare i lettori di Repubblica] ma si riferiscono a un indicatore composito che si chiama «superindice Ocse», il cui scopo è stimare non lo stato reale dell’economia ma il livello delle aspettative future. I dati sull’andamento del Pil sono inequivocabili: tra i paesi occidentali, solo il Giappone ha un calo tendenziale del Pil superiore all’Italia. Tutti gli altri Paesi, dalla Germania alla Spagna, presentano riduzioni del Pil inferiori.

La performance economica dell’Italia durante la crisi non sembrerebbe consentire dunque tutta questa euforia. In aiuto del governo, ecco giungere il superindice Ocse. Che cos’è?

I giornali non lo spiegano, i lettori non lo sanno. Il superindice Ocse è un riassunto di vari indicatori che forniscono informazioni qualitative sul futuro, con l’obiettivo di individuare punti di svolta nel ciclo economico [il passaggio da recessione a ripresa e viceversa] con sei mesi di anticipo rispetto a quanto segnalato dai livelli di attività economica come il Pil. Per questo il superindice si chiama Cli, Composite Leading Indicator. Serve cioè, sia chiaro, a cogliere la possibile fine di una tendenza, non a misurare l’intensità della eventuale ripresa nei vari paesi.

Inoltre, il metodo di calcolo non è unico per tutti i paesi. Di conseguenza, le comparazioni devono essere fatte con estrema cautela. Per l’Italia, il superindice contiene sei voci, tre relative alle aspettative future [la fiducia delle famiglie e le aspettative delle imprese manifatturiere sulla loro produzione futura e sul loro portafoglio ordini], due dall’Istat [i nuovi ordini al netto delle variazioni del livello dei prezzi e le ragioni di scambio – una misura della tassa petrolifera] e uno della Banca d’Italia sul tasso di interesse sul mercato interbancario a tre mesi. Alcune di queste variabili sono utilizzate per calcolare l’indice anche negli altri Paesi Ocse, ma altre sono diverse. L’indice della Francia e del Regno Unito, ad esempio, comprende anche il numero di registrazioni di nuove automobili e un indice del mercato azionario.

L’indice francese considera inoltre il numero dei posti di lavoro vacanti. Rispecchiando, rispettivamente, l’elevata proiezione estera per l’economia tedesca e l’importanza del turismo per l’economia spagnola, l’indice della Germania include il portafoglio ordini sull’estero, mentre quello della Spagna inserisce, tra gli altri, anche il numero di notti in hotel. Perché la Spagna includa le notti in hotel, Francia e Regno Unito includano le registrazioni di automobili e l’Italia no è un mistero che non è possibile risolvere in questa sede.

Che i due indicatori [il Pil e il superindice] mostrino andamenti differenti è del tutto normale quando ci si avvicina alla fine di una recessione. E che dopo una recessione durata più di un anno, ci si aspetti che il Pil non cali più, non è una sorpresa.

Ciò che effettivamente i dati ci dicono è invece che l’Italia si avvicina a motore spento alla fine del tunnel. Il superindice Ocse, infatti, nulla può dirci su quanto davvero la ripresa riuscirà a creare nuovi posti di lavoro. E se osserviamo l’andamento della disoccupazione, della cassa integrazione e dei tassi di precarietà, l’Italia è lungi dall’essere fuori dalla crisi, a dispetto di ciò che ci raccontano i giornali e spera il governo.