Se la Palestina e’ negata da un muro. Storia di un esproprio

di Luisa Morgantini, già Vice Presidente del Parlamento Europeo
da Liberazione, 28 novembre 2009

Lo scorso 9 novembre tutti abbiamo festeggiato i venti anni della caduta del muro di Berlino. Commozione e indignazione per quel simbolo di violenza fatto di cemento su cui donne e uomini e artisti da tutto il mondo hanno impresso le loro immagini colorate di libertà. Nessuno o quasi ha però ricordato che un muro alto nove metri divide la Palestina. Un muro dell’apartheid e della violazione del diritto internazionale che Israele malgrado appelli, risoluzioni di parlamenti e assemblee delle Nazioni Unite continua a rivendicare. E davvero quasi nessun media ha mostrato le immagini di giovani palestinesi, israeliani e internazionali che a rischio della loro vita, nello stesso giorno in cui si commemorava la caduta del muro di Berlino, hanno aperto un varco nel muro a Khalandia e a Ni’lin. Un piccolo spazio di libertà

La costruzione di quella che i vari governi israeliani hanno defininito “Barriera difensiva” ha una lunga storia collegabile alla forma unica del colonialismo israeliano: risolvere la questione della presenza dei “nativi” per non mettere in discussione l’ebraicità dello Stato di Israele. Nel 1948 questo è stato ottenuto con l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi divenuti profughi e con la successiva distruzione di più di 400 villaggi. Nel 1967, guerra preventiva e di conquista territoriale, la stessa operazione non è riuscita, vi sono stati nuovi profughi (trecentomila) e molti che si trovavano all’estero per ragioni di studio o di lavoro non hanno potuto rientrare, ma la popolazione non è fuggita rimanendo attaccata alla terra di origine.

È nel 1994 che Ytzahak Rabin dà il via alla costruzione di un muro intorno alla striscia di Gaza, prima verso il confine con l’Egitto e poi tutto intorno alla striscia. Contemporaneamente inizia il controllo sui movimenti della popolazione palestinesi dei territori, impedendo l’ingresso a Gerusalemme agli abitanti della Cisgiordania e Gaza, istituendo centinaia e centinaia di posti di blocco tra le aree A. B e C definite dagli accordi di Oslo e si costruendo chilometri di strade all’interno dei territori occupati espropriando (ovviamente senza compenso) terre di proprietà palestinese per espandere e collegare le nuove colonie.

Sempre Rabin nel 1995 affida al ministro per la Pubblica sicurezza Moshe Shachal l’incarico per valutare la separazione di Israele dai territori palestinesi con una barriera simile a quella di Gaza. Il progetto rimane accantonato fino alla fine del 2000 quando il ministro, laburista, Ehud Barack, decide dopo la provocazione di Sharon sulla spianata della Moschea di Al Aqsa e lo scoppio della seconda Intifada di costruire una barriera nell’area di Latroun per controllare il passaggio dei veicoli palestinesi. Con il governo Sharon a partire dal Giugno 2001 si passa ai piani concreti di costruzione della “Barriera difensiva”, in realta di un Muro di annessione territoriale di intere aree palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.

La giustificazione addotta nelle prime fasi di costruzione del muro è stata quella della sicurezza, una barriera di separazione sarebbe stata in grado di impedire gli attacchi suicidi di estremisti palestinesi contro la popolazione civile israeliana. Sacrosanto dovere di ogni paese, e per questa ragione il progetto ha avuto l’appoggio con una campagna mediatica internazionale dei tre maggiori scrittori israeliani noti come appartenenti al campo della pace, David Grossman, Amos Oz e AbrahamYehoshua oltre che di molti politici del campo “illuminato”, i quali aggiungevano alle ragioni della sicurezza il fatto che con la separazione sarebbe stato più semplice arrivare ad uno Stato Palestinese perché il muro ne avrebbe definito i confini.

E in effetti il percorso del muro in successive dichiarazioni di diversi ministri Israeliani ne può definire i confini. Il problema è quali confini? Non certo quelli riconosciuti dalla legalità internazionale: i territori occupati nel ’67 che comprendono Gerusalemme Est. Il tracciato del muro, invece, entra nel territorio palestinese annettendo terre coltivate, distruggendo migliaia e migliaia di alberi di olivo centenari, alberi da frutta. Solo il 20 per cento del muro si snoda lungo i confini del ’67, il resto penetra anche fino a 28 kilometri nel territorio occupato inglobando ed annettendo ad Israele, oltre i terreni coltivati intere colonie di popolazione ebraica, sopratutto quelle costruite ai confini con Israele e che dividono in tre tronconi e in tanti Bantustan i territori palestinesi.

Il Muro o Barriera prende forme diverse: di cemento grigio alto tra i 6 e i 9 metri intorno a villaggi e città come Qalqilya o Betlemme, mentre nelle aree rurali, diventa una barriera larga ottanta metri di filo spinato, trincea, pista di pattugliamento in terra battuta, barriera metallica alta tre metri, striscia di sabbia.

Nel villaggio di Abu Dis, o Al Rahm, verso Kalandia, il muro divide la strada principale e separa la popolazione palestinese, da una parte, quella annessa ad Israele con carta d’identità israeliana, dall’altra palestinese. Ad esempio, nella famiglia Boullata padre e madre vivono dall’altra parte della strada e i figli nella casa di fronte dall’altro lato, Anthony invece ha la casa da una parte e il negozio dall’altra, deve rinunciare o alla casa o al negozio, e cosi centinaia di famiglie, perche il muro separa palestinesi da palestinesi, e, come ad Anata taglia il villaggio in due.

Oltre 128mila palestinesi saranno presto circondati dal muro su tre lati e controllati sul quarto da infrastrutture militari israeliane, mentre 69 insediamenti con più di 180mila coloni, il 76 per cento della Cisgiordania, oltre a più di duecentomila nell’area di Gerusalemme Est saranno annessi ad Israele, inoltre 60mila palestinesi residenti in 42 villaggi rimarranno chiusi tra il muro e la linea di confine. La Commissione Economica del Parlamento Israeliano ha stimato il costo totale dell’opera in 3.5 miliardi di dollari, equivalenti a oltre 4 milioni di euro al chilometro, ogni chilometro, nell’area rurale – secondo il ministero della Difesa israeliano richiede mediamente 45mila metri cubi di scavo, 5mila mq. di asfalto, mille travi di cemento, 300 pali, 2.500 metri quadrati di rete metallica e 12 chilometri di filo spinato.

Era il 9 luglio del 2004 quando la Corte internazionale di giustizia dell’Aja proclamava che “La costruzione del muro nel Territorio Occupato Palestinese, incluso quello dentro e attorno a Gerusalemme Est … è contraria al diritto internazionale. Per questo Israele è tenuta a smantellarne la struttura e a provvedere al risarcimento di tutti i danni arrecati”. La sentenza faceva seguito a varie risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite mai prese in considerazione dai differenti governi israeliani semplicemente perché ritenute non vincolanti e non rilevanti.

A dispetto delle varie dichiarazioni, dalla conferenza di Annapolis a quelle più attuali, che vedono nel congelamento delle colonie una delle premesse ineludibili per ogni accordo di pace tra Israele e Palestina, le colonie continuano a crescere in Cisgiordania: per Peace Now sarebbero oltre cento gli insediamenti illegali nella Cisgiordania, circa 15mila gli israeliani che si sono trasferiti negli insediamenti della Cisgiordania dall’inizio del 2008 per un totale di oltre 250mila coloni che vivono oggi nei territori occupati ed altrettanti o di più, a Gerusalemme Est, che Israele considera parte della propria Capitale unica e indivisibile e dove sta accelerando una politica di pulizia etnica, espellendo dai quartieri palestinesi di Sheikh Jarrah, Silwan, Bustan.

Dal 1967 ad oggi sono stati costruiti 17 insediamenti che occupano circa il 35 pere cento del territorio di Gerusalemme Est, nei quali vivono più 200mila coloni (Ocha – Office for Coordination of Humanitarian Affairs), e tra il 1967 e il 2006 sono state demolite p
iù di 8500 case palestinesi.

Da qualche anno, si va sviluppando nei Territori la consapevolezza e la pratica di azioni continue e non violente per opporsi alla costruzione del muro. A Bil’in dove il muro ha eroso circa il 60 per cento delle terre coltivabili ai 1600 abitanti del villaggio, sin dal 2005 i residenti manifestano ogni venerdì insieme a pacifisti israeliani ed internazionali per impedire l’avanzata di una colonia e la possibilità di coltivare la loro terra.

La loro resistenza è diventata esempio per molti villaggi come Ni’lin, Massara, At Tuwani e altri nella Valle del Giordano, e continua a crescere. Anche a livello internazionale si e’ costituita una rete di sostegno alla lotta non violenta palestinese.

A cinque anni dalla sentenza dell’Aja, e a venti anni dalla caduta del muro di Berlino è tempo che la Comunità Internazionale prenda misure concrete, iniziando dall’embargo delle armi al disinvestimento di ogni azienda che collabori con l’occupazione militare israeliana nelle colonie. Tel Aviv non può essere sempre considerata al di sopra della legalità internazionale in nome della sua sicurezza. Il blocco della costruzione delle colonie è in tal senso l’unica strada per la sicurezza dello Stato di Israele e per la libertà, la giustizia, l’indipendenza palestinese.