Le due Europe. Di una tragedia (greca) senza catarsi

di Giovanni Perazzoli
da www.micromega.net

Prima o poi il nodo delle “due Europe” doveva venire al pettine. Nella crisi greca un aspetto paradossale salta agli occhi. La Grecia è in banca rotta e la Germania si trova in prima fila per aiutarla con un prestito: delle due, però, la Grecia ha un welfare state modestissimo, mentre la Germania ne ha uno favoloso. In generale, i paesi al riparo dalla crisi in Europa sono anche quelli che hanno degli ottimi sistemi di welfare. Il paradosso sembra essere che chi spende di più ha soldi per finanziare il debito di chi spende di meno, e chi spende di meno deve chiederli a chi spende di più. La Grecia, che è in bancarotta, è – addirittura – uno dei soli due paesi in area euro a non avere un sussidio universale per i disoccupati. L’altro è l’Italia.

Come avrà fatto, allora, la Grecia ad affogare nel debito?
Qualche dato aiuta ad avere la misura del paradosso. La Germania per finanziare i suoi sussidi – non solo di disoccupazione, ma anche, ad esempio, quelli per le mamme sole (che hanno, oltre tutti gli altri sussidi, 750 euro al mese) – spende 23 miliardi di euro all’anno. Per avere un metro di paragone si deve considerare che in Grecia l’evasione fiscale è di 15 miliardi di euro all’anno: e i Greci sono 11 milioni, mentre i Tedeschi 80 milioni. Ma la Grecia è costretta a chiedere in prestito 8 miliardi di euro alla Germania, pur avendo da anni un’evasione fiscale con la quale avrebbe potuto avere un welfare superiore a quello della Germania. In Italia, naturalmente, le cose sono ancora più clamorose, vista la differenza di proporzioni. Da noi, è bene ripeterlo, l’evasione è di 300 miliardi di euro all’anno (“Corriere della sera”, 20 settembre 2008).

È allora un caso che i paesi con un forte welfare state siano più solidi di quelli che ne hanno uno debole?
Non è casuale proprio per niente. Intanto, è opportuno osservare che la spesa per il welfare state non è la causa della crisi. Ed è importante ricordarlo perché, ovviamente, si tende a far passare il messaggio opposto, ovvero che “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”, che “la festa è finita” etc.

Quello che ci mostrano questi dati è che un welfare state efficiente è indice di uno stato efficiente. Efficiente quasi sempre significa non corrotto. E questo è vero in un senso meno generico di quello della buona e onesta amministrazione. Se c’è un buon welfare quasi sempre, infatti, non c’è sovrapposizione tra economia e politica; al contrario, dove manca un welfare efficiente, quasi sempre esiste il clientelismo.

Detto in altri termini, lo sfondamento del bilancio non è dovuto al fatto di “vivere al di sopra dei propri mezzi”, ma al fatto che il potere compra il consenso attraverso l’evasione fiscale, le assunzioni clientelari, il finanziamento di pseudo attività economiche il cui prodotto vero è del “personale votante”. La corruzione non è un fatto di temperamento meridionale, ma un sistema di potere.

In Italia le analisi della crisi greca si sono concentrate però sugli aspetti economici con qualche incursione, al massimo, nel registro della morale e del malcostume. Si sono evocati i grandi scenari (Maastricht, il neoliberismo, la fine del capitalismo, dell’euro…). Ma il problema non è (solo) il “debito estero” o l’ “indebitamento interno”: il problema è un sistema di potere che si continua a far finta di non vedere in tutta la sua estensione, e che divide l’Europa. Non a caso l’elementare paragone con il nostro paese non è stato proposto e sviluppato, se non, di nuovo, in termini di parametri economici (a noi vantaggiosi) o, al massimo, nel tono folkloristico e autoassolutorio del “temperamento mediterraneo”.

Perché non ci siamo veramente riconosciuti nella Grecia? Il “contagio”, in questo caso, non c’è stato. Dobbiamo ringraziare il cordone sanitario mediatico, la nostra perenne quarantena nel pensiero unico, se non ci siamo seriamente riconosciuti nella tragedia greca. Ma senza identificazione (o contagio) non c’è neanche catarsi. Se non si vuole eludere il problema che rappresenta per noi la Grecia, bisogna chiarire che il nodo di questa crisi non deve essere cercato esclusivamente nelle variabili dell’economia. La sua origine principale è politica.

La destra si guarda bene dal porre il problema della corruzione (e in fondo non le dispiacerebbe tornare a svalutare una moneta nazionale, per mantenere un’economia povera di ricerca, competitiva solo rispetto al terzo mondo, che esprime, del resto, questa stessa destra). E le analisi dell’area più pensante della sinistra tendono anch’esse ad essere parziali, perché vogliono vedere un problema di struttura che fa del problema greco il sintomo di un male più generale legato, ad esempio, ai parametri di Maastricht e al neoliberismo scatenato.

Ma non è (solo) questo il punto. I parametri di Maastricht non impediscono ai paesi nord europei – che non sono solo la Germania o la Francia, ma anche l’Olanda, il Belgio, l’Austria, la Svezia, la Danimarca… – di avere uno stato sociale e dei servizi assolutamente favolosi e un’economia che regge, tutto sommato, la crisi. Il problema, nel caso concreto, non è tanto la spesa, quanto come, e soprattutto, chi spende. Il nostro debito pubblico è esploso nel periodo del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani).

Il punto è che i paesi che hanno un welfare autentico hanno ancora uno stato che esercita le sue funzioni.
Si tratta di un fatto accidentale? In realtà il welfare state è oggi l’unico patto sociale che garantisce, nei fatti, quella coesione sociale, o, diciamo meglio, quella giustizia sociale, che è fondamentale (nel senso proprio che riguarda il fondamento) per il funzionamento dello stato e del diritto. Questi stati hanno più forza per resistere sia alla corruzione che alla speculazione. La corruzione, l’evasione fiscale o, sull’altro versante, la speculazione finanziaria, attaccano più facilmente, invece, quegli stati che non hanno un patto condiviso, e li svuotano.

I paesi con un forte welfare state sono più solidi perché hanno trovato un nuovo equilibrio sociale che colma il vuoto lasciato dalla scomparsa del vecchio stato fondato sullo spirito della borghesia. Un nuovo patto sociale ha colmato questo vuoto.

Da quando il capitalismo finanziario ha mandato in soffitta quel poco che rimaneva della vecchia borghesia liberale, lasciando al suo posto le paranoie delle borse e il cinismo di iperpagati amministratori di anonimi fondi di investimento, molte cose sono cambiate. L’altra faccia della scomparsa della vecchia borghesia è ovviamente la globalizzazione, che però, almeno sul lato produttivo, ha poco di “globale”, perché anzi conduce a una spaventosa concentrazione di lavoro in una sola nazione (o in un’area del pianeta).

E la Cina – la fabbrica del mondo – è un “non-luogo”, è un territorio affittato da un capitalismo apolide e mutante dentro un paese … comunista. Un paradosso. Ma la scomparsa della borghesia significa, ragionando in termini oggettivi e di strutture, la trasformazione delle forme giuridiche, contrattuali, statuali del passato: lo si vede nel concetto di proprietà. Chi è oggi il “padrone”? A volte si scopre che è un fondo pensione.

Luigi Einaudi pensava che si dovessero virtuosamente coniugare l’impero della legge e l’anarchia degli spiriti: ma oggi l’impero della legge è in declino, mentre si gonfia l’anarchia degli spiriti.

Occorre restaurare l’impero della legge. Ma questo progetto resta una vuota intenzione, se non si radica in una forza, e dunque su un patto sociale democratico. La forza dello stato deve venire, per riprendere Kant, da una “società civile che faccia valere universalmente il diritto”. Se si sfalda questo consenso di fondo e fondante, lo stato soccombe alle forze eversive degli “spiriti animali” (quelli che, per esempio, ha coltivato il nostro presidente Berlusconi, seguendo, peraltro, una tradizione complessa di “colture”, che innesta, a volte, la “spiritualità” della Chiesa a varie altre “animalità”, in qualche caso di grande appetito e piuttosto feroci).

Ecco perché non avviene per caso che, davanti alla crisi, i paesi che hanno scritto il loro patto sociale con il welfare continuino a tenere bene, siano in grado di fare pagare le tasse, non abbiano di fatto fenomeni di corruzione e possano garantire ai loro cittadini una buona qualità della vita.

E qui torniamo alla Grecia (e, soprattutto, all’Italia). La pochezza del welfare state non è altro, in Grecia come nei paesi che le sono assimilabili, che l’altra faccia della sovrapposizione di politica ed economia che si è creata nel vuoto dello stato. I paesi come la Grecia o l’Italia sono in difficoltà (contagio o meno) perché scontano un problema politico prima ancora che economico: si trovano davanti alla “cattiva infinità” di una spesa che non crea nulla, perché alimenta solo, circolarmente, una burocrazia politica imbelle e una società civile sempre più fragile.

Le analogie tra la Grecia e l’Italia sono evidenti e impressionanti. E se anche i parametri economici, sul filo del rasoio, sono a nostro favore, il problema politico rimane. Quando “The Guardian” scrive (14 febbraio 2010) che l’”economia poteva essere migliorata con aggiustamenti fiscali, ma un governo conservatore (…) ha preferito le vecchie maniere, spesso corrotte” e, “anziché fare le riforme”, ha continuato “la tradizione di vecchia data di offrire posti di lavoro in cambio di voti”, portando in questo modo “lo spreco dello stato a nuovi record”, non sta descrivendo la situazione italiana, ma quella della Grecia.

Se poi leggiamo quello che scrive Pavlos Nerantzis sulla crisi greca, scopriamo di nuovo una fenomenologia famigliare: “I dipendenti pubblici ce l’hanno con quelli del settore privato. ‘Noi siamo gli unici a pagare le tasse, mentre loro evadono’, dicono. I liberi professionisti sono arrabbiati con quelli del settore pubblico, considerandoli responsabili della crisi economica, ‘o perché non lavorano, o perché sono stati assunti grazie ai loro rapporti clientelari con un parlamentare’. Il clientelismo, che ha fatto ingigantire il settore pubblico, gonfiando anche il debito, l’evasione fiscale (15 miliardi di euro all’anno con un’economia sommersa pari al 25-30% del Pil), gli scandali e la corruzione, che parte dal parlamentare mai incriminato grazie alla legge sulla immunità parlamentare e arriva alle bustarelle che caratterizzano quasi ogni operazione dei cittadini con lo stato, sono le cause principali di questa crisi ellenica”. (“Il Manifesto”, 6.5.2010)

Quella che qui viene descritta non è – ovviamente – una “economia keynesiana”. L’economia keynesiana, infatti, non crea un rapporto di dipendenza tra il politico e il beneficiario di sussidi o di lavoro; al contrario, rende indipendente il beneficiario dalla politica. Con vantaggio morale, politico ed economico di tutti.

La rigidità dei parametri di Maastricht, che rigidi sono davvero, da questo punto di vista specifico, però, non rappresenta un limite a una politica espansiva, ma a una politica clientelare. Del resto, i 300 miliardi di evasione fiscale italiani non offrirebbero una risorsa per una politica espansiva? Il punto è che non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che la politica keynesiana bisogna saperla fare. Ovvero: bisogna avere le condizioni politiche per farla. Non la si può mettere nelle mani, per esempio, di una massa di ladri di galline. Anche perché qui non si tratta solo di ladri di galline.

La pratica di utilizzare le risorse pubbliche per comprare il consenso, costringendo la collettività a legare la propria sorte a quella di una classe politica corrotta, inetta e distruttiva, è una strategia politica, che ha uno scopo legato allo sfascio: rendere impossibile le riforme sociali, attraverso l’accumulazione del debito e l’esplosione del deficit, creando dei ceti di potere uniti dal comune denominatore della corruzione, e, sull’altro lato, una folla di clientes (come era in epoca romana).

La grandissima corruzione di oggi avvelena i pozzi mentre, al tempo stesso, determina l’arricchimento personale degli avvelenatori, dando loro un potere difficilmente scardinabile, anche perché corrompe lo stesso tessuto sociale. Lo stato corrotto che è anche corruttore. La gravità della crisi è data dal “fatto compiuto”. Alle prossime generazioni, in Grecia, ma anche in Italia, non resterà che attaccarsi al tram. Il futuro è già ipotecato.

Non stiamo discutendo una questione di estetica o di bon ton. Un’eventuale nuova classe dirigente (che comunque non c’è) dovrebbe avere una forza politica titanica per rimettere il paese in asse. Peraltro, dopo Berlusconi vedrete che salterà fuori dal cilindro (già adesso se ne indovinano i movimenti di truppe) un’idea per “cambiare” in modo che tutto resti uguale (del resto lo stesso Berlusconi nasce da questa logica).

Gli interessi in gioco contro la democrazia liberale sono, in Italia, fortissimi; lo dicono i 300 miliardi di evasione, gli interessi più o meno “spirituali” della Chiesa, il peso delle corporazioni, per arrivare a tutte le voci dello sfascio che conosciamo bene. Siamo un paese pesante, incapace di liberarsi da se stesso; e dunque andiamo a fondo, anche se possiamo rallentare la nostra caduta attraverso le manovre correttive.

Con l’implosione della liberaldemocrazia nei paesi che liberaldemocratici lo erano solo di facciata (e dove, a ben vedere, spesso il fascismo ha continuato a vivere sotterraneamente di metamorfosi, perché non ci dobbiamo dimenticare che la maggior parte dei paesi cosiddetti “pigs” vengono da una recente dittatura), oltre alla classica “distinzione dei poteri”, se n’è andata (in realtà non c’è mai stata) anche la distinzione tra ceto politico ed economia, con risultati devastanti. Nel vuoto della legalità, che è vuoto di stato e di società civile, si è radicata l’economia canaglia: il sommerso, l’evasione, il clientelismo.

Tanto la speculazione finanziaria anarchica quanto la corruzione endemica sono espressioni di qualcosa di più che una generica “mancanza di regole”. Sono l’espressione di una liberaldemocrazia svuotata. Il sistema giuridico e di valori della società borghese ha assunto un carattere di mera parvenza. Le forme giuridiche, la rappresentazione etica del lavoro, la proprietà e la sua proiezione politica, il carattere territoriale e nazionale della produzione della ricchezza, sono tutti elementi che oggi sono profondamente mutati. Oggi ci sono le borse, i mercati “in crisi di fiducia” e la finanza.

L’economia non sembra legarsi più in modo stretto alla liberaldemocrazia. Questo sostiene John Kampfner nel suo libro Libertà in vendita. Come siamo diventati più ricchi e meno liberi (Laterza, 2010): la libertà pubblica è stata in molte parti del mondo consensualmente rimossa in nome del guadagnare denaro. Quello che John Kampfner non considera è, però, che questo modello ad un certo punto arriva alla bancarotta morale, politica, ed economica. Lo schema liberale resta, a mio avviso, fermo: se manca libertà (e giustizia) cade anche l’economia.

Al di fuori del quadro liberaldemocratico, che solo alcuni paesi con una forte coesione nazionale riescono a tenere, assistiamo allo sviluppo dei fenomeni di disgregazione di cui, nel mondo occidentale, l’Italia è un esempio. Da noi cresce la mafia, che è una forma di accumulazione originaria che non diventa mai borghesia (non può diventarlo). Parallelamente, cresce una borghesia che è in realtà una pseudoborghesia, o una post-borghesia (che però non è mai stata borghesia, avrebbe detto Gobetti), che non riesce a fare a meno di essere, in senso lato, “mafia” (nel senso che non riesce a non “fare sistema”, a non dipendere da connessioni politiche e appoggi trasversali, dal fare monopolio).

Se vogliamo veramente capire che cosa ci deve insegnare la crisi greca non possiamo, in conclusione, eludere la domanda sulla natura del potere che ci governa, e sulla sua radicale distanza dall’Europa migliore. Invece, lo specchio, pur a portata di mano, pur riflettente le nostre fattezze in forme perfettamente riconoscibili, non ha prodotto quel “contagio” che veramente si sarebbe dovuto produrre. In Grecia hanno falsificato i bilanci: qui sono anni che si falsifica la storia.

Ma la finanza internazionale vede quello che da noi non si vuole vedere; la questione del “contagio” non è soltanto un’immagine, perché è la percezione di problemi che da noi sono negati. La solita cintura sanitaria mediatica non ha permesso, appunto, che ci riconoscessimo nella tragedia della Grecia. Per rimanere nell’immagine della tragedia greca, qui manca il “coro” di un’opinione pubblica severa, anche perché manca una borghesia vera.

Possiamo dire che il pericolo è finito se l’Italia non verrà attaccata dalla speculazione? Solo in parte: perché i problemi comunque restano. Comunque chi è giovane pagherà il prezzo di tutto questo, a meno di non essere messo in salvo dal papà o dai suoi amici, o dal partito o dalla Chiesa. Se la speculazione non ci attacca, sicuramente trasformeremo lo scampato pericolo, appena sul ciglio del burrone, in una nostra autopromozione, in una virtù nazionale. E tutto continuerà come prima.

Ma l’Italia è distrutta, e per questo è difficile stare dentro la moneta unica. Limes titola che l’euro è una moneta senza stato. Ma in realtà è lo stato che in alcuni casi si è dissolto e solo in altri (r)esiste. Del resto, lo scenario che la rivista lumeggia per il futuro, ovvero quello di un super-euro solo per alcuni paesi…, riprodurrebbe tale e quale la situazione di una moneta senza stato. Anzi, il paradosso sarebbe accentuato, perché avremmo un’Unione Europea con due monete, una mediterranea (con sopra magari l’effige di un pig grugnante), e una nordica.

Entrambe senza uno stato, però. Non solo, entrambe farebbero riferimento a un’unica realtà politica, l’Unione europea stessa. È più logico pensare che la suggestione, o tentazione, delle due monete non venga dal bisogno che la moneta abbia uno stato, ma dalla necessità di avere una moneta sorretta quantomeno da stati, laddove oggi solo una parte degli stati europei sono stati. Italia e Grecia, per esempio, non lo sono più. E infatti non riescono a riscuotere i tributi (che è, come si sa, una delle funzioni essenziali che definiscono uno stato). Il trasferimento di sovranità da parte degli stati europei non può fare a meno di considerare questo punto.

Non si può non vedere che il caso greco segna l’emergere di un problema più generale, che esisteva già, e che coinvolge direttamente il nostro paese, a prescindere da quali vie prenderà la speculazione finanziaria. L’Europa contiene dentro di sé dei paesi che hanno forme di potere del tutto opposte, società tra le più avanzate del mondo (dove ad esempio l’eutanasia è legge dello stato), accanto a paesi dove la corruzione va al galoppo e l’opinione pubblica applaude, la Chiesa comanda. Possono questi due poteri continuare a convivere? Un tempo c’era il muro di Berlino, il comunismo del blocco sovietico, non si parlava di globalizzazione… Ma adesso?

Per unire le “due Europe” – riedizione aggiornata delle “due Italie” di Giustino Fortunato – è necessario uno sforzo politico che l’Italia, non esistendo più, non è in grado di fare.