In riva al mare

di Gabriele Del Grande
da www.peacereporter.net

I genitori di un gruppo di ragazzi di Annabah, in Algeria, non si danno per vinti e continuano a cercare i figli scomparsi nel Mediterraneo

“La peggiore cosa è questo senso di impotenza. Sono passati due anni. Sappiamo che sono vivi da qualche parte, ma non possiamo fare niente per loro. E lo Stato non ci aiuta a cercarli. I nostri figli non valgono abbastanza”. Mérouane, Hadif, Faysal, Rédouane. Finiti gli sbarchi, restano loro. I giovani dispersi nel Mediterraneo. Una lista di migliaia di nomi, sulle cui sorti da anni si interrogano altrettante famiglie del mare di mezzo. Soltanto ad Annaba, l’antica Ippona che dette i natali a sant’Agostino, in Algeria, i dispersi censiti sono 92. Scomparsi sulla rotta per la Sardegna tra il 2007 e il 2009.

Mérouane è partito il 17 aprile 2007. E da allora è scomparso. Quella sera aveva addosso una strana euforia. Aveva chiesto al padre, Kamel, se poteva andare tre giorni a Tunisi con degli amici. Si salutarono velocemente, senza tante parole. Il pomeriggio del giorno dopo, Kamel ricevette la telefonata della moglie in lacrime. Piangeva a singhiozzi. Mérouane aveva preso il mare, glielo aveva detto un suo amico. Suo padre lasciò lo studio grafico e si precipitò a casa per capire quanto di vero ci fosse in quella storia. In effetti c’era un testimone.

Su quella stessa imbarcazione viaggiava Rédouane, il figlio di Hamdi, della baraccopoli di Sidi Salem. A differenza di Kamel, Hamdi era a conoscenza dei piani del figlio e lo aveva addirittura incoraggiato. Senza nessun titolo di studio, con un padre disoccupato, cosa poteva sperare dalla vita qui ad Annaba? Rimanere a Sidi Salem in quelle condizioni significava rischiare di finire nei brutti giri malavitosi di cui pullulava il quartiere e magari finire in galera a vent’anni. Rédouane era un ragazzo ambizioso. A Sidi Salem aveva una fidanzata. Volevano sposarsi.

Ma un matrimonio in Algeria, con i tempi che correvano, non sarebbe costato meno di quattromila euro. E lui non voleva certo fare la fine del fratello maggiore, che a trent’anni era ancora scapolo e senza prospettive. Lui pensava in grande, avrebbe aiutato anche il padre a uscire da quella baracca, senza dover aspettare per anni le case popolari promesse dal Comune. E poi molti suoi amici erano già partiti. In quel periodo era facile arrivare in Sardegna.

Il padre non poté che sostenerlo. E probabilmente non se lo sarebbe mai perdonato. Non si sarebbe mai perdonato di aver pagato il biglietto della sua scomparsa. A stento tratteneva le lacrime sul volto asciutto mentre ne parlava. Ma dopotutto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Capiva perfettamente le ambizioni del figlio. Lui aveva fatto lo stesso da giovane. Dal 1987 al 1993 aveva vissuto e lavorato in Italia, tra Brescia, Bergamo, Milano e Ravenna.

La sera della partenza, Rédouane passò da casa con il figlio di Kamel, Mérouane, e con altri tre ragazzi che si apprestavano a partire. Erano i compagni di viaggio più grandi, e venivano ad assicurarsi che il padre fosse al corrente di tutto e che il figlio non stesse partendo a sua insaputa, magari dopo avergli rubato in casa. Il padre li rassicurò, dette la sua benedizione a Rédouane e lo baciò per un’ultima volta, come si faceva prima di un lungo viaggio.

Partirono da una spiaggia isolata di Echatt, al riparo da sguardi indiscreti. Al timone c’era un marittimo, Kasmi Abdelouaheb, classe 1968. Uno col libretto di navigazione, uno che in mare c’era cresciuto, lavorando per anni sui mercantili in Francia e in Belgio.

La barca salpò alle dieci di sera. Due ore dopo, a mezzanotte, Hamdi riuscì a parlare con il figlio, telefonando a uno dei ragazzi che si era portato a bordo il cellulare. La sorella gli parlò di nuovo alle quattro del mattino, e per un’ultima volta alle nove. Più tardi, quando lo stesso Hamdi provò a comporre di nuovo il numero, a metà mattinata, il telefono era irraggiungibile. Rédouane sarebbe scomparso nel niente, assieme al figlio di Kamel e agli altri otto ragazzi dell’equipaggio.

Da quel giorno, i padri dei ragazzi dispersi non si danno per vinti. Sono pronti a scommettere che i figli non siano morti annegati. È impossibile, dicono, che i naufraghi siano scomparsi nel niente. Ma nei faldoni della Prefettura di Cagliari, degli algerini scomparsi in mare non c’è traccia. E allora l’unica ipotesi che resta in piedi è che si trovino detenuti in qualche carcere in Tunisia. Ma non ci sono prove. Il comitato dei padri, guidato dal signor Kamel, ha prodotto un dossier sui 92 dispersi e l’ha consegnato ai deputati del parlamento algerino, alle ambasciate e alla stampa, ma senza nessun risultato. La cosa sembra non interessare a nessuno.

E i padri si ritrovano sempre più soli, abbandonati al loro sconforto. E a un lutto impossibile da elaborare senza una salma su cui piangere. “Ma lo sanno – si chiede Kamel – i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire lavare il sedere di un neonato? Conoscono l’odore dei pannolini? Hanno mai accompagnato per mano il proprio bambino al primo giorno di scuola? Ma lo sanno i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire perdere un figlio?”.