E noi dove eravamo? Per ripartire da Rosarno

di Don Pino Demasi

Io credo che gli episodi di Rosarno siano la cartina di tornasole di come viene affrontato il fenomeno migratorio nel nostro Paese. Un fenomeno che in Italia è diventato “problema” ed in Calabria “emergenza”.

Per l’Italia un problema. E non può non essere così, dal momento sta prevalendo sempre più un orientamento politico e culturale che tende a leggere l’immigrazione come ambito generatore di insicurezza e di preoccupazione sociale, da trattare principalmente con interventi repressivi e di ordine pubblico.

Alcuni dati. Il fondo per le politiche per l’integrazione in Italia è di appena 5 milioni di euro, mentre, per esempio, in Germania è di 750 milioni. Nello stesso tempo il governo italiano per il triennio 2008-10 ha stanziato 535 milioni di euro per la gestione dei Centri di identificazione ed espulsione. Si tratta di 178 milioni l’anno, 36 volte di più di quanto si stanzia per l’integrazione. E allora mi domando: Come si può aspettare una società ben integrata, se non si investe in servizi sociali e sanitari pensati sulle esigenze dei migranti, in mediatori culturali, in sostegno alle associazioni, nella scuola e nell’insegnamento della lingua italiana?

Ma quello che nel resto del Paese è problema, in Calabria in generale e nella Piana di Gioia Tauro in particolare diventa emergenza. Perché qui lo Stato è totalmente assente. Qui già vivono gli “uomini senza”: senza lavoro, senza sanità, senza politiche sociali, senza tutela dei diritti,senza rappresentanti politici che possano dirsi tali,senza territorio, perché chi fa da padrone non è lo Stato ma la delinquenza organizzata,senza legalità perché è il mondo dell’illegalità diffusa.

A Rosarno e dintorni, purtroppo, non è consentito essere cittadini. E’ in questa realtà che da oltre dieci anni è nato e cresciuto sempre più il fenomeno dell’immigrazione stagionale. Un fenomeno che nessuno ha mai osato governare: né gli organi centrali né quelli periferici dello Stato A governare il fenomeno ci ha pensato la delinquenza organizzata, per la quale la presenza degli immigrati è diventata un’ulteriore occasione per consolidare il proprio ruolo sul territorio. E così la ndrangheta ha gestito i flussi migratori ed il mercato del lavoro nero, stabilendo che gli immigrati fossero sfruttati e sottopagati nelle campagne a raccogliere arance al servizio dei proprietari terrieri locali,costretti a vivere in condizioni inumane, peggio delle bestie, depravati della loro dignità.

“Lavoravamo in condizioni disumane. Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo I luoghi dove dormivamo ogni mattina alle 6.00 per rientrarci solo la sera alle 20.00 per 25 euro che non finivano nemmeno tutti nelle nostre tasche. A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Ritornavamo con le mani vuote e il corpo piegato dalla fatica. Eravamo, da molti anni, oggetto di discriminazione, sfruttamento e minacce di tutti i generi. Eravamo sfruttati di giorno e cacciati, di notte, dai figli dei nostri sfruttatori. Eravamo bastonati, minacciati, braccati come le bestie…prelevati, qualcuno è sparito per sempre.
Ci hanno sparato addosso, per gioco o per l’interesse di qualcuno. Abbiamo continuato a lavorare.
Con il tempo eravamo divenuti facili bersagli. Non ne potevamo più. Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani. Non potevamo più attendere un aiuto che non sarebbe mai arrivato perché siamo invisibili, non esistiamo per le autorità di questo paese” ( comunicato assemblea dei lavoratori di Rosarno a Roma)

Tutto questo – al di là di alcune denuncie, soprattutto del mondo ecclesiale, in primis il Vescovo, che forse, però sono state troppo deboli,o probabilmente volutamente inascoltate – è avvenuto tra il silenzio-assenso di tutti, anche della società civile e dello stesso mondo ecclesiale, che ci siamo preoccupati tantissimo di fare carità verso gli immigrati, ma non abbiamo saputo o potuto lavorare per rimuovere le cause di quella triste situazione.

E tutto questo nonostante che il grido degli immigrati si sia fatto sentire più volte. Basta ricordare soprattutto la notte di rivolta dello scorso anno, dopo le ritorsioni a colpi di pistola, la corale partecipazione alle indagini da parte degli immigrati con l’arresto del colpevole, episodi questi che, tra l’altro, sono una dimostrazione che gli Africani hanno un senso dello Stato superiore a quello degli abitanti del luogo.

Credo allora che la storia di Rosarno sia una storia di diritti infranti e di assenza totale delle Istituzioni che avrebbero dovuto tutelare e riaffermare diritti di base e di cittadinanza, ma anche di assenza della società civile che più degli immigrati continua a d avere paura e ad essere succube della ndrangheta. Non si spiegherebbe in altro modo il fatto che a Rosarno e dintorni nessuno ha mai brandito spranghe, impugnato armi, favorito l’intervento dello Stato contro la ndrangheta; cosa invece esercitata nei confronti degli immigrati.

Ma perché, mi direte, questo è successo proprio a Rosarno?

Rosarno, 15 mila abitanti , nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Il Comune per la seconda volta è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Recentemente il Commissariamento è stato prorogato di altri sei mesi. Cinquemila famiglie, ha da lungo tempo una economia incentrata sulla produzione agricola, in particolare agrumeti. La proprietà della terra, decisamente frantumata, è distribuita tra poco meno di duemila famiglie, ciascuna delle quali possiede in media un ettaro o poco più; insomma ad ognuna un “giardino”, come dicono a Rosarno. A partire dagli anni Novanta e fino al 2008, i contributi finanziari europei per l’agricoltura meridionale venivano concessi in proporzione alla quantità di agrumi prodotta; questo faceva sì che per ogni ettaro il proprietario percepisse una sorta di rendita fondiaria annua, garantita dalla burocrazia europea, nella misura di circa ottomila euro per ettaro. Per i tremila braccianti v’era la protezione previdenziale dell’Inps: bastava lavorare cinquantuno giorni, cinque in caso di calamità naturali, per aver poi diritto ad un assegno di disoccupazione per tutto l’anno.

In effetti, molti tra i braccianti rosarnesi preferiscono, oggi come allora, percepire l’indennità di disoccupazione e svolgere altri lavori; dal momento che, negli agrumeti, a raccogliere le arance, basta ed avanza la fatica penosa dei migranti stranieri, totalmente flessibile ed a costi irrisori.
Così, gli agrumi di Rosarno erano competitivi sul mercato delle derrate alimentari, data la stabilità del prezzo di vendita. Anzi di più: per oltre un decennio la produzione dei giardini è costantemente cresciuta; e la città ha vissuto un generale aumento del reddito monetario. In realtà questo miracolo economico in questa terra dall’ illegalità diffusa, si basava sulla frode e la pubblica menzogna.

La cosa funzionava così: le cooperative dei piccoli proprietari, raccoglievano le arance per poi smerciarle verso i grandi mercati ortofrutticoli e le industrie alimentari del Nord. Queste stesse associazioni, dirette da un personale proveniente equamente dal ceto politico di centrosinistra e di centrodestra, gestivano i contributi europei. Poiché questi ultimi erano proporzionali alle quantità di agrumi conferiti dai contadini alle cooperative, Rosarno produceva una sterminata quantità di arance, molte sugli alberi, ma molte di più sulla carta. Se il contadino portava un certo ammontare di agrumi, l’associazione, nella fattura, ne dichiarava tre, cinque, perfino dieci volte tanto. I proprietari degli agrumeti incassavano così dei contributi finanziari gonfiati, che, in misura assai modesta, stornavano ai contadini per assicurarsi, a buon mercato, la complicità collettiva; per quella dei disoccupati rosarnesi ci pensava l’Inps con i suoi elenchi falsi e senza fine, di braccianti agricoli per i quali non veniva versato quanto dovuto alla previdenza.

Attorno a questa truffa di massa, ne erano sbocciate poi svariate altre, sempre sui fondi europei; in particolare erano sorte numerose industrie che trasformavano le “arance di carta” in “succhi di carta”.

E’ chiaro che in questa situazione di illegalità i proprietari, legati o succubi della delinquenza organizzata, a cui sta a cuore il controllo del territorio e che quindi detta sempre le dinamiche del gioco, proprietari che avevano voglia di arricchirsi in fretta, non sono andati tanto per il sottile; essi hanno esercitato la loro egemonia sui braccianti agricoli rosarnesi attraverso la pratica del tutto discrezionale delle assunzioni, tanto di quelle vere quanto, e soprattutto, di quelle false.

Gli altri, i migranti, in maggioranza africani, erano nuda forza-lavoro, priva di mutua, contratto e protezione sindacale. Non solo lavorano al nero, come del resto accade frequentemente e più in generale nell’economia calabrese anche per i cittadini italiani; ma percepiscono un salario nero che è meno della metà di quello, pur sempre nero, corrisposto al bracciante indigeno.
Questo improbabile assetto economico ha retto bene per quasi un ventennio; ma, ecco che, pochi anni fa, si sono avvertiti i primi scricchiolii; sono partite le prime inchieste, qualche truffa particolarmente clamorosa è venuta alla luce; perfino l’Inps è sembrata uscire dal letargo per rivedere l’elenco dei braccianti registrati e sfoltirlo di quasi la metà. Poi, nel 2008, la decisione di Bruxelles: allarmati dalla scoperta delle truffe, i burocrati della comunità europea hanno bruscamente deciso di mutare il criterio d’erogazione dei contributi, legandolo agli ettari e non più alla produzione. Questo ha comportato che laddove, prima, il proprietario di un giardino riceveva ottomila euro ad ettaro, ora riesce ad ottenerne poco più di millequattrocento. E così a Rosarno, quest’anno, gran parte delle arance sono restate sugli alberi, il loro prezzo di vendita non copre neppure il costo di produzione. Laddove qualche anno fa occorrevano, per il lavoro di raccolta, oltre duemila migranti quest’anno ne bastavano meno di duecento.

E così l’area che si respira, ad un tratto cambia anche per gli immigrati. I rosarnesi, egemonizzati dai proprietari degli agrumeti, hanno cominciato ad avvertire la presenza dei migranti come eccedente ed inutile; prima erano braccia che lavoravano per loro, poi sono divenuti vagabondi stranieri da rinviare a casa loro; in fretta, talmente in fretta da lasciarli creditori, da non aver tempo per pagare loro quel lavoro al nero che alcuni avevano comunque compiuto.
Nella totale incapacità, o forse e meglio mancanza di volontà, di mediazione politica da parte delle Istituzioni ,è venuto così montando un disagio e una decisione: per gli immigrati di colore non c’era più posto a Rosarno.

Quanto accaduto a Rosarno ha posto allora in evidenza alcune questioni risapute ed insolute:

1.La situazione di sfruttamento e illegalità diffusa in ampie zone d’Italia ed in molti settori lavorativi, quello agricolo in particolare, che non riguarda solo i lavoratori immigrati, anche se loro sono l’anello più debole ed esposto a situazioni incompatibili con la permanenza dentro i confini dello Stato di Diritto.

2.La presenza radicata della criminalità organizzata e in contemporanea l’assenza dello Stato sia come presidio di ordine pubblico e sia soprattutto come presidio sociale, perché Rosarno segnala l’assenza preoccupante di istituzioni in grado di riaffermare diritti di base e di cittadinanza.

3. La “debolezza” dell’associazionismo cattolico e laico.

Coloro che appartengono al mondo delle libere associazioni, al volontariato cattolico, ai centri sociali sono stati certamente gli unici presenti “sul campo” a Rosarno a fianco degli immigrati sia in tutti questi anni sia nei giorni della rivolta. È stato un impegno eccezionale, raramente riscontrabile in altre parti del nostro Paese. C’è stato un limite, però, a questo impegno: il non essere riusciti a fare diventare la “carità”, progetto politico, in termine soprattutto di rimozione delle cause che a Rosarno hanno prodotto ingiustizia e negazione di diritti. In un certo qual modo, purtroppo, la rete di assistenza sociale attorno agli immigrati è diventata addirittura funzionale al meccanismo dello sfruttamento. I credenti in modo particolare – come scriveva don Tonino Bello all’indomani del primo sbarco della nave carica di 13.000 albanesi al porto di Bari nell’agosto del 1991(!!!) – “avremmo dovuto levare più forte la nostra condanna ed esprimere con maggiore vigore la nostra indignazione. Se no, che senso ha stordire le orecchie di Dio ripetendogli i versetti del salmo ottavo: “ che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché ti prendi cura di lui”?Sì, da questa vicenda usciamo tutti sconfitti….sconfitti e umiliati anche noi: perché costretti a sperimentare ancora una volta che la nostra civiltà la quale , nella sua sbornia di retorica, si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multi religiosa e multinonsochè, non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità”.

4. La perdita della “memoria collettiva” nelle popolazioni di Rosarno e della Piana e la paura dell’impegno per il cambiamento.

Nell’immaginazione nazionale la Piana di Gioia Tauro è solo terra di mafia. In realtà questo territorio può raccontare una storia sconosciuta, nobile e sotto certi aspetti anche eroica. Questa terra è stata terra di lotta contro lo sfruttamento e per la conquista dei diritti, dignità e salari: la lotta dei “cafoni” contri gli “agrari”, la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. Questa terra è anche terra di antimafia con i suoi morti: Ciccio Vinci, Peppe Valarioti, il medico Ioculano … ebbene questa terra di sfruttati e di umiliati, di quei “terroni”, tra cui mio padre, che a Piazza Statuto a Torino, si sono guadagnati con la lotta, la loro dignità, ha permesso che il piombo dei nuovi agrari, spalleggiati dalla ‘ndrangheta e nell’assenza delle istituzioni, versasse il sangue dei lavoratori.

Il dramma nel dramma: la Rosarno che tace, la Rosarno che dimentica, la Rosarno che non è più capace di ribellarsi, che ha paura non degli immigrati ma dei mafiosi. Ma schiavo non è chi si ribella. Schiava è la Rosarno che tace. Schiavi siamo noi. Non gli africani che hanno alzato la testa. A loro il nostro grazie per averci ricordato che una volta anche noi eravamo capaci di ribellarci. Anche noi eravamo capaci di essere uomini liberi e non schiavi. Gli africani salveranno Rosarno, scriveva nel 2009 Antonello Mangano. Perché “i migranti contro la mafia sono più coraggiosi di noi”, spiega da tempo Roberto Saviano.

Per agire qui e ora: il dopo Rosarno

Anche i recenti fatti di Rosarno, assieme a quelli di Reggio Calabria testimoniano certamente la complessità della situazione calabrese, in cui la ‘ndrangheta si rivela davvero protagonista e regista. Il capo dello Stato ha parlato di una “Regione difficile, una Regione per tanti aspetti sfortunata”. Ma, aggiunge il Capo dello Stato, la Calabria “è una regione che deve dare di più, che deve mobilitarsi di più, una società che deve esprimere le sue energie, la sua capacità di reazione e di risposta, più di quanto non abbia fatto finora . . . non deve più esserci nulla del genere di quel che è accaduto a Rosarno”.

Deve essere altresì chiaro, però, che nessun dramma sociale può farci dimenticare quello che il Sommo Pontefice chiama il “cuore del problema”. “Bisogna ripartire dal significato della persona. Un immigrato è un essere umano differente per provenienza, cultura e tradizioni ma è una persona da rispettare”. (Saluto dell’Angelus, 10.01.2010)

Questa persona è stata ed è calpestata ogni giorno, quando singoli ed istituzioni voltano la testa dall’altra parte, rispetto ad un bollettino giornaliero che ci parla di sfruttamento dell’immigrato, di soccombenza di fronte al racket e all’usura, di prevaricazione mafiosa. Rosarno deve diventare allora il simbolo di un rinnovato impegno educativo in campo politico e sociale,che aiuti a costruire una “città dell’uomo”, dove il lavoro,la casa non sono “merce”, ma beni comuni da promuovere e difendere per tutti.

E proprio per questo c’ è bisogno dell’impegno di tutti ora e qui. Chi non risponde all’appello si assumerà la responsabilità di aver contribuito a far perdere il treno a questo territorio. Un treno che, se, come sta accadendo in questi giorni, si fermeranno anche le gru del porto di Gioia Tauro, difficilmente ripasserà. Perché la Calabria non è persa, ma quasi.