Accordo sul clima, quanto sarebbe costato?

di Gabriele Battaglia
da www.peacereporter.net

Accordo vincolante “politicamente” ma non “legalmente”, la montagna ha partorito il classico topolino. Di questo tenore sono i commenti all’indomani delle dichiarazioni congiunte Usa-Cina che svuotano il prossimo vertice di Copenhagen sul clima (7-18 dicembre) prima ancora che inizi.

Negli Usa, dopo la riforma sanitaria, il presidente Barack Obama non può permettersi un ulteriore “strappo” nei confronti delle lobby industriali, che vedono eventuali limiti alle emissioni come il fumo negli occhi. La Cina, dal canto suo, aspetta un gesto significativo statunitense prima di impegnarsi. La sua posizione è arcinota: la responsabilità del cambiamento climatico è soprattutto delle economie avanzate, sono loro che devono farsi carico per prime della riduzione di emissioni. Se è vero che è ormai in testa alla classifica degli inquinatori, Pechino rivendica il fatto che ogni cinese emette annualmente solo 4,6 tonnellate di Co2, mentre ogni statunitense ne emette ben 20. E così la partita è in stallo, con l’Europa osservatore impotente.

Ma in cosa consiste la presunta insostenibilità economica di un vero accordo che limiti le emissioni di Co2 da subito, da oggi, fine 2009? Posto che il meccanismo di mercato dei crediti carbonio per ora non sembra decollare, si tratta di investire nella riconversione del settore energetico globale. Il problema è che, di fronte alla crisi economica, gli investimenti – cioè i guadagni non immediati bensì futuri – sono percepiti come costi tout court e nessuno fa la prima mossa.

Parliamo di cifre. A ottobre, l’International Energy Agency (Iea) ha presentato a Londra il suo World Energy Outlook 2009 (Weo 2009), con un vero e proprio Climate Change Excerpt (Estratto sul cambiamento climatico). In esso, si propone il cosiddetto “Scenario 450”, un calendario di iniziative concrete per limitare nel lungo periodo la concentrazione di Co2 nell’atmosfera a 450 parti per milione e mantenere l’aumento della temperatura globale entro i fatidici 2 gradi rispetto all’era pre-industriale. Nel rapporto si parla di “traiettoria” perché si lavora sul concreto, sul fattibile, prevedendo appunto un aumento della domanda di combustibili fossili fino a un picco nel 2020, per poi scendere. Al contempo, “le emissioni di Co2 collegate all’energia devono scendere a 26,4 gigatonnellate nel 2030 rispetto alle 28,8 Gt del 2007”. Per ottenere questi risultati, si calcola che entro il 2030 ci vogliano 10,5 trilioni di dollari (10.500 miliardi) di investimenti, così suddivisi:

– 4,7 trilioni nel settore dei trasporti
– 2,5 trilioni nelle costruzioni
– 1,7 trilioni nel settore energetico
– 1,1 trilioni nell’industria
– 0,4 trilioni nella produzione di biocarburanti

Più dei tre quarti (8,1 trilioni) di questo enorme investimento è concentrato nel decennio 2020-2030, periodo in cui, secondo lo schema, si uscirà dall’economia fossile (dopo il picco del 2020) per convertirsi quasi totalmente alle nuove tecnologie. Circa il 48 percento degli investimenti dovrà essere destinato ai Paesi Ocse e dell’Unione Europea, il 30 percento alle “altre maggiori economie” (Cina, Russia, Brasile, Medio Oriente e Sud Africa) e il 18 percento a tutti gli altri Paesi. In questo scenario, le economie più avanzate dovranno contribuire all’adeguamento dei Paesi in via di sviluppo soprattutto attraverso il trasferimento di tecnologia. Il rapporto calcola che, così facendo, nel periodo 2010-2030 si otterrà un risparmio nella bolletta energetica di 8,6 trilioni di dollari, a livello globale, per trasporti, edilizia e industria. Forse conviene.