La Chiesa il potere e il Grande Inquisitore

di Eugenio Scalfari
da www.repubblica.it

LA CASA di riposo dei gesuiti a Gallarate è un grande edificio rettangolare che sorge al centro di un parco di querce e quercioli, una donazione fatta una settantina d’ anni fa dalla famiglia Bassetti. Allora fu destinata a scuola per preparare i giovani sacerdoti della Compagnia ai loro compiti d’ insegnamento e di missione. Poi, col passar del tempo, ad accogliere gli anziani e gli ammalati che l’ Ordine assiste perché possano invecchiare con serena dignità. Sulla destra del parco c’ è una bella chiesa intitolata a San Luigi Gonzaga. Qui abita, dopo il suo rientro da Gerusalemme, il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, una delle personalità più spiccate della Chiesa. Eterodosso? Forse lo si può definire anche con quella parola ma in realtà il suo pensiero è più complesso e nient’ affatto eterodosso. Interpreta uno dei grandi filoni che hanno alimentato il Cristianesimo e la cattolicità da San Paolo in poi; la Chiesa spirituale, accantoa quella temporalee alle istituzioni che la governano. Martini, in quanto arcivescovoe cardinale, ha appartenuto a quelle istituzioni; la diocesi milanese è la più vasta di tutto il mondo cattolico. SEGUE n quanto cardinale ha partecipato a tre o quattro conclavi, dal penultimo dei quali avrebbe anche potuto uscire papa dopo il pontificato di Paolo VI. Non avvenne. La Curia lo sentiva come corpo estraneoe comunque lontano da lei. Quantoa lui, la sua testimonianza pastorale lo portava a preferire lo studio e l’ organizzazione del Bene. Bisogna educare al Bene, questo è uno dei suoi punti fissi e non ha fatto altro per tutta la vita. Ci incontriamo in questa casa per la seconda volta. La prima fu un anno fa. La stanza è la stessa, disadorna, occupata quasi interamente da un tavolo con quattro sedie. Ci sediamo uno di fronte all’ altro dopo esserci strette le mani con molto e sincero affetto. Lo trovo fisicamente meglio di un anno fa e glielo dico. Lui risponde che riesce a mandare avanti le sue iniziative, i suoi incontri con i preti della sua ex diocesi, la sua ricerca sui testi, la rete dei suoi contatti pastorali. Tra le mani ha dei fogli dattiloscritti. Mi dice: «Questo è un suo articolo di qualche mese fa. Parla anche di mee le ultime righe mi sono particolarmente care». Me le legge: «Il cardinale Martini è stato confortato nella sua vita dalla predicazione di Gesù Cristo, il Dio incarnato nel quale ha riposto la sua fede e la sua speranza. Io, non credente, ho avuto tra i miei punti di riferimento la predicazione di Gesù di Nazareth, uomo tra gli uomini, nato a Betlemme o non importa dove, e i suoi valori di fratellanza e solidarietà». Alza gli occhi dal foglio. «È un piccolo miracolo – gli dico – che si possano alimentare dalla stessa fonte persone così diverse come noi due». «Sì, è una consonanza che mi è molto cara, ma non è così difficile, accade spesso tra le persone di buona e retta volontà». «Vorrei chiederle – dico io – che cosa intende per persone di buona e retta volontà. Credo che questo sia il centro del problema che vogliamo approfondire in questo nostro incontro». Mi risponde con una domanda: «Lei sa qual è l’ istinto più forte che ogni creatura umana porta dentro di sé?». «Direi l’ istinto di sopravvivenza». «Lo penso anch’ ioe riguarda non solo la nostra specie ma tutte le specie viventi. La sopravvivenza, cioè la forza della vita. Negli uomini la sopravvivenza genera due fenomeni: quella dell’ individuo e la sopravvivenza del tuo prossimo». «Lei vuol dire della nostra specie» «sì, io la chiamo prossimo». «La sopravvivenza individuale genera sentimenti di egoismo ed è naturale che sia così, è fisiologico che sia così. La sopravvivenza del prossimo – come lei dice – richiede carità e fratellanza, riconoscimento di pari dignità e amore per l’ altro». «La penso esattamente così. Quando l’ egoismo diventa patologia e confisca soloa proprio vantaggio la felicità, allora non rimane più posto per l’ amore verso il prossimo. Lo si può predicare a parole ma non con i fatti e con sentimento sincero». «Lei, caro cardinale, ha dedicato la sua vita a questo scopo. Ha la sensazione che la sua azione abbia raggiunto qualche risultato?». «Posso dirle che attorno a me ho visto crescere i sentimenti e gli atti di fratellanza e di carità e di vero e proprio amore. Ma è la piccola area nella quale ho vissuto e operato. Se allargo lo sguardo sulla società che ci circonda, in Italia e fuori d’ Italia, vedo al contrario che quello che abbiamo chiamato egoismo patologico è diventato sempre più intenso e penetrante. La felicità propria e del proprio gruppo ha preso il sopravvento. L’ epoca in cui viviamo è ancora troppo crudele e ricopre la sua crudeltà con dosi crescenti di ipocrisia». «La Chiesa fa il suo dovere per combattere questi malanni?». «Mi sembra di sì. L’ Enciclica sulla carità è un documento di grande valore da questo punto di vista e tutta la Chiesa è impegnata in quella direzione». «Con le parole certamente. Anche con gli atti?». «Le nostre comunità, le nostre missioni, le parrocchie, gli Ordini religiosi, il volontariato; è una realtà in costante movimento in tutte le nazioni, in tutti i continenti. Io ormai me ne sto in quest’ angolo di mondo ma sentoe so che lo sforzo di tutta la Chiesa è intenso e continuo. Purtroppo non basta. L’ egoismo dilaga, l’ ipocrisia che divide il dire dal fare cresce. Capisco il senso della sua domanda. Lei mi vuol dire che accanto alla sua azione di carità la Chiesa persegue anche la tutela dei suoi interessi di potere». «Non è così?». «È sempre stato così. C’ è una ragione perché sia così. Anche nella Chiesa l’ istinto di sopravvivenza si biforca. L’ istituzione deve sopravvivere per poter operare in favore del prossimo». Qualcuno bussa con discrezione alla porta della stanza ed entra una collaboratrice del cardinale con in mano una scatolina di pillole. È l’ ora di prenderle. Poi restiamo di nuovo soli. Abbiamo trovato un punto molto sensibile della conversazione. Martini non è uno sprovveduto, è stato uno dei grandi dignitari della cattolicità. Ha suscitato amore ma anche ostilità. Una volta disse che la Chiesa dava troppo peso ai peccati previsti dalla catechesi e non ne dava abbastanza al peccato del mondo. E a chi gli domandò quale fosse il peccato del mondo rispose: l’ ingiustizia. Lo disse nelle sue Conversazioni notturne a Gerusalemme, un libro di due anni fa che suscitò molto scalpore. Ne parlammo nel nostro incontro dell’ anno scorso e adesso glielo ricordo. «È ancora di quell’ avviso, eminenza?». «Sì, penso così. Cristo disse così in molte occasioni nella sua predicazione. E così disse Paolo e gli altri padri della Chiesa. Noi dobbiamo stare molto attenti a tutto ciò che viola il principio dell’ eguaglianza, cioè della pari dignità tra tutti gli uomini. La pari dignità viene continuamente violata in tutto il mondo. Questi sono i giorni della memoria, si ricorda il massacro degli ebrei, degli zingari, dei diversi, nei campi di sterminio. La bestialità toccò allora il culmine. Ma l’ eguaglianza continua ad esser violata in dosi massicce. Può accadere che la Chiesa non denunci con forza sufficiente». «Con le parole la denuncia c’ è ed è forte». «Non c’ è dubbio. Lei mi ha chiesto se lo sia anche con gli atti. Lei sa che la Chiesa è anche diplomazia». «Lo so e lo capisco. Diplomazia, teologia, dottrina, liturgia. È tante cose insieme la Chiesa, ma lei, cardinal Martini?». «Io sono povera cosa. La mia povera cosa pensa che tutte le attività della Chiesa sono necessarie, ma che il fine di tutte dev’ essere quello di inverare nel mondo il Vangelo e la parola di Cristo. Ricorda? Gli ultimi saranno i primi, beati i poveri, beati i derelitti, beati i deboli…». «Eminenza, beati in un altro mondo». «Sicuramente lo saranno, ma il nostro compito è di affrettare i tempi, magari rompendoi timpani dei potenti che non ci ascoltano. La parola di Cristo è universale, non vale soltanto per i cristiani, ma per i cristiani è dovere ascoltarla e applicarla. Se non fanno tutto il loro possibile non debbono poter contare sull’ appoggio della Chiesa». «Lei, eminenza, è uno studioso della Bibbia; non soltanto dei Vangeli e di tutta la cristologia ma anche del Vecchio Testamento. Legge questa parte della Bibbia con lo stesso spirito con cui legge e medita sulla seconda parte?». «La prima parte contiene anch’ essa una rivelazione, una verità assoluta. Gran parte del Genesi, le tavole di Mosè, i colloqui di Abramo con Dio fanno parte della rivelazione. Ma nel complesso il Vecchio Testamento va inquadrato nella storia del popolo di Israele». «Le faccio una domanda più esplicita: il Dio di Israele è lo stesso Dio cristiano oppure è un altro Dio? La Trinità, per esempio, non esiste per Israele, Eloim nonè una divinità trinitaria». «È vero, ci sono differenze profonde. Il Dio della Bibbia è talvolta irato con il suo popolo, in certe circostanze è anche un Dio vendicativo, ma in molti altri passi del testo è un Dio misericordioso. Direi che è soprattutto il Dio della Legge. Non dimentichiamoci che attraverso quelle Sacre Scritture stava nascendo una religione monoteistica in un mondo che conosceva soltanto religioni politeistiche e idolatriche. Lo sforzo religioso e culturale per compiere questa costruzione dovette essere immenso. Su questa base non poteva non nascere anche l’ idea di un popolo eletto: Israele era il popolo dell’ unico Dio. Era perciò inevitabile che, ricevendo quest’ impulso verso la trascendenza, il popolo di Israele concepisse Dio arricchendolo di alcune caratteristiche storiche. Ho detto arricchendolo ma per noi cristiani dovrei dire forse impoverendolo. Insomma fu un tormentato processo storico e sacrificale al quale il popolo di Israele ha pagato prezzi altissimi e tuttora li paga. Noi cristiani dobbiamo inchinarci verso questi nostri fratelli maggiori che posero le premesse indispensabili alla nascita della nostra religione». Fa una pausa e si passa una pezzuola sulla fronte. Gli dico che ho terminato in questi giorni di scrivere un libro, un viaggio nella modernità. «Toccherà anche questi problemi?» mi chiede. «Sì, anche» rispondo. «C’ è un capitolo dedicato alle pagine sul “Grande Inquisitore” nei Fratelli Karamazov. La questione posta da Dostoevskij è proprio quella di cui stiamo parlando. Lei ricorda quelle pagine, eminenza?». «Le ho lette molte volte, sì le ricordo». «Il Grande Inquisitore è un vecchio novantenne ed è il capo dell’ Inquisizione spagnola. Sa che Cristoè apparsoa Siviglia e lo sta cercando. Infine crede d’ averlo trovato in un giovane povero con occhi che incantano e uno strano alone di luce sul volto. Il dialogo che si svolge tra loro è terribile». «In realtà è un monologo dell’ Inquisitore. Cristo non parla, ascolta. L’ Inquisitore rimprovera Cristo per aver dato agli uomini il libero arbitrio ed avergli promesso in dono il pane celeste. Ma gli uomini volevano invece il pane della terra e non sapevano che farsene del libero arbitrio». «A quel punto l’ Inquisitore dice a Cristo che la Chiesa si è messa d’ accordo con il diavolo, ha dato agli uomini il pane della terra purché essi rinunciassero al libero arbitrio. Questo è avvenuto e gli uomini sono felici. L’ Inquisitore conclude dicendo a Cristo che lo farà bruciare quel giorno stesso». «Ricorda come risponde Cristo?» «Lo guarda con sguardo soave, gli si avvicina, lo bacia e scompare. Una splendida pagina di letteratura, ma non soltanto. La Chiesa delle istituzioni somiglia a quella impersonata dall’ Inquisitore?». «Direi proprio di no. Allora forse, ma non più oggi». «Non più oggi, sono d’ accordo con lei eminenza. Ma forse non è ancora quella che il Cristo in cui lei ha riposto la sua fede e la sua vita vorrebbe». «Noi non siamo perfetti. Tutto ciò che è umano è imperfetto. Ma il cristiano che crede nella trascendenza deve tendere a superarsi ogni giorno della vita. Questo significa esser cristiani». «Capisco, ma lo fanno? Lo fate?». «Molti lo fanno, provano a farlo e la fede ci aiuta. Altri, che pure si dicono e credono d’ esser cristiani, non lo fanno». «La Chiesa tende anch’ essa a superarsi facendo coincidere i fatti con le parole?». «A volte ci riesce, a volte meno». «Pio XII ci riuscì? Questo è il rimprovero che gli è stato mosso dalle comunità ebraiche a Roma e anche a Gerusalemme». Martini raccomanda di esaminare attentamente le condizioni storiche dell’ epoca nella quale quei fatti accaddero, il rischio che avrebbero corso i cattolici tedeschi da una scomunica lanciata contro Hitler e anche l’ aiuto che la Chiesa di Pacelli dette agli ebrei per sottrarsi ai tedeschi a Roma e a Milano. Poi si lascia andare ad una frase: «A me comunque Pacelli non è simpatico come lo è stato invece papa Giovanni». Ma poiché una parola tira l’ altra, gli ripropongo in altro modo la questione del libero arbitrio: «Anche lei pensa, come Dostoevskij, che gli uomini abbiano deluso le aspettative che Cristo aveva posto su di loro e tengano in maggior conto il pane terreno piuttosto che la libertà? Pensa che la Chiesa assecondi questa tendenza?». «Lo escludo. La libertà è un dono inestimabile, il Cristianesimo non rinuncerà mai a quel principio. San Paolo nelle sue lettere alle comunità cristiane lo disse e lo ripeté continuamente: il Cristianesimo è stato costruito sul principio della libertà ed è quello uno dei due fondamenti della nostra religione: amore e libertà». «Anche la libertà di dissentire da voi?». «Certo, anche quella». «Senza pregiudizio sull’ amore?». «L’ amore per il prossimo e la libertà di operare per la salvezza dell’ anima propria e delle altrui, questi sono i fondamenti. Per questo Dio si è fatto carne attraverso il Figlio». Si era fatto tardi ed un sottile nevischio s’ incollava sul vetro della finestra. Domando al cardinale se ha tempo e voglia di rispondere ancora a una domanda. «Non sono stanco» mi dice. «Lei si prepara alla morte?» ci guardiamo in silenzio. Io sono di quattro anni più anziano di lui. Sorride ed è – così mi sembra – un sorriso d’ intesa. Poi risponde: «No, non mi preparo alla morte. Ho ancora molti interessi e anche obiettivi che vorrei realizzare. Alla morte ci si prepara quando ci si è allontanati da tutto il resto oppure quando bisogna prendere una decisione definitiva. Non è ancora il mio caso e non credo neanche che sia il suo che ha più interessi ancora di me. Però aggiungo: alla morte ci si prepara per tutta la vita». «Stavo appunto per farle questa obiezione, eminenza. Lei mi ha preceduto». «Sì, ci si prepara per tutta la vita con gli atti che compiamo. Con i pensieri solo quando la fine è vicina. A me capita di pensarci quando a volte, nel pomeriggio o di notte, mi manca un po’ il fiato. Ecco, penso, forse ci siamo. E resto in attesa e in affanno fisico. È la questione della sopravvivenza di cui abbiamo già parlato». «Eminenza, quando la nostra specie sarà scomparsa dalla terra, quando nessun essere penserà Dio, né Cristo, né Allah, perché i viventi non saranno più muniti della mente umana e dell’ Io che ne è il coronamento e l’ autocoscienza, allora Dio sarà morto anche lui? Io, non credente, penso questo. E lei?». «Io penso che continuerà ad esistere insieme alle anime che hanno creduto in lui, ma non so dirle di più. Non so dire in quali forme. Ma di questo sono certo. E lei?» «Io credo che l’ energia che si è raccolta in me, nel mio corpo, nella chimica del mio corpo, sia indistruttibile e ritorni agli elementi». Ci siamo alzati. Un giovane ha aperto il portone. Tirava un vento freddo e gocce di pioggia. Lui mi ha dato tutte e due le mani e mi ha detto: «Si conservi». «Anche lei, mi raccomando -ho detto io – ne abbiamo gran bisogno».