Torniamo in piazza

di Lea Melandri
da www.zeroviolenzadonne.it

Le ricorrenze sono sempre ambigue, una specie di Giano bifronte: vengono istituite per ricordare fatti ritenuti importanti per la collettività e, al medesimo tempo, come alibi per tornare a seppellirli nel privato lungo tutto il resto dell’anno. Così è anche per il 25 novembre, Giornata internazionale sulla violenza contro le donne, che accende per un giorno i riflettori sulla macabra rassegna di maltrattamenti, persecuzioni, omicidi in famiglia, stupri dentro e fuori casa, per lasciarli poi transitare quotidianamente sulla stampa in brevi notizie di cronaca, tra l’indifferenza crescente e l’assuefazione rassegnata.

Sono già passati alcuni anni da quando hanno cominciato a diffondersi dati allarmanti sulla quantità di donne che hanno subito violenza per mano di famigliari. Le reazioni non sono mancate, per le strade delle città sono ricomparse manifestazioni che non si vedevano da decenni. In tempi più recenti, dietro l’incalzare di vicende politiche marcatamente rivelatrici del rapporto tra sesso e potere, e nel moltiplicarsi di aggressioni a sfondo sessuale, sono tornate in uso parole come sessismo, patriarcato, femminismo, omofobia, lesbofobia, transfobia.

Di maschile e femminile, corpo e politica, si parla molto più che in passato, ma restando pur sempre nell’ordine rassicurante di un privato che diventa inaspettatamente pubblico, di un malcostume individuale a cui si contrappone l’ “onesto” vivere della maggioranza degli uomini.
Nessun dubbio, nessuna incrinatura sembra scuotere la corazza di neutralità dietro cui la cultura maschilista dominante nel nostro Paese continua a pensarsi non toccata in quanto tale.

E’ per questo che anche una data, un appuntamento annuale, come la manifestazione che si terrà a Roma il 28 novembre, accanto a una molteplicità di altre iniziative diffuse sul territorio nazionale, si può permettere di sfidare la ritualità, riempiendola di una parola pubblica inusuale e di presenze femminili non riducibili ai modelli televisivi. Le ragioni per “tornare in piazza” sono tante e diverse quanto sono oggi le prospettive da cui le donne, impegnate singolarmente e collettivamente in pratiche di contrasto al dominio maschile, guardano la realtà sociale.

Le molte facce della violenza, che sta avvicinando sempre più, nell’odio per il “diverso”, le donne e gli immigrati, emergono incontestabilmente dall’impegno di chi opera nei centri antiviolenza e nei consultori, di chi si occupa di prostituzione e di carceri, di chi interviene sulle questioni del lavoro, di chi, come i collettivi femministi e lesbici, nati da alcuni anni in molte città, mantiene un osservatorio e presidi permanenti sui processi per omicidi famigliari e sulle condizioni delle donne nei Centri di Identificazione e Espulsione.

Si tratta di pratiche e saperi che si muovono ancora separatamente, con la frammentarietà che deriva dal doversi collocare in un ambito specifico, ma aggravata anche dal fatto che i mezzi di informazione li ignorano, per non essere costretti a riconoscervi mancanze, rimozioni, responsabilità che appartengono alla loro stessa cultura. Manifestare insieme non basterà a comporre in un unico disegno la figura di un dominio che ha radici così lontane nel tempo e parentele invisibili nella vita psichica di vittime e oppressori. Ma è comunque l’occasione per conoscenze e accomunamenti imprevisti.

La spinta a una mobilitazione più compatta e più forte emotivamente è venuta, nel corso degli ultimi mesi, da vicende esterne alle associazioni del femminismo, passaggi importanti per comprendere a fondo la relazione tra i sessi, ma posti in modo tale da farla passare ancora una volta come strumento di uno scontro tra partiti e forze politiche avverse.

Il maschilismo di Stato, che ha avuto come protagonista il Presidente del Consiglio, disposto a scambiare sesso con cariche parlamentari, ha aperto uno squarcio di verità, difficilmente componibile, su quello che è stato storicamente il posto riservato alle donne dal potere maschile: la loro sessualità cancellata e tradotta in obbligo riproduttivo o in sessualità di servizio; la loro umanità privata di quel riconoscimento di intelligenza, individualità, volere e senso morale, che l’uomo ha riservato solo al suo sesso.

Molto più che il “ciarpame politico”, denunciato da Veronica Lario, a irrompere nelle più alte cariche istituzionali è stato il corpo mercificato delle donne, lo scambio sessuo-economico su cui si sono costruiti nei secoli sia rispettabili matrimoni sia postriboli. Di conseguenza, anche l’uso mediatico che viene fatto delle attrattive fisiche femminili ha preso una rilevanza nel dibattito pubblico che prima non aveva. La campagna contro Berlusconi e la protesta per il “velinismo” alimentato dalle sue televisioni hanno finito per confondersi e per assommare tutto lo sdegno possibile, in nome della dignità offesa delle donne.

Il quotidiano “La Repubblica” ha raccolto centomila firme, L’Unità ha richiamato in vita un movimento di donne dato da tempo per defunto o irrimediabilmente muto. Nessuno si è chiesto se quelle esplosioni di machismo in alto loco non fossero il frutto avvelenato di un male che si è lasciato crescere a dismisura, di rapporti tra uomini e donne che andavano mutando, all’interno della famiglia come nella vita pubblica, senza che da parte della cultura maschile venisse il più piccolo segnale che quel rivolgimento riguardava in primis la storia degli uomini, l’enorme distanza che ha preso dall’altro sesso, pur continuando a goderne i benefici.

Si può ragionevolmente decidere che si manifesta per chiedere le dimissioni di un capo del governo che dispone delle donne come di una struttura di servizio, che premia le doti estetiche e il piacere sessuale con cariche politiche. Ma chi assicura che, spostando su un’unica persona, pur di grande rilievo istituzionale, l’eredità più violenta del patriarcato, non sia il modo più insidioso, perché fuorviante, per mettere ancora più pesantemente sotto silenzio la misoginia e il razzismo che costellano ogni gesto della relazione quotidiana tra i sessi?

Ammesso che ci siano davvero nel nostro Paese tante coscienze femminili indignate per lo sfruttamento e lo stato di minorità giuridica e politica in cui sono tenute le donne -madri e prostitute, secondo la più antica concezione della “natura femminile”-, il modo più efficace per manifestarlo è portare lo sguardo nei contesti sociali, professionali, culturali, dentro i quali ci si trova a operare; cominciare da lì a ricostruire il filo continuo dei pregiudizi, delle fantasie, delle paure, delle pulsioni autoritarie e violente, che lega famiglia e società, rapporti d’amore e di lavoro, comportamenti privati e pubblici.

Se non si sono imposti nuovi modelli di femminilità e maschilità, nonostante la maggiore libertà delle donne di disporre del loro corpo e, in generale, della loro vita, forse è perché c’è una cultura maschile che, a fronte della barbarie di alcuni uomini, usa il perbenismo per mantenere inalterata la neutralità, come ultimo baluardo del suo potere.

La novità importante della Giornata sulla violenza contro le donne è quest’anno la manifestazione indetta dalla associazione Maschile/Plurale e dalla rete nazionale dei gruppi “impegnati non solo contro la violenza ma per la costruzione di una critica dei modelli dominanti di ‘virilità”, “per un’altra civiltà delle relazioni tra persone, libera dalla paura e dal dominio”. Nel comunicato stampa si sottolinea che non si tratta di “un mero gesto di solidarietà”, ma che al centro c’è “una questione maschile”, che ha bisogno “di una parola e di una pratica maschile pubblica”.

Una breccia dunque si è aperta nel muro della “virilità” perbene e permale che ha dominato
finora in Italia, ed è importante perciò che, pur non ignorando il pericolo rappresentato dalle scelte populiste e razziste dell’attuale governo, si manifesti per un cambiamento radicale della cultura entro la quale si colloca sia la violenza contro le donne che la fragilità di ogni forma di democrazia fondata sul protagonismo di un sesso solo.