Riforma sanitaria Usa: momento storico o la solita fregatura?

di Dada Pisconti
da www.peacereporter.net

Dicono che il 22 marzo 2010 sia una data storica per gli Stati Uniti: è passata alla Camera la riforma del sistema sanitario. Questa é la seconda data storica a cui ho la fortuna di assistere in prima persona da quando vivo qui in U.S., la prima era stata il 4 Novembre 2008: elezioni del 44esimo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. E se la prima volta ero un po’ in ansia, ma tutto sommato contenta e piena di speranze, questa seconda volta sono profondamente delusa e amareggiata.

I numeri e i fatti della riforma li conosciamo ormai bene, non staró qui a ripeterli. Come tutti quanti, anche io ho una mia opinione tecnica rispetto a ogni singolo punto della riforma. Ma il motivo della mia amarezza e delusione non è nei singoli dettagli tecnici, bensí nella constatazione che ancora una volta, negli Stati Uniti, quando si parla di sanità se ne parla in termini di business e si sentono espressioni come: regolamentare il mercato delle assicurazioni, creare una “health insurance exchange” (una specie di Borsa dedicata interamente alle assicurazioni salute), imporre alle assicurazioni di coprire ogni tipo di mercato… Mercato, di questo si parla, ancora una volta, e i diritti? Il diritto inviolabile di ogni essere umano a ricevere adeguate cure mediche è ancora una volta trasfigurato nel diritto del cittadino ad acquistare un prodotto piuttosto che un altro in maniera da garantire comunque il massimo profitto all’azienda fornitrice del servizio.

Gli ingenui chiedono: “Ma allora le categorie più indifese (poveri, persone sole e/o con disabilità, anziani), come faranno a tutelarsi in un sistema basato sul profitto e che sta già facendo migliaia di vittime?”. E i furbi prontamente rispondono: “Daremo sussidi a coloro che non potranno permettersi di pagare la polizza assicurativa e alle imprese che vorranno pagare le polizze dei propri dipendenti”. Ma io, che non sono né ingenua né furba, mi faccio due conti veloci e penso: “Ma bene, così continueremo a spendere miliardi di soldi pubblici non per la gente ma per coprire i costi esorbitanti (e appositamente gonfiati) delle polizze assicurative e dei servizi offerti a scopo di lucro”.

Ma dovevamo aspettare un’amministrazione Democratica, il Presidente “storico”, il Presidente del cambiamento e della speranza, per fare una riforma della sanità che non solo continua a parlare di mercato anziché di diritti, ma addirittura alimenta il sistema in maniera perversa perché introduce miliardi di dollari nelle tasche delle assicurazioni attraverso una serie di azioni tra cui: obbligo per ogni cittadino di comprare un’assicurazione (unica alternativa disponibile da quando l’opzione pubblica è stata eliminata dalla riforma); estensione dei programmi di Medicare e Medicaid in cui il Governo copre i costi dell’assistenza sanitaria ad anziani e poveri ma sempre attraverso le assicurazioni private. Inoltre, con più soldi in mano le assicurazioni saranno ancora più potenti e in grado di fare maggiori pressioni sul Congresso per impedire ulteriori riforme. E qui scatta un’altra domanda a cui non so dare risposta: come mai oggi i più delusi erano i Progressisti mentre dalle assicurazioni, che pure si erano battute ferocemente contro l’opzione pubblica, non si è sentita alcuna voce? Verrebbe da pensare che alle assicurazioni questa riforma piace, e questo è preoccupante.

I contenuti del piano sono stati ampiamente riportati dalla stampa e qui non entreremo nei particolari. Vediamo piuttosto cosa hanno da dire al riguardo due testimoni non “estremisti” ma neppure imparziali rispetto alla necessità di trasformare in senso pubblico il sistema sanitario degli States. Michael Moore parla di due passi avanti e un gigantesco passo indietro: la legge vieta alle assicurazioni private di negare le cure a persone che si ammalano gravemente e ai bambini affetti da patologie preesistenti, che è quanto accade oggi nel paese guida del mondo libero, e permette polizze familiari che tutelano anche i figli fino ai 26 anni. Ma al tempo stesso lascia la salute completamente nelle mani delle compagnie private, anzi allarga di 32 milioni la platea dei clienti, di chi cioè avrà non le cure ma l’accesso alle cure alla condizione che esse procurino profitti a queste compagnie (v. il video).

Non si poteva dire meglio: la salute come la polizza auto. Ha quindi ragione Robert Reich, ex ministro del lavoro nella prima amministrazione Clinton che pure si è schierato a favore della legge, quando scrive che qui non c’è nessuna oscillazione del pendolo verso il New Deal ma al contrario l’applicazione di una vecchia idea dei repubblicani (risale a Nixon) che permetterà alle assicurazioni sanitarie di continuare a crescere e a guadagnare ancora di più nonché di ricaricare prezzi ancora più alti. Non a caso la cosiddetta public option – non un sistema sanitario universale ma pur sempre un intervento pubblico che avrebbe rotto l’oligopolio delle assicurazioni private – era tramontata fin dall’inizio del percorso legislativo tra gli stessi democratici. Questo il punto politico della questione: tutto andava fatto per evitare l’idea che la salute, se non proprio un bene comune, va almeno affermata come un diritto e non (o non solo) una merce. Con questa riforma siamo di fronte alla conferma e all’ampliamento della mercificazione privatistica di una sfera della riproduzione sociale.

Attenzione: letto sotto questa visuale non è affatto un incidente di percorso lo scambio politico tra Obama e i deputati democratici anti-abortisti sul divieto di usare i fondi federali per rimborsare le spese delle interruzioni di gravidanza, cifra del nesso strettissimo tra mercificazione e controllo dei corpi e della riproduzione. Bisogna allora sputar sopra sui miglioramenti anche minimi che la legge, nelle condizioni date, apporta? E’ di nuovo Reich a dare uno spunto in risposta all’argomento dei “realisti”: bastava ampliare il programma a domanda pubblica (comunque basato sull’offerta privata di servizi) Medicare di assistenza agli anziani invece di imporre, tralatro a partire dal 2014, l’obbligo ad assicurarsi a sedici milioni di utenti e di ampliare il ben più modesto Medicaid (assistenza agli indigenti) per gli altri sedici (al 2019 rimarrebbero comunque del tutto scoperti 23 milioni di individui). Con ciò Obama avrebbe almeno resa più comprensibile la battaglia sulla sanità, con chiari ed omogenei benefici per una platea troppo povera per accedere all’offerta privata ma non abbastanza per accedere a quella pubblica, e avrebbe acquisito più forza anche per l’altro obiettivo della riforma: quello di contenere l’incredibile inflazione, pro compagnie, dei prezzi dei servizi sanitari e dei medicinali che la legge appena varata – anche a dire dell’Economist – non riesce ad affrontare (resta talaltro per le assicurazioni sanitarie l’esenzione dalla norme antitrust). Ma Obama aveva promesso alle lobby sanitarie di non mettere in campo la questione… Insomma, se non vogliamo giocare con le parole, non di una ancorché minima riforma welfaristica si tratta ma, questo sì, di un tentativo di regolazione del mercato della salute le cui sorti – anche procedurali oltreché di implementazione – sono tutte da vedere.

Purtroppo il problema é, ancora una volta, culturale. L’americano medio è veramente convinto che la sanità sia un servizio che si deve comprare e meritare anziché un diritto che si ha in quanto esseri umani, per definizione. Ci sarà molto lavoro da fare per riportare gli americani al passo coi tempi dei diritti umani, ma ci sono ottime speranze. Questa riforma in linea di principio è deprimente ma voglio pensare che sia l’equivalente della Proclamazione di Emancipazione firmata da Lincoln nel 1862. Spero solo che non si debba (anche in questo caso) aspettare altri 100 anni prima di cominciare a parlare di diritto alla salute.