L’ECONOMIA DELLA FELICITÀ

di HELENA NORBERG-HODGE
da www.countercurrents.org Traduzione a cura di ELISA NICHELLI

Trentatré anni fa osservavo come una cultura, che fino a quel momento era stata isolata dal resto del mondo, venisse improvvisamente spalancata allo sviluppo economico. Vedere l’impatto del mondo moderno su una cultura antica mi ha illuminato su come la globalizzazione economica sia in grado di generare sensazioni di inadeguatezza e di inferiorità, specialmente nei giovani, e come queste pressioni psicologiche siano d’aiuto nella diffusione della cultura consumistica. Fin da allora ho continuato a promuovere la ricostruzione delle comunità e delle economie locali come fondamento dell'”Economia della Felicità”.

Quando sono arrivata in Ladakh, una regione sull’altopiano tibetano detta anche “piccolo Tibet”, questa era ancora in larga parte non alterata da colonialismo ed economia globale. Per ragioni politiche la regione era rimasta isolata per molti secoli, sia geograficamente che culturalmente. Dopo svariati anni di convivenza con gli abitanti del Ladakh, avevo la sensazione che fossero il popolo più appagato e felice in cui mi fossi mai imbattuta. Il loro senso di autostima era profondo e solido, sorrisi e risate erano i loro compagni fedeli.

Poi, nel 1975, il governo indiano impose improvvisamente l’apertura da parte del Ladakh all’importazione di cibo e beni di consumo, al turismo e ai media globali, all’educaizone occidentale ed altri orpelli tipici del processo di “sviluppo”. I media hanno diffuso impressioni romanzate dell’occidente, mentre le pubblicità e gli incontri fugaci con i turisti hanno avuto un impatto immediato e profondo sugli abitanti della regione. Le immagini pulite e accattivanti della cultura consumistica hanno creato l’illusione che le persone al di fuori del Ladakh godessero di ricchezze e agi infiniti. Per contrasto, lavorare nei campi e ricavarne ciò che è necessario per ciascuno sembrava antiquato e primitivo. Improvvisamente, qualunque cosa, a partire dal cibo, i vestiti, le case, fino alla lingua, sembrava inferiore. I giovani più di altri sono stati colpiti da questo cambiamento, cedendo rapidamente ad un senso di insicurezza e di rifiuto verso se stessi. L’uso di una pericolosa crema per schiarire la pelle chiamata “Fair and Lovely” divenne estremamente diffuso, andando a simboleggiare il nuovo bisogno di imitare modelli lontani – occidentale, civilizzato, biondo – proposti dai media.

Nelle ultime tre decadi ho osservato questo processo in numerose culture sparse per il mondo e ho scoperto che siamo tutti vittime delle stesse pressioni psicologiche. Di fatto, in ogni paese industrializzato, inclusi Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Francia e Giappone, abbiamo quella che viene descritta come un’epidemia di depressione. Si stima che in Giappone un milione di giovani si rifiuti di lasciare la propria camera da letto – a volte per decenni – in un fenomeno noto come “Hikikomori” [letteralmente “stare in disparte”, “isolarsi”, ndt]. Negli Stati Uniti, una frazione crescente di giovani ragazze sono così profondamente insicure del proprio aspetto che cadono nell’anorressia e nella bulimia, o ricorrono a costosi interventi di chirurgia estetica.

Perché succede tutto questo ? Troppo spesso questi segnali di crollo vengono visti come fossero “normali”: diamo per scontato che la depressione sia una calamità universale, che i ragazzi siano per natura insicuri sul loro aspetto, che l’ingordigia, l’avidità e la competitività siano condizioni innate della natura umana. Ciò che non prendiamo in considerazione sono i miliardi di dollari spesi dagli uomini d’affari con lo scopo di instillare, fin dall’età di due anni, la convinzione che il possesso di beni materiali possa assicurare alle persone l’amore e l’apprezzamento che bramano.

Mentre i media globali raggiungono le regioni più remote del pianeta, il messaggio che portano con sé è: “se vuoi essere guardato, ascoltato, apprezzato ed amato devi avere le scarpe da ginnastica giuste, i jeans più alla moda, i giochi e i gadget più recenti”. Ma la realtà è che il consumismo porta a competizioni e invidie sempre maggiori, rendendo i bambini più isolati, insicuri ed infelici, alimentando quindi un consumo ancora più frenetico in un vero e proprio circolo vizioso. In questo modo la cultura del consumismo globale attinge alla necessità fondamentale dell’uomo, ovvero l’amore, e la trasforma in una bramosia insaziabile.

Oggi come oggi, un numero crescente di persone si sta rendendo conto del fatto che, a causa dei costi ambientali, un modello economico basato sul consumo senza fine è semplicemente insostenibile. Ma siccome c’è molta meno consapevolezza dei costi sociali e psicologici della cultura dei consumi, la maggior parte delle persone credono che per ottenere i cambiamenti necessari a salvare l’ambiente occorrano grandi sacrifici. Una volta capito che la crescita globale basata sul consumo di petrolio non è soltanto responsabile dei cambiamenti climatici o della crisi ambientale, ma comporta anche un aumento di stress, ansia e crollo sociale, allora diventa evidente che i passi necessari per curare il pianeta sono gli stessi che dobbiamo fare per curare noi stessi: in entrambi i casi si tratta di ridurre le dimensioni dell’economia – ovvero di localizzarne l’attività, piuttosto che continuare a globalizzarla. La mia impressione, dopo aver intervistato persone provenienti da quattro continenti, è che la consapevolezza stia crescendo, e che abbia il potenziale per diffondersi a macchia d’olio.

La localizzazione dell’economia significa spostare le attività più vicino a casa, dando supporto alle realtà locali e alle piccole comunità anziché alle grandi corporazioni. Invece di un’economia basata sullo sfruttamento del sud del mondo, su famiglie stressate e composte da almeno due lavoratori al nord, e su una manciata di miliardari sparsi qua e là, la localizzazione significa un divario inferiore tra ricchi e poveri, e rapporti più stretti tra produttori e consumatori. Questo si traduce in una maggiore coesione sociale: uno studio recente ha dimostrato che chi acquista nei mercatini sostiene conversazioni dieci volte superiori a quelle delle persone che si recano nei supermercati.

La comunità è un ingrediente chiave per la felicità. Le ricerche confermano in modo pressoché universale che li sentimento di connessione con gli altri è un bisogno umano fondamentale. Le economie locali, basate sulla comunità, sono cruciali anche per il benessere dei nostri bambini, poiché forniscono loro modelli di vita e un senso di identità sano. Studi recenti sull’infanzia rivelano l’importanza, nei primi anni di vita, di imparare il proprio ruolo in relazione ai genitori, ai fratelli e alla comunità in generale. Questi sono i veri modelli a cui rifarsi, non gli stereotipi artificiali che si possono rintracciare nei media.

Una profonda connessione con la natura è altrettanto fondamentale per il nostro benessere. Lo scrittore Richard Louv ha addirittura coniato l’espressione “nature deficit disorder” [letteralmente “disturbo da carenza di natura”, ndt] per descrivere ciò che accade ai bambini privati del contatto con la natura. I benefici terapeutici del contatto con il mondo naturale, nel frattempo, stanno diventando sempre più evidenti. Uno studio svolto di recente nel Regno Unito ha mostrato che il 90% delle persone che soffrono di depressione avvertono un aumento di autostima dopo una passeggiata in un parco. In seguito ad una visita ad un centro commerciale, d’altro canto, il 44% delle persone percepisce una diminuzione di autostima, e il 22% si sente addirittura più depressa. Considerando che nell’ultimo anno sono state distribuite oltre 31 milioni di prescrizioni per antidepressivi, questo è un risultato cruciale.

Malgrado l’immensità della crisi che stiamo affrontando, convertirsi ad economie basate sulle comunità locali rappresenta una soluzione di grande potenza. Come ha affermato Kali Wendorf, direttore della rivista Kindred, “la via d’uscita è in realtà abbastanza semplice: spendere più tempo con gli altri, nella natura, in situazioni collettive, che ci diano un senso di comunità, come i mercatini ad esempio, o anche acquistare frutta e verdura nei negozi dietro l’angolo. Non significa tornare all’età della pietra. Vuol dire tornare alle fondamenta delle relazioni”.

Gli sforzi verso economie localizzate stanno già prendendo piede nelle zone rurali di tutto il mondo, portando con sé una sensazione di benessere. Un giovane uomo che ha dato vita ad un giardino urbano a Detroit, una delle città statunitensi più appassite, ci ha detto “ho vissuto in questa comunità per oltre 35 anni, e da quando ho iniziato ad occuparmi di questo progetto sono venute a parlarmi persone che non avevo mai conosciuto prima. Questo ci ha rimesso in collegamento con le persone che ci sono vicine, rendendo la nostra comunità una realtà”. Un altro giovane giardiniere di Detroit ha affermato: “Tutto sembra migliore quando c’è qualcosa che cresce”.

Il riscaldamento globale e il prezzo del petrolio richiedono un cambiamento radicale delle nostre abitudini di vita. La decisione sta a noi. Possiamo continuare lungo la strada della globalizzazione economica, che come minimo creerà ulteriore sofferenza umana e problemi ambientali, e come risvolto peggiore, minaccerà la nostra stessa sopravvivenza. Oppure, grazie alla localizzazione, possiamo cominciare a ricostruire le nostre comunità ed economie locali, le basi per sostenibilità e felicità.

Helena Norberg-Hodge è un’analista dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sulle agricolture mondiali, nonché una pioniera del movimento di localizzazione. Ha fondato e diretto l’International Society for Ecology and Culture (ISEC). Con base negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e sedi in Svezia, Germania, Australia e Ladakh, la missione dell’ISEC è di studiare le cause delle crisi sociali ed ambientali che stiamo attraversando, oltre a promuovere soluzioni più sostenibili ed eque sia al nord che al sud. Le sue attività includono il progetto Ladakh, un programma a favore del cibo locale e quello per il passaggio da globale a locale. Helena è autrice di “Ancient Futures: Learning from Ladakh”, testo basato sulla sua esperienza diretta sugli effetti dello sviluppo convenzionale in Ladakh. “Ancient Futures” è stato definito dal London Times un “classico illuminante” e, oltre alla realizzazione di un film con lo stesso titolo, è stato tradotto in 42 lingue. Una nuova edizione verrà pubblicata nel 2009 da Random House. È anche coautrice di “Bringing the Food Economy Home and From the Ground Up: Rethinking Industrial Agriculture”. Nel 1986 ha ricevuto il Right Livelihood Award [premio al corretto sostentamento, ndt], anche detto “premio Nobel alternativo”, come riconoscimento per il suo lavoro in Ladakh.