Iraq, non è finita

di Christian Elia
da www.peacereporter.net, 6 aprile condividi

Dopo il voto torna la violenza: cento morti in una settimana

Una dimostrazione di forza, un urlo di rabbia. Baghdad non può pensare, neanche per un minuto, che la violenza sia un ricordo del passato. Sono almeno cento le vittime dell’ultima settimana di sangue che ha scosso l’Iraq, dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni del 7 marzo scorso.

Terrore a Baghdad. Votazioni che, dopo un mese, non hanno ancora espresso un esecutivo. Ha vinto la formazione al-Iraqyia, di Iyad Allawi, con un programma multi confessionale e una formazione multietnica. Ma non ha i numeri per governare e, mentre nei corridoi del Parlamento di Baghdad, si lavora alle alchimie post elettorali la violenza torna nella strade. Oggi sono almeno 34 le vittime, e cento i feriti, causate dall’esplosione di otto ordigni in differenti punti della capitale irachena: i quartieri di Shula e Shukuk, nel nord-ovest della città, di Shurta Rabaa e Alawi al centro, dei sobborghi meridionali di Illam e Amil e Dora. L’ultimo attacco, suicida, ha colpito l’ex ambasciata britannica, in un ipotetico filo rosso con gli attentati del 4 aprile scorso. Almeno 42 persone hanno perso la vita e più di 200 sono rimaste ferite. Tre esplosioni simultanee hanno colpito le sedi diplomatiche di Egitto, Iran, Spagna e Germania. A provocarle alcuni attentatori suicidi alla guida di autobomba. Un quarto attentato è stato sventato.

Il giorno prima, nel villaggio di Sufiya, nella regione di Hour Rajab a sud di Baghdad, 25 persone sono state massacrate da un commando di almeno 15 uomini (come hanno raccontato i superstiti) che si è mosso casa per casa. Le vittime erano sunniti legati alle milizie al-Sahwa, i Consigli del risveglio, le formazioni paramilitari che dal 2006 hanno svolto un ruolo chiave nella ripresa del controllo del territorio, dopo gli anni più terribili seguiti all’invasione dell’Iraq del 2003. Secondo il generale Qassim al-Moussawi, dell’esercito iracheno, è proprio questo appoggio al governo e alle forze Usa che le vittime hanno pagato. Secondo lui, alcune vittime appartenevano alle forze di sicurezza irachene e altre ai Figli dell’Iraq, un gruppo di ex ribelli sunniti che si sono uniti al governo iracheno e alle forze Usa contro i militanti di Osama Bin Laden.

Il governo al palo. L’ex premier Nouri al-Maliki, già prima del risultato elettorale, aveva sventolato il fantasma del ritorno della violenza. Il drammatico bilancio di questa settimana testimonia di come le forze che si oppongono in armi alla stabilizzazione del Paese sono ancora operativa, anche se magari non più numerose come nei due anni seguenti al rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Secondo il ministero degli Interni iracheno gli attacchi sono opera di fazioni del disciolto partito Ba’ath e di miliziani di al-Qaeda. In genere, da almeno un anno e mezzo, allo stillicidio di migliaia di attacchi giornalieri sono seguiti attacchi mirati e devastanti. L’immensa folla di miliziani sui quali le forze insorgenti ha potuto contare all’inizio del conflitto si è assottigliata, ma resta un’ossatura del terrore che non sarà facile ridurre al silenzio. Anche perché la posta in gioco è alta e gli equilibri che potrebbero nascere dalle alleanze post elettorali sono complessi.

Come detto Allawi non ha i numeri per governare. Maliki, riuscisse a intercettare l’appoggio del blocco sciita più duro, si. Ma proprio questa alleanza porterebbe a una recrudescenza del senso di esclusione dei sunniti, primi tra tutti i miliziani del Risveglio che, come a Sufiya, hanno pagato un prezzo molto alto all’appoggio al governo e alle truppe Usa per battere i miliziani integralisti. I curdi, poi, temono uno scivolamento del Paese (nell’ipotesi di un nuovo governo Maliki) nell’orbita di influenza iraniana, con conseguenze per loro inaccettabili.

Gli Usa, dopo le condanne di rito delle violenze, stanno alla finestra. Il disimpegno Usa è sempre più evidente, man mano che il teatro afgano acquista centralità nella politica estera dell’Amministrazione Obama. In Iraq, dopo sette anni, non è ancora finita.