Finanza allegra in Vaticano

di Elio Rindone
da www.italialaica.it

Che lo IOR non sia stato gestito con criteri propriamente evangelici è ormai innegabile, e del resto in qualche modo lo stesso arcivescovo Marcinkus, con un’espressione di sapore machiavellico, lo sosteneva pubblicamente: “Non si può governare la Chiesa con le Ave Maria”. E da allora nulla sembra cambiato.

È scontato: la specialità del Vaticano è quella di seguire regolarmente una prassi opposta a quella suggerita dal vangelo. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?”(6,41) chiede Gesù nel vangelo di Luca, e prosegue: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”(6,42). Al contrario, la gerarchia ecclesiastica, pur essendo ben lontana dall’ispirare i propri comportamenti ai principi che professa, non risparmia ammonizioni e critiche a destra e a manca. E che non abbia nessuna intenzione di togliere la trave dal proprio occhio emerge con particolare evidenza quando sono in gioco le finanze vaticane.

In materia di economia, infatti, non mancano le condanne del magistero sulla ricerca del profitto ad ogni costo e le lezioni sulla necessità della trasparenza come garanzia di un comportamento corretto dal punto di vista etico. L’intervento più recente è l’enciclica di Benedetto XVI del 29 giugno 2009, che ribadisce che “non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica”(Caritas in veritate n. 36). E sull’importanza della trasparenza il papa insiste a più riprese, affermando ad esempio che “sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l’opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell’istituzione stessa”(n. 47).

Ma l’auspicio vale anche per la gestione delle finanze vaticane? Pare proprio di no, se è vero che su di esse il riserbo dei responsabili ecclesiastici è assoluto. Le mura vaticane sembrano invalicabili per la libera informazione e i rari tentativi di far luce su quanto succede al di là di esse sono visti con estremo fastidio, come ricorda il direttore de La Repubblica, Ezio Mauro, nella prefazione al volume che raccoglie i risultati di un’indagine giornalistica: “l’inchiesta ha incontrato una forte opposizione e una reazione a catena sui giornali cattolici, fino a scuotere i Sacri Palazzi, con il cardinal segretario di Stato della Santa Sede [Tarcisio Bertone] che ha pronunciato un giorno il suo monito, inconsueto per le abitudini della libera stampa in Occidente: Finiamola”(Curzio Maltese, La questua, Milano 2008, pp 10-11).

E’ ovvio che tanta segretezza non si spiegherebbe se non ci fosse nulla da nascondere. E in effetti c’è del marcio al di là del Tevere e lo si sa sin dagli anni Settanta, dal momento in cui alcune operazioni compiute dallo IOR, e cioè l’Istituto per le Opere di Religione comunemente conosciuto come Banca Vaticana, hanno costretto la magistratura italiana ad aprire un’indagine nei suoi confronti. Lo scandalo che ha coinvolto Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, Michele Sindona, fondatore della Banca Privata Italiana e l’arcivescovo Paul Marcinkus, nel 1971 nominato da Paolo VI presidente dello IOR, è ormai storia.

Ed è certo che operazioni oscure su cui indagare ce n’erano se il democristiano ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, che impose la liquidazione coatta dell’Ambrosiano, nell’ottobre del 1982 denunciò in Parlamento le responsabilità della banca vaticana e dei suoi dirigenti, fra cui lo stesso Marcinkus. Ma il Vaticano fece di tutto per tirarsi fuori senza eccessivi danni alla propria immagine e nel 1984 riuscì a chiudere la vicenda pagando, come ‘contributo volontario’, ai liquidatori del Banco Ambrosiano 242 milioni di dollari. Quando poi nel 1987 il presidente dello IOR venne indagato dai magistrati, il Vaticano fece valere un articolo dei Patti Lateranensi che garantisce una speciale immunità a chi opera nelle strutture centrali della Santa Sede: Marcinkus poté così sfuggire all’arresto.

La gestione dello IOR non brilla, dunque, per trasparenza: anzi, per essere esatti, bisogna dire che gode di condizioni di segretezza tali da far invidia alle banche dei più famigerati paradisi fiscali. Come scrive Gianluigi Nuzzi, “Lo IOR non può essere perquisito. I telefoni non possono essere intercettati. I dipendenti nemmeno interrogati. Per sapere qualcosa sulle operazioni della banca la magistratura di un qualsiasi paese del mondo deve infatti avviare rogatoria allo Stato Città del Vaticano. […] Quasi sempre il Vaticano nega quindi ogni chiarimento e respinge le rogatorie. […] Lo Stato Città del Vaticano è l’unico paese in Europa a non aver mai firmato alcuna convenzione di assistenza giudiziaria con i paesi del continente”(Vaticano S.p.A., Milano 2009, pp 32-33).

L’imprevedibile però ogni tanto accade! Nel 2003 muore Renato Dardozzi, un monsignore che dal 1974 alla fine degli anni Novanta ha seguito in prima persona le vicende più riservate dello IOR, conservando nel suo archivio personale la relativa documentazione. Ebbene, nel suo testamento il Dardozzi esprime la volontà che questi documenti siano resi pubblici. Così, avendo avuto accesso nel 2008 all’archivio del monsignore, il giornalista sopra citato, Gianluigi Nuzzi, ha potuto pubblicare Vaticano S.p.A., un libro che consente di squarciare il velo sugli affari (sporchi!) del Vaticano successivi allo scandalo dell’Ambrosiano.

Al principio degli anni Novanta, come è noto, ha inizio ad opera di alcuni coraggiosi magistrati di Milano un’operazione di contrasto al sistema di corruzione, di appalti truccati e di tangenti che caratterizzava (e pare che ancora caratterizzi) l’economia italiana. Il caso più clamoroso è quello dell’acquisizione da parte dello Stato della quota appartenente ai privati del colosso della chimica, l’Enimont. Per concludere l’affare con proprio vantaggio, il privato deve però pagare una maxitangente ai partiti politici, e per far ciò si serve ovviamente di canali che possano sfuggire ad eventuali indagini. Infatti, “i giudici celebreranno diversi processi senza riuscire mai a ricostruire il percorso di questa maxitangente, che emerge con chiarezza solo oggi dai documenti dell’archivio Dardozzi”(ivi p 75).

Si scopre, così, che almeno una parte della maxitangente è transitata dalla banca vaticana ad opera del vescovo Donato De Bonis, nominato prelato dello IOR dal cardinale Casaroli. Subentrato a Marcinkus come presidente dello IOR nel 1989 con l’intento di fare pulizia, l’economista lombardo Angelo Caloia prende gradualmente conoscenza degli illeciti commessi da De Bonis, al quale non teme di attribuire, in una lettera del luglio 1993 indirizzata al segretario di Stato, cardinale Sodano, una “netta e criminosa attività consapevolmente condotta”(ivi p 85). L’autore di tale ‘criminosa attività’ viene allora subito denunciato, in base a un elementare criterio di trasparenza? Neanche per idea!

Dato che nei mesi successivi le indagini sul coinvolgimento della banca vaticana nel caso Enimont permettono di acquisire nuove prove, il Caloia, convinto che i panni sporchi si debbono lavare in famiglia, si sente in dovere di informare il cardinale Sodano che i magistrati milanesi sanno ormai che i titoli “passati allo IOR sono il risultato di pagamenti di tangenti a uomini politici, per importi certamente a loro ritornati in forma pulita. È l’esatta replica dei meccanismi del passato”(ivi p 92).

I vertici dello IOR, quindi, pur essendo perfettamente a conoscenza dei reati commessi da De Bonis, nonostante la dichiarata volontà di leale collaborazione con i magistrati italiani danno risposte reticenti alle rogatorie, comunicando solo ciò che non possono negare. Infatti sempre il Caloia scrive che un documento che mostra quanto lo IOR e De Bonis abbiano guadagnato dalla vicenda Enimont deve restare assolutamente riservato, perché “qualunque indiscrezione costituirebbe fonte di gravissimo danno per la Santa Sede. E ciò in quanto esso esplicita e sottolinea procedure e cifre che – non essendo essenziali alla Procura di Milano – non sono state trasmesse. E ciò anche perché non richieste dalle rogatorie”(ivi p 134).

Le informazioni taciute, commenta il Nuzzi, sarebbero in realtà state utilissime per i magistrati: “con i dati in più la Procura avrebbe potuto ricostruire tutte le bustarelle distribuite per il divorzio chimico e aprire nuovi filoni d’inchiesta”(ivi). Ma ciò che sta a cuore alla Santa Sede non è che la giustizia faccia il suo corso ma che la propria immagine sia salva. La protezione accordata ai propri uomini, anche se commettono reati gravissimi, consentirà quindi allo IOR di restar fuori da un processo che si concluderà nel 1995 con la condanna di politici e imprenditori di primo piano: “il Vaticano non restituirà mai nulla del denaro trovato sui conti o dei soldi attribuiti a De Bonis. Soltanto una modesta percentuale delle tangenti viene recuperata”(ivi p 136). Condanna della ricerca del profitto al di fuori di ogni regola? Dovere di trasparenza? Pare che tali criteri non valgano per la banca vaticana.

Ma queste somme, seppur male acquistate, venivano usate per opere di bene? Niente affatto! De Bonis era abilissimo nel creare enti con finalità apparentemente caritative, come il ‘Fondo mamma Roma per la lotta alla leucemia’ o il ‘conto per le SS. Messe’, che gli permettevano di movimentare enormi quantità di denaro per ben altri scopi. Ma la più interessante fra le creazioni di De Bonis è la ‘Fondazione Cardinale Francis Spellman’, a proposito della quale il Caloia scrive: “Permangono in conclusione forti dubbi sull’effettiva natura di questo conto che, per frequenza ed entità della movimentazione e delle giacenze, sembrerebbe esulare dalle mere finalità per opere di carità e assistenza, che pure si riscontrano formalmente in alcune uscite. Il saldo, al 7 luglio 1992, è di circa 12,1 miliardi di lire”(ivi p 52).

Ma è ancora più sorprendente scoprire che i soggetti autorizzati a operare su questo conto sono due: il più volte presidente del consiglio Giulio Andreotti e ovviamente il vescovo De Bonis. E le sorprese non sono finite: in un appunto del luglio 1987 il De Bonis stabilisce che alla sua morte quanto si trova sul conto “sia messo a disposizione di S. E. Giulio Andreotti per opere di carità e di assistenza, secondo la sua discrezione”(ivi p 40). Come evitare il sospetto che l’inesistente ‘Fondazione Spellman’ fosse in realtà un conto segreto di Andreotti?

In aggiunta a questi fatti, accertati grazie all’archivio Dardozzi, il Nuzzi riporta anche dichiarazioni, però tutte da verificare, che attribuiscono allo IOR pure il riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa. Alla metà degli anni Novanta, Francesco Marino Mannoia, un collaboratore di giustizia considerato dai giudici molto affidabile, dichiara nel corso del processo al parlamentare Marcello Dell’Utri, di avere appreso attraverso le parole di alcuni capimafia che alcuni corleonesi come Salvatore Riina “avevano investito somme di denaro a Roma attraverso Licio Gelli che ne curava gli investimenti e che parte del denaro veniva investita nella banca del Vaticano”(ivi p 251).

Nel 2007 Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco mafioso di Palermo, afferma in un’intervista che negli anni Settanta e Ottanta il padre si serviva dello IOR per movimentare i capitali mafiosi: una cassetta di sicurezza era stata intestata a un prestanome, “un prelato del Vaticano affinché mio padre ne avesse accesso diretto”(ivi p 258). E spiega perché sia stato scelto proprio lo IOR: “Mio padre mi ripeteva che queste cassette erano impenetrabili perché era impossibile poter esercitare una rogatoria all’interno dello Stato del Vaticano”(ivi p 261). In effetti nessuna rogatoria è stata avviata in seguito alle parole di Marino Mannoia e di Ciancimino, probabilmente perché non si sperava di ottenere risposte.

Se si ha, dunque, la certezza che la corruzione dilagante in Italia ha potuto usufruire dei servizi della banca del papa, non si può eliminare il sospetto che anche la mafia abbia avuto la possibilità di farvi ricorso. Lo storico latino Svetonio racconta che al figlio Tito, che riteneva poco dignitoso far cassa imponendo un tributo sugli orinatoi pubblici, l’imperatore Vespasiano abbia dimostrato, mettendogli sotto il naso una moneta ricavata da quella tassa, che ‘pecunia non olet’(cfr. Vespasiano, 23). Evidentemente in Vaticano non si sente neanche la puzza della corruzione e forse neanche quella della mafia!

È chiaro, a questo punto, che ciò che inquina la finanza vaticana non è l’operato di qualche funzionario infedele, magari arrivato per errore ai vertici dello IOR. La questione non è la presenza di qualche mela marcia ma la segretezza a prova di bomba che protegge l’Istituto, e quindi l’assoluta mancanza di trasparenza. Di chi sono i depositi, qual è la provenienza del denaro e a quali scopi viene usato? Quasi impossibile rispondere, tranne che qualcuno dall’interno, come ha fatto monsignor Dardozzi, sveli i misteri della banca vaticana.

Che lo IOR non sia stato gestito con criteri propriamente evangelici è ormai innegabile, e del resto in qualche modo lo stesso arcivescovo Marcinkus, con un’espressione di sapore machiavellico, lo sosteneva pubblicamente: “Non si può governare la Chiesa con le Ave Maria”(The Observer 25/5/1986). Ed è pure innegabile che almeno di alcuni dei reati commessi erano a conoscenza non solo i vertici dell’Istituto ma anche quelli della Santa Sede, senza che nessuno abbia sentito il dovere di sporgere denuncia alle competenti autorità giudiziarie. Forse i difensori dell’etica cristiana hanno dimenticato un principio che la riflessione morale aveva già colto con il pagano Democrito: “Bello è l’impedire agli altri di commettere ingiustizia; se non si riesce a questo, almeno non aiutare a compierla”(B 38). È doveroso, infatti, opporsi al male denunciandolo, mentre col proprio silenzio se ne diventa complici: il primo “atteggiamento è giusto e coraggioso, mentre l’atteggiamento contrario è ingiusto è vile”(B 261).

Ancora oggi in Vaticano si resta invece fedeli alla consegna del silenzio, come dimostra l’assenza di qualunque presa di posizione di fronte a un libro come quello del Nuzzi che riporta fatti estremamente imbarazzanti e che non possono essere smentiti: silenzio che una volta di più rende poco credibili le parole del papa quando esorta gli altri alla trasparenza ma si guarda bene dall’esigerla in casa propria. Del resto si sa: in Italia pochi leggono libri, mentre l’opinione pubblica viene sostanzialmente orientata dalla televisione. Essenziale, allora, è mantenere buoni rapporti con chi ha il potere di controllare l’informazione televisiva, e che ha a sua volta parecchio da nascondere. In cambio del silenzio garantito dal potere temporale è conveniente quindi ricambiare il favore, per esempio tacendo (qualche timida critica non cambia la sostanza delle cose) sull’approvazione di leggi scandalosamente contrastanti con lo spirito evangelico: che si tratti delle norme xenofobe contenute nel cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ o di quelle che vanno sotto il nome di ‘scudo fiscale’, che consentono una sorta di riciclaggio di Stato.

In effetti appare un po’ schizofrenica una Congregazione per la Dottrina della Fede che lascia liberi i parlamentari cattolici di votare simili leggi senza problemi di coscienza mentre li obbliga ad opporsi a proposte legislative che volessero riconoscere le coppie omosessuali: “Nel caso in cui si proponga per la prima volta all’Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale”(Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni omosessuali, 3/6/2003). È ingiustificato il sospetto che una tale schizofrenia sia causata da meschini calcoli di bottega (politica ed economica)?