Ma quali riforme?

di Randolph Ash
da www.aprileonline.info, 16 aprile 2010

Come temevamo (e scrivevamo il 6 aprile su questo giornale) è iniziato il tormentone sulle riforme: bozza (o pseudobozza) Calderoli, chiacchiere della maggioranza, proclami del Presidente del Consiglio, correzioni altisonanti dei presidenti delle Camere, visite al Quirinale, proposte tra le più varie del centrosinistra

In realtà, dietro questa ventata riformatrice (l’ennesima degli ultimi trenta anni) ci sono specifici e strumentali interessi politici, piuttosto che istituzionali, del centrodestra e del suo capo incontrastato, Silvio Berlusconi. (Per la verità in questi giorni un po’ meno incontrastato).

Il centrosinistra rincorre affannosamente per evitare di essere, ancora una volta, incastrato (per usare un termine blando) dal gioco dell’avversario, stretto tra l’opportunità di sedersi intorno ad un tavolo e il pericolo di fare la parte del signor No denunciando la strumentalità delle proposte del centrodestra. Il Presidente Napolitano, per parte sua, continua eroicamente a spingere per una qualche intesa tra maggioranza e opposizione, ribadisce la necessità di “non sprecare anche questa legislatura” e cerca di vedere se, nonostante tutto, da questa ennesima tornata può venirne fuori qualcosa di buono, o semplicemente qualcosa. Con le considerazioni che seguono non intendiamo aggiungerci al chiacchiericcio presentando le nostre personali proposte, che certamente non avrebbero alcuna eco. Vogliamo soltanto sgombrare il campo da alcune mistificazioni per capire di cosa realmente ci sarebbe bisogno, di cosa non si sente proprio l’esigenza e cosa sarebbe sicuramente dannoso.

Diciamo subito che il sistema istituzionale italiano fissato dalla costituzione e dalla prassi politica è abbastanza buono. Non è perfetto, ma funziona. Da sessanta anni i parlamenti vengono eletti, i governi nominati, si fanno leggi, si amministra, i reati vengono perseguiti e giudicati. Non sempre benissimo e quasi mai con la soddisfazione di tutti, ma questo fa parte della politica e non del sistema. Se una maggioranza è fragile, non decide o si spacca, se un governo cade, non è colpa delle istituzioni, ma della politica, cioè dei rapporti di forza, degli interessi e delle aspettative della popolazione e di chi la rappresenta.

Non è neppure un sistema vecchio: sessanta anni non sono tanti nella vita istituzionale di un paese e questo sistema ha accompagnato, favorito grandi cambiamenti sociali e economici, per il semplice motivo che è stato pensato, aggiornando la migliore cultura liberaldemocratica del tempo, proprio per rispondere ai problemi che esistevano all’epoca e che sarebbero sorti: un sistema di garanzie (di libertà e di controlli) contro l’insorgere di tentazioni autoritarie, la piena legittimazione dei partiti e delle forze sociali come soggetti del dibattito politico, il ruolo sociale dello stato nel promuovere lo sviluppo economico e culturale delle persone e nel difenderne le libertà. Grandi novità rispetto al passato, tuttora valide.

Altre costituzioni, come quella scritta degli Stati Uniti, o quella non scritta del Regno Unito, che sono vecchie di secoli e che riflettono una cultura politico-istituzionale lontana di secoli, hanno avuto maggiori difficoltà ad adattarsi al presente e avrebbero, loro sì, più bisogno di essere riformate.
I problemi dell’Italia invece non sono principalmente costituzionali: sono problemi economici, problemi di ammodernamento e di rafforzamento della macchina amministrativa e dei principali settori di intervento dello stato: giustizia, sanità, istruzione, ricerca, cultura, infrastrutture. Ma sono questioni risolvibili con la politica, e con leggi ordinarie, cioè attraverso il gioco democratico all’interno delle vigenti regole costituzionali. Se non è avvenuto fin qui, o se è avvenuto con troppa lentezza, non è colpa del sistema istituzionale (le regole), ma di quello politico (i comportamenti).

Certamente il sistema istituzionale è responsabile, in parte, della lentezza decisionale. Ogni sistema democratico, con un parlamento che fa le leggi, un governo che le attua, una magistratura che le controlla, è intrinsecamente lento. Molto più veloci sono le dittature o, in un’altra sfera, i consigli di amministrazione delle aziende (meglio se il proprietario è uno solo). Ma le dittature hanno un piccolo problema: sono instabili e sono pericolose; non inserendo le forze di opposizione nel gioco istituzionale provocano proteste popolari, sommosse, rivoluzioni, e spesso finiscono nel sangue. I regimi dittatoriali diventano presto stagnanti, sclerotici: non coinvolgendo forze nuove e di dissenso, frenano o bloccano l’innovazione e l’iniziativa individuale: sotto una dittatura si perde non solo la libertà, ma anche lo sviluppo economico e sociale. In definitiva, tutte le democrazie, parlamentari o presidenziali che siano (anche queste hanno un forte parlamento), per quanto lente sono più efficienti dei sistemi autoritari dove uno decide e gli altri seguono.

Detto questo, qualche cambiamento lo si potrebbe anche fare senza alterare la natura democratica e parlamentare del sistema.

Parlamento: con l’istituzione delle regioni (prevista dalla Costituzione del 1948 e attuata nel 1970) 635 deputati e 315 senatori sono troppi ora che molte materie sono di competenza regionale. Potrebbero essere ridotti di almeno un terzo (non molto di più perché il lavoro in commissione richiede un minimo di partecipanti). Il bicameralismo perfetto (stessi poteri di Camera e Senato) potrebbe essere eliminato modificando le competenze del senato e le modalità di elezione (senato delle regioni?). Ci sono da anni proposte concrete e largamente condivise sul tappeto (da ultimo la bozza Violante): se si volesse, questa riforma potrebbe essere fatta nel giro di poche settimane.

Federalismo: già c’è. Con la riforma costituzionale del 2001 le regioni hanno ora un’amplissima potestà normativa e amministrativa. L’autonomia finanziaria è già legge, mancano soltanto i decreti attuativi e i regolamenti. Perché non si fanno e non si chiude questa stucchevole discussione federalismo sì, federalismo no? (La ragione c’è, ed è che un partito di governo in realtà non vuole il federalismo, ma la secessione dal resto dell’Italia.)

Giustizia: Il sistema giudiziario italiano non funziona: è troppo lento e, come si dice, non c’è certezza della pena. Le principali ragioni sono due, e nessuna delle due ha a che fare con la Costituzione: 1) le risorse materiali e umane assegnate alle procure e ai tribunali sono ridicolmente inadeguate rispetto ai carichi di lavoro; 2) una serie di leggi (le leggi ad personam, ma non solo) hanno fatto virare il sistema accusatorio in senso ipergarantistico a favore degli imputati, intralciando le indagini e rallentando i processi. Anche in questo caso un riequilibrio produrrebbe maggiore efficienza senza richiedere interventi costituzionali.

Poteri dell’esecutivo: Nel nostro sistema il presidente del consiglio non è affatto impotente, come spesso lamenta l’attuale (ma non quando in pochi giorni fa approvare una legge per sé). Controlla l’ordine del giorno dei lavori delle camere, chiede l’urgenza per l’esame di un provvedimento, esprime il parere sugli emendamenti (e se la maggioranza lo sostiene, li boccia), può contingentare i tempi della discussione limitando il dibattito, può emanare decreti legge con forza di legge, può porre la questione di fiducia e fare approvare in blocco un provvedimento che considera essenziale. Nessuno di questi poteri è a disposizione dello spesso evocato presidente degli Stati Uniti, in comune con il quale il presidente del consiglio italiano ha soltanto il controllo diretto della pubblica amministrazione. (Mi correggo: il presidente americano ha meno poteri anche sull’amministrazione dal momento che i suoi massimi dirigenti debbono essere approvati dal senato.)

Sistema elettorale: Quello vigente in Italia è tra i peggiori al mondo. I deputati e senatori sono uomini (e poche donne) di fiducia dei capi di partito, che compilano le liste bloccate dei candidati, e sono personalmente legati ad essi per la loro elezione e rielezione. Come si è visto, il capo del governo esercita un controllo quasi totale sui parlamentari della sua maggioranza (e totale su quelli del suo partito – almeno finché non decidano di uscirne, come sembra possa avvenire in questi giorni). Questo solo fatto gli dà un enorme potere sconosciuto nella stragrande maggioranza delle democrazie, sia parlamentari sia presidenziali. Una riforma elettorale è forse la cosa più necessaria e urgente per dare più autonomia ai parlamentari e più possibilità di scelta ai cittadini. E anche in questo caso non ci sarebbe bisogno di alcun intervento costituzionale.