La dignità della morte

Riassunto di La dignità della morte (Hans Kung) a cura di Silvia Airaudo

Ancora una riflessione frettolosa sulla morte finchè si è in tempo, prima che giunga il suo inesorabile momento? Ancora una meditazione sulla malattia, sul morire, sulla morte, prima di diventare vecchi e probabilmente non più capaci di riflessione?

Non ci potrebbe essere un fraintendimento peggiore. La riflessione sulla morte non è mai parsa un problema da affrontare soltanto da vecchi; è, al contrario, una questione che sorge dal centro delle nostre vite, spesso così febbrili, spiritualmente faticose e piene di battaglie.

* Cosa significa “oggi”, “domani”, cosa significa “invecchiare”?
* Cosa significa sapere di essere mortali, sapere di dover morire?
* Si prova angoscia di fronte alla morte oppure soltanto al processo che ci porta alla morte, al morire?
* Che morte si desidererebbe se si potesse aver voce in capitolo? Si può contribuire a una simile decisione? E’ lecito? Si può decidere da sé? Sono tanti coloro che non possono decidere nulla, né della loro vita né della loro morte.

Una morte dignitosa è una possibilità immeritata, un grande regalo: il grande dono. Essa, tuttavia, rappresenta anche il grande compito dell’uomo.

Infatti, siamo convinti che per una morte dignitosa non siano necessarie solo determinate condizioni sociali, il morire dipende anche da come si è affrontata la domanda sulla morte nel corso della vita e a partire da essa. Proprio questo, infatti, ci differenzia dagli animali: noi sappiamo di essere mortali. Prima o poi si deve morire.

Che cosa significa dunque avere un rapporto dignitoso con la morte? Significa comprendere che morire non è semplicemente la fase terminale della vita, con cui si fanno i conti solo quando la morte compare imperiosamente alla porte. Piuttosto si deve intendere il morire come quella dimensione del vivere che concorre a determinare tutte le fasi e tutte le decisioni della vita.

Noi dobbiamo vivere nella serena consapevolezza di questo fatto: che di norma ci è concesso molto tempo per vivere, ma prima o poi dobbiamo ritirarci, dobbiamo andarcene. Siamo esseri finiti. Una certa spiritualità di dovrebbe permettere di conseguire non già una percezione della morte come minaccia inesorabile che incombe su tutta la vita o sulla sua parte finale, ma una diversa disposizione di fondo, magari del tutto serena, nel corso della vita, nei confronti della vita stessa. L’uomo che non rimuove la propria morte, ma la accoglie consapevolmente, vive in maniera diversa. Colui che non rimanda il rapporto con la propria morte alla sua “ultima ora”, ma si esercita con essa nel corso della sua esistenza, ha una diversa disposizione di fondo nei confronti della vita. Ancora oggi in molti ospedali si parla della morte solo di nascosto.

Non possiamo però ignorare che oggi ci sono sempre più uomini e donne che non sopportano più una vita ormai perduta, i cui indescrivibili dolori non scompaiono neppure con i più potenti sedativi, e questo sia che siano a casa, in un ospedale o in una casa di cura per malati terminali. Costoro non desiderano essere tranquillizzati o resi incoscienti mediante psicofarmaci o morfina, con il rischio di privarsi del dialogo con i propri cari. Essi desiderano piuttosto congedarsi e morire in piena coscienza. Ma, dal momento che non possono morire, domandano una morte dignitosa: chiedono d’essere aiutati a morire. E la discussione, spesso emotiva, di questi tempi riguarda proprio quali tipi di ausilii a morire siano umanamente degni e perciò moralmente leciti.

La parola “eutanasia” nel suo significato originario nell’antichità greca e latina vuol dire “buona morte”, cioè una morte buona, rapida, lieve e indolore. Fu Francesco Bacone, all’inizio del XVI secolo, il primo a riconoscere nell’eutanasia un compito proprio del medico: alleviare il dolore nell’imminenza della morte.

È fuori discussione la liceità etica dell’eutanasia nel senso di tentativo di rendere “buona” la morte senza per questo accorciare la vita: quella cioè n cui il medico si limita a somministrare sedativi per ridurre il dolore. Ed è in armonia con l’ideale di un morire degno dell’uomo il tentativo di ridurre il più possibile i dolori fisici e, nelle ultime fasi della vita, di sostenere la mente mediante psicofarmaci.

È infine, fuori discussione la liceità etica dell’eutanasia passiva dove la morte è effetto collaterale, cioè un’eutanasia indiretta conseguita mediante l’interruzione dei mezzi di sostentamento artificiale della vita. Che l’uomo non abbia l’obbligo di conservarsi in vita attraverso mezzi eccezionali è un classico assioma della teologia morale. Nessun paziente in ogni caso ha il dovere etico di sottoporsi a qualsiasi terapia e a qualsiasi operazione che prolunghi la sua vita. Sta al paziente, non al medico, decidere, dopo essersi adeguatamente informato, se farsi operare ancora una volta, morendo più tardi ma forse in maniera più dolorosa, oppure non farsi operare morendo forse prima ma in maniera meno dolorosa. È diritto dei pazienti decidere liberamente se sottoporsi o meno a determinate cure mediche. Nessun medico ha il dovere di prolungare a ogni costo la vita umana, andando così incontro ad una prolungata agonia. Non c’è bisogno che il medico prosegua all’infinito una determinata terapia: egli può lasciare che il paziente muoia di “morte naturale”, anche se, a causa dell’interruzione o della non attivazione delle cure mediche, essa dovesse avvenire prima del previsto. Si tratta in questo caso di un’eutanasia in cui il medico resta passivo e si lascia indirettamente che il paziente muoia: su tale eutanasia passiva non c’è più oggi alcun conflitto tra medici, giuristi e teologi.

E sull’eutanasia attiva?

Questo è il punto in cui la disputa raggiunge il suo apice: rientra nel concetto di una morte degna dell’uomo il fatto che l’uomo stesso possa determinare, per quanto gli è possibile, quando e come morire? L’uomo ha in generale, anche per la concezione cristiana, il diritto di disporre da sé dell’essere o del non essere della propria vita?

Se si pensa a casi di uomini che (vecchi o giovani che siano) si trovano alla fine della loro vita e vanno inesorabilmente incontro alla morte (per esempio per un tumore non operabile o per l’Aids all’ultimo stadio), è lecito a questi uomini, giunti a questo stadio della loro vita, decidere di essa? Esiste un diritto – anche cristianamente responsabile – all’autodeterminazione nel morire come nel vivere? Si può chiedere al medico anche un’eutanasia attiva? È lecito per il medico praticarla?

Un’eutanasia attiva? Perché no? Così dicono i suoi sostenitori. L’uomo ha questo diritto perché ha il potere di decidere autonomamente di se stesso e lo Stato liberale ha l’obbligo di ratificare legislativamente tale diritto. Se le chiese, quali minoranze culturali, la pensano diversamente, non per questo esse devono imporre la loro opinione anche a tutti gli altri uomini. Ogni uomo che lo desideri può, mediante una dichiarazione scritta delle sue volontà, limitare previdentemente il ricorso alle misure di una medicina esclusivamente tecnica utili solo a ritardare la morte.

Un’eutanasia attiva? Assolutamente no. Così dicono gli oppositori. Essi dicono che all’uomo non è moralmente lecito disporre liberamente della propria vita. I medici, poi, sottolineano che il loro compito (citano qui “il giuramento di Ippocrate”) è risanare ed attenuare il dolore e non quello di uccidere. E i giuristi aggiungono: proprio nell’interesse di una libertà della persona umana rettamente intesa lo stato di diritto non deve consentire l’uccisione su richiesta. E molti teologi, infine, apportano questo argomento, per loro decisivo: la vita dell’uomo si fonda su un “si” di Dio all’uomo; essa è creazione e dono di Dio e perciò resta per principio sottratta alla facoltà umana di disporne liberamente. È chiaro che tali argomenti, per molti aspetti, sono tutt’altro che di natura puramente “scientifica”, anche se espressi da medici e giuristi. Essi sono determinati da differenti visioni del mondo, e rivelano in maniera dichiarata o nascosta un’ispirazione teologica e filosofica.

Dunque si deve ammettere l’eutanasia attiva? Mentre alcuni la definiscono un “omicidio”, altri la pongono in relazione a categorie quali “pietà”, “compassione”, “grazia”, “aiuto amorevole”. Chi ha ragione? Cosa deve valere per un cristiano, che si è posto al seguito del Gesù misericordioso e in ogni caso non di un’etica fatta di semplici divieti e di pure sanzioni?

Aderire alla parola di Gesù richiede la scelta di una vita eticamente responsabile dall’inizio fino alla sua fine.

Naturalmente ogni uomo spera in una morte lieve, priva di tormenti, angosce e umiliazioni. Ma cosa fare quando le cose vanno diversamente?

Non sarebbe allora logico assumere che anche la fine della vita umana sia stata posta da Dio stesso, oggi più che mai, sotto la responsabilità dell’uomo? Dio, infatti, non vuole che gli attribuiamo una responsabilità che possiamo e dobbiamo portare noi stessi. Con la libertà Dio ha dato all’uomo anche il diritto alla totale autodeterminazione, che non significa affatto arbitrio, ma libertà di coscienza. l’autodeterminazione comporta sempre la responsabilità personale, e quest’ultima ha sempre, oltre alla componente individuale, anche una componente sociale (il rispetto per gli altri). Non sarebbe responsabilità, ma sconsideratezza e arbitrio, se un uomo, per un fallimento o per l’insuccesso della sua carriera, senza preoccuparsi minimamente della moglie o dei figli, domandasse l’eutanasia attiva. Ma sarebbe altrettanto arbitrario che un uomo che ha diligentemente lavorato per tutta la vita e ha operato per gli altri, cui alla fine fosse diagnosticato con certezza un tumore – o una lunga e completa demenza senile – chiedesse l’eutanasia, volendo congedarsi dalla sua famiglia in piena consapevolezza e con dignità?

È fuori questione: se qualcuno, colpito a questo modo dal “destino”, vuole conservare più a lungo possibile la sua vita, deve essere rispettato ed aiutato con ogni mezzo. Veramente nessun uomo deve essere costretto o anche solo spinto a morire un giorno o anche una sola ora prima di quanto egli voglia. Viceversa, però, nessun uomo deve essere costretto a continuare a vivere a ogni costo.

Gesù di Nazaret non ha mai considerato le malattie come mandate da Dio o come un destino da accogliersi con divina rassegnazione, ma si è identificato con il sofferente nella lotta contro la malattia e in molti casi vi ha posto rimedio. Nei primi secoli del cristianesimo le donne cristiane, piuttosto che essere costrette a prostituirsi nei bordelli, preferivano uccidersi con le proprie mani oppure farsi uccidere da qualcuno, sono espressamente lodate da padri della chiesa quali Giovanni Crisostomo, Eusebio e Girolamo.

Non si deve trascurare il fatto che la responsabilità dell’uomo ha raggiunto una dimensione nuova, sia in rapporto all’inizio della vita umana sia in rapporto alla sua fine. L’umanità si trova oggi in una situazione fondamentalmente nuova, per far fronte alla quale non è possibile derivare dalla Bibbia delle semplici ricette.

Proprio perché sono convinto che con la morte non sia finito tutto, non mi importa molto di un prolungamento infinito della mia vita biologica tanto più in condizioni umanamente non dignitose. Proprio perché sono convinto che mi attende un’altra vita, una vita nuova, mi vedo affidata da Dio come cristiano la libertà di contribuire a determinare tempo e modo della mia morte, per quanto mi è dato.

A una morte dignitosa corrisponde anche una responsabilità degna dell’uomo di fronte al morire, non per miscredenza o ribellione nei confronti di Dio, ma per incrollabile fiducia in un Dio che non è un sadico, ma è il Misericordioso, e la cui grazia dura in eterno.

Chi ha fiducia in Dio ha fiducia anche nel fatto che non tutto finisce con la morte. Nessuno sa cosa accadrà nel momento decisivo, se morirà in quiete e pace o nel panico e nell’angoscia, nel dolore e tra i gemiti. Per questo non sono sicuro di me stesso, ma posso essere certo solo del perdono e della grazia di Dio nella fede in Gesù Cristo. E proprio la speranza in questo Dio deve anche far sì che la mia morte sia diversa da come la vivrei se non avessi alcuna speranza.

Questo morire in Dio, nella consapevolezza della propria umiltà e della gratitudine verso di Lui, questo mi pare essere ciò che ci è lecito fiduciosamente sperare: una morte davvero degna dell’uomo.