Stereotipi, Media, Codici, Democrazia paritaria

di Ignazia Crocé
da www.womenews.net

Che i “Media” possano diventare tramite fondamentale nella realizzazione della democrazia paritaria, è cosa del tutto risaputa. Altrettanto noto è il fatto che, quando trattano argomenti inerenti le donne, essi risultano tarati da una surrealtà rappresentativa che, mentre riconosce diritto di cittadinanza a tipologie della serie vallettume e dintorni, nega visibilità a ciò che le donne seriamente impegnate pensano e fanno.

Insomma, non solo la rappresentazione mediatica del femminile riflette poco e niente la mutata realtà dei tempi, ma, addirittura, risulta appiattita su clichè identitari che gravitano al limite del grottesco.
Non si capisce perché, ad esempio, certi giornali siano definiti “femminili”, quando risultano essere l’ habitat d’elezione di stereotipi e pregiudizi anti-femminili.
E non si comprende, nemmeno, il motivo per il quale le immagini di molti servizi di moda debbano confinare col volgare, e forse col ridicolo, sicuramente col patetico, quando ripropongono un’idea di trasgressione del tutto noiosa, resa, tra l’altro, banale, dal tentativo di rendere “compatibile” la libertà femminile, con un immaginario collettivo di tipo “monomaniacale”: quello polarizzato su icone femminili in stile “riposo del guerriero”, e dunque su modelli identitari confezionati ad usum delphini.

Il problema si amplifica con la televisione, che , con progressivo e inquietante vigore, mantiene un ruolo cardine nel diffondere, e consolidare, convinzioni e valori.
I modelli forniti dai programmi televisivi, infatti, hanno un tale peso, nella strutturazione delle identità e delle opinioni, da far vacillare, nella mente di molti, il confine tra virtualità e realtà.
Ciò contribuisce alla sopravvivenza di “pavimenti di pece” che impantanano il percorso di empowerment delle donne, e di “tetti di cristallo” che, lontano dal costituire, come pensa qualcuno, nuove tecniche di costruzione, sono gli aspetti segreganti che bloccano l’esplicazione delle identità, e delle professionalità, femminili.

La questione è annosa, anzi, epocale, ma rimane attuale. Ne sono testimonianza, tra l’altro, le recenti dichiarazioni del Presidente Napolitano, e il Libro Bianco “Women and Media in Europe”.

Questa ricerca, curata dal Censis per la parte italiana, nell’individuare le buone prassi a livello europeo fa il punto dei Codici di Autoregolamentazione.
Primo, in ordine cronologico – la sua pubblicazione, a cura della Commissione pari opportunità del Consiglio regionale della Calabria, risale al 2004 – è “Il Codice di Autoregolamentazione per l’impatto di genere nei media”, ideato e redatto da chi scrive.

Si tratta di un lavoro pensato nel solco del Programma di azione comunitaria istituito con Decisione del Consiglio dell’Unione del dicembre 2000, che ha preso atto dell’evoluzione dei ruoli femminili e maschili, e mira alla modificare dei linguaggi, dei comportamenti, delle norme e dei valori ormai fuori dal tempo.
Il “Codice”, infatti, individua come suoi elementi strutturali la rimodulazione del linguaggio mediatico, l’eliminazione di ogni forma di sessismo, l’ inclusione di genere, la consapevolezza e la diffusione della cultura di genere.

Vale, quindi, come ulteriore tassello per concretizzare il mainstreaming e l’empowerment di genere, con l’eliminazione di quella zavorra culturale che alimenta l’“ordine simbolico” di cui scrive Adriana Cavarero.
Certi stereotipi, infatti, se veicolati attraverso i media, contribuiscono – vista la grande capacità di persuasione che ha il messaggio mediatico (Marcel Proust diceva “si leggono i giornali nello stesso modo con cui si ama: con una benda sugli occhi” ) – a rafforzare le barriere che ostacolano l’affermazione della soggettività professionale delle donne.

E allora, come si legge nella ricerca Eurispes “ Analisi e tendenze della donna in Calabria – Rapporto 2004 ”, il “Codice di Autoregolamentazione per l’impatto di genere nei media, reca importantissime disposizioni riguardo agli indicatori culturali utili a promuovere l’impatto di genere nei media …per favorire azioni positive nel settore mediatico …pungolo culturale nella promozione di dibattiti forti e universalmente partecipati”.

Il “Codice” risulta, quindi, uno stimolo per favorire più che l’“esserci” delle donne in quanto tali, l’ inclusione, invece, di quella specificità di genere che propone nuove forme di analisi e di azioni, nei vari ambiti della cultura e della vita associata.
Ad esempio, le proposte relative al welfare, che ormai da diversi anni fervono nei paesi del nord Europa, ma anche in alcune aree d’Italia, come conseguenza del venir meno dell’oblatività femminile.
Aumentano, infatti, le Banche del Tempo, reti solidali in cui di dà valore non al denaro, ma al tempo: lo si capitalizza, utilizzandolo come bene di scambio, e trasformando, quindi, in valore di mercato ciò che da sempre è stato considerato privo di valore economico, e cioè, il lavoro di cura delle donne.

Contemporaneamente, nei paesi del nord Europa, si sta ipotizzando come opzione fiscale una “imposta del tempo” da far versare, al posto dei soldi, alle donne meno garantite economicamente. Insomma, si tasserebbe il tempo invece del reddito, introducendo un servizio sociale precisamente strutturato, attraverso il quale poter svolgere attività di cura e di pubblica utilità.

Di temi come questi, relativi al dibattito di genere, nei Media non c’è traccia . E non c’è traccia, non solo di questo argomento, che, magari, ha forte caratura politica…, ma nemmeno di altri argomenti, diciamo più innocui, come i temi della religiosità di genere, su cui da tempo, dopo il Sinodo Internazionale spagnolo, e, in Italia, dopo la pubblicazione del libro “Il Dio delle donne”, di Luisa Muraro, si è sviluppato un poderoso dibattito a livello mondiale.

Insomma, nell’Informazione e nell’analisi mediatica la riflessione di genere ha poco spazio, anzi, il sistema dei Media è spesso caratterizzato da un impianto sessista che imprigiona l’immagine femminile all’interno di uno “status” caratterizzato da mancanza di autorevolezza.

Il “Codice” sollecita, dunque, modalità di scrittura e di gestione redazionale improntati all’ottica di genere.
Affronta, anche, il problema della valorizzazione della soggettività professionale delle giornaliste, e, a tal fine, formula una proposta di “azioni positive”, nello spirito dell’articolo 3 dello Statuto della Federazione nazionale della Stampa.
Lo scopo è quello di favorire una più moderna organizzazione del lavoro giornalistico, con l’adozione del criterio della flessibilità per la conciliazione dei tempi privati e dei tempi di lavoro, con l’utilizzo del part-time e delle nuove tecnologie: l’uno come modalità contrattuale temporanea, l’altro per il lavoro a distanza.

Opzioni, queste, assolutamente fondamentali per quelle donne che, pur lavorando con assoluto rigore professionale, non vogliono rinunciare alle loro peculiarità di genere, nei legami di affetto e di responsabilità verso la famiglia.

Un dato è certo: nonostante la rilevante femminilizzazione del settore giornalistico, quasi sempre le leve del potere rimangono ferme nelle mani degli uomini, direttori e redattori capo.
Permane, dunque, una evidente caratterizzazione maschile sia nei criteri di scelta, e di trattazione, della notizia, sia nella gestione delle varie dinamiche redazionali, con la conseguente limitazione del pluralismo di genere.

Ma al “pluralismo delle voci e delle fonti”, fanno riferimento precise sentenze della Corte Costituzionale (la “420” del 1994 e la “155” del 2002), il “Protocollo sul sistema radiotelevisivo pubblico” allegato al trattato di Amsterdam, le Risoluzioni del Parlamento europeo, la Carta dei Diritti di Nizza, la Dichiarazione del Consiglio di Laeken…

E allora, parafrasando Goya, diventa difficile non pensare che “Se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della ragione-di-genere genera soltanto inchiostri “…