Il destino dei poveri è di arricchirci

di Goffredo Fofi
da www.confronti.net

«Vincono i forti, vincono i furbi anche nel sociale, e i poveri, i marginali, i perdenti vengono perlopiù assistiti e protetti da associazioni, gruppi e governi che hanno inventato un meraviglioso sistema di circolazione del denaro, secondo il quale si spende per assistere chi ne ha bisogno passando attraverso grandissimi ma anche piccolissimi raggruppamenti di funzionari della bontà, di elargitori di bene e di beni, di assistenti che si preoccupano di assistere più che di guarire».
Intellettuale anticonformista, critico letterario e cinematografico, Fofi è direttore della rivista «Lo straniero».

Uno degli scandali maggiori del nostro tempo – per me il più rivelatore di tutti – è quello dei «professionisti della bontà». Noi, i buoni. Noi, gli altruisti che ci occupiamo degli altri chiamati prossimo, ma mai troppo prossimi perché, come diceva un vecchio saggio, la miseria rende miseri e «i poveri puzzano». Noi, che passiamo la vita, e lo gridiamo ai quattro venti e da ogni televisore e da tanti manifesti murali, ad alleviare le pene degli affamati, dei migranti, dei marginali, dei disabili, delle vedove e degli orfani, dei sopravvissuti a guerre e catastrofi naturali storpiati nel fisico o nel sentimento. Noi, di sinistra, che passiamo la vita a denunciare le malefatte dei cattivi, di destra, e a gridare di obbrobrio vedendo il trave che quelli hanno negli occhi, ma che siamo ormai così accaniti nel farlo da non essere più in grado – ma forse è sempre stato così tra quelli che un tempo venivano chiamati «i farisei» – di vedere il trave che sta nei nostri, di occhi.

L’ipocrisia è il nostro tarlo, e ci siamo ormai così abituati a scendere a patti con la nostra coscienza e a trasformare da esperti alchimisti la bugia in verità, da far fatica a distinguere il rosso dal nero e perfino – tra termosifoni e condizionatori – il freddo dal caldo. Essa si fa microscopica, però, e internazionale, quando mette in moto «macchine benefiche» miliardarie, locali o globali, distinte di solito in «associazioni di volontariato» e ong. Si tratta in entrambi i casi, e nella maggior parte dei casi, di ogm rispetto alle ambizioni iniziali, e se in parte questo è dovuto a comuni processi di crescita – non si può vivere da volontari in eterno, e si ambisce giustamente tutti a metter su famiglia, ad avere un posto di lavoro sicuro – nella parte preponderante è dovuto a comuni processi di adeguamento, di accettazione del mondo così com’è o come si dice che sia, e di banalissima e corrente corruzione. «Diventare adulti» implica in tutti i sensi comportarsi come gli adulti che ci hanno preceduto.

Diceva qualcuno che, se si ragiona, se si vuol essere individui pensanti che tengono conto fino in fondo dei dati di realtà (della lotta per l’esistenza nella natura, per esempio, dove è sempre il più forte o il più furbo a sopravvivere), si finisce necessariamente per dar ragione al marchese de Sade – quel filosofo del Settecento che voleva ci si comportasse secondo natura e ragione, e cioè accettando la legge della violenza e della sopraffazione del forte sul debole, scegliendo di farsi forti o di schierarsi della parte dei più forti. Il contrario sta forse nell’affermazione fatta da Pascal un secolo prima di Sade e da tanti altri prima e dopo di lui, secondo la quale la dignità dell’umano risiede proprio nella sua possibilità di pensare altro e altrimenti, di dire no, di dire «non ci sto», «non sono d’accordo», «non accetto» le norme fissate dalla natura e ribadite dalla società. Risiede qui il nodo, l’essenza dell’umano, ma qui è anche il motivo per non cedere di fronte ai ricatti della realtà. Si può e si deve diventare adulti in modo diverso, accettando i compromessi inevitabili e basta, sapendo dove occorre fermarsi, pena la perdita di ogni differenza e identità.

Nel campo del «sociale» questo è determinante, è essenziale. Ma la realtà ce lo mostra raramente, come eccezione, e perlopiù dà per perdente chi la pensa così. Vincono i forti, vincono i furbi anche nel sociale, e i poveri, i marginali, i perdenti vengono perlopiù assistiti e protetti da associazioni, gruppi e governi che hanno inventato un meraviglioso sistema di circolazione del denaro, secondo il quale si spende per assistere chi ne ha bisogno (dal massimo al minimo, dal continente africano al mendicante sotto casa) passando attraverso grandissimi ma anche piccolissimi raggruppamenti di funzionari della bontà, di elargitori di bene e di beni, di assistenti che si preoccupano di assistere più che di guarire, che, come per la cura del cancro, badano a non far morire il malato ma mantenendolo nella malattia e nella dipendenza dal medico e dalle medicine, di mediatori specializzati (la figura del mediatore è diventata essenziale al funzionamento del sistema economico dominante…) in modo che, di ogni budget, per due terzi più o meno rimanga nelle loro mani, serva a mantenere anzitutto loro (e i loro cari) e solo accessoriamente, molto accessoriamente, i beneficiandi nel cui nome sono stati stanziati i denari.

Questo meccanismo è semplice e chiaro, ma per funzionare ha bisogno dell’ipocrisia collettiva, e in particolare dell’accordo tra i finanziatori (perlopiù governi e stati) e i mediatori, che sanno bene, anche se i secondi fingono di non saperlo, di avere sul fondo gli stessi scopi, lo stesso progetto: non lo sviluppo autonomo di regioni e individui in grado di far da sé, ma il funzionamento di una macchina in cui il privilegio non passi di mano, in cui la dipendenza dei beneficati dai beneficanti non viene scalfita, in cui siano le grandi agenzie finanziarie mondiali a decidere cosa va bene per tutti, ma prima di tutto per coloro che dirigono il gioco e per i loro immediati dipendenti e alleati. Non mancano gli studi in proposito, perfino nel paese che ha perfezionato questo meccanismo, ma è evidente che ai professionisti della bontà non interessa approfondire, non piace guardarsi allo specchio, non piace discuterne e pensare a come evitare i pesantissimi ricatti di questa macchina, nei limiti in cui è possibile evitarli.