Paura e speranza a Kandahar

di Enrico Piovesana
da www.peacereporter.net

Ventitremila soldati – statunitensi, canadesi e afgani – si stanno preparando all’operazione Omaid (Speranza, in lingua dari), con la quale le forze alleate puntano a riconquistare i distretti rurali che circondano la città di Kandahar, in particolare le roccaforti talebane di Zhari, Panjwai e Arghandab, e a ‘mettere in sicurezza’ lo stesso capoluogo, dove verrà dispiegata una brigata dell’esercito Usa (3.500 uomini) e 7 mila poliziotti afgani.

L’offensiva dovrebbe scattare tra un mese, ma le forze speciali Usa stanno già conducendo operazioni mirate volte a eliminare i comandanti locali della guerriglia e a interrompere le linee di rifornimento talebane.
Gli insorti, dal canto loro, si preparano all’attacco facendo fuori esponenti chiave delle forze di sicurezza afgane e informatori al servizio della Nato, minando strade e ponti e facendo affluire centinaia di combattenti dalle province vicine.

La popolazione locale vive in un clima di angosciosa attesa. ”Non sappiamo se questa operazione sarà un bene per noi”, dice alla Reuters un negoziante del bazar centrale di Kandahar: ”Quel che è certo è che tanta gente innocente verrò uccisa e ferita, o dovrà abbandonare la propria casa”. Una certezza condivisa dalla Croce Rossa Internazionale, che per questo ha potenziato di cento posti letto la ricettività dell’ospedale cittadino, il Mirwais Hospital: l’unico rimasto operativo nella regione meridionale dopo la chiusura dell’ospedale dell’ospedale di Emergency a Lashkargah.

La paura più grande paura degli abitanti di Kandahar è che i combattimenti non si limitino ai sobborghi rurali e che la guerra entri in città assieme alle truppe Usa e ai talebani in fuga dalla loro avanzata. L’ipotesi di una guerriglia urbana spaventa anche i soldati alleati, ma i comandi Nato non la escludono. Certo è che ”più soldati stranieri in città porteranno più attentati e più vittime civili”: ne è convinta la popolazione locale, ma anche i responsabili delle Nazione Unite, che per precauzione hanno evacuato dalla città tutto il personale straniero e blindato le proprie sedi locali.

Secondo un anziano capo pashtun della zona, Haji Abdul Haq, intervistato dal Guardian, ”la nostra gente non vuole la guerra, vuole solo vivere in pace e in sicurezza e non gli importa se a darle questo sono gli stranieri o i talebani”.
Il problema di queste grandi offensive alleate contro i talebani sta tutto qui: se sono le truppe straniere a portare la guerra, la battaglia per ‘conquistare il cuore e le menti’ della popolazione è persa in partenza, perché la gente percepisce gli stranieri, non i talebani, come causa di tutti i loro guai. A Kandahar con l’operazione Omaid rischia di ripetersi, su più vasta scala, quanto accaduto a Marjah, in Helmand, con l’operazione Moshtarak.

Secondo un sondaggio condotto a marzo su centinaia di residenti di Marjah dai ricercatori del noto think thank International Council on Security and Development (Icos, ex Senlis Council), il 61 per cento degli intervistati ha dichiarato di avere oggi un’opinione sulla Nato peggiore rispetto a prima dell’offensiva, il 71 per cento vuole il ritiro dei militari stranieri, e il 95 per cento sostiene che adesso i talebani stanno reclutando più giovani locali di prima.
Una reazione, spiega il rapporto Icos, frutto delle sofferenze patite dalla popolazione di Marjah per colpa delle truppe straniere: almeno 200 civili uccisi dalle bombe alleate (la stessa cifra riportata a febbraio da PeaceReporter), migliaia di feriti e circa 30 mila sfollati.

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Il pantano afgano

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org

A conferma del progressivo deteriorarsi della situazione in Afghanistan per le truppe della NATO, è giunto la settimana scorsa un dettagliato rapporto del Pentagono commissionato dal Congresso americano. In 150 pagine, sono stati gli stessi analisti del Dipartimento della Difesa a mettere impietosamente in evidenza la crescente espansione dell’influenza talebana nel paese e la scarsa fiducia della popolazione civile nel governo-fantoccio del presidente Hamid Karzai.

Lo studio del Pentagono, nonostante lasci comprensibilmente intravedere qualche spiraglio per le forze alleate occidentali, contraddice in maniera lampante la retorica dei vertici militari e politici statunitensi sull’efficacia di uno sforzo militare che ha dato il via a nuove sanguinose operazioni negli ultimi mesi dopo l’aumento di truppe voluto da Obama. Una volta perfezionata la strategia della Casa Bianca entro il prossimo mese di agosto, saranno infatti circa 30 mila i soldati che raggiungeranno l’Afghanistan, portando a centomila il totale degli americani impiegati.

La valutazione interna arriva in seguito all’offensiva lanciata dagli USA nella provincia meridionale di Helmand e alla vigilia di una nuova e più imponente operazione attorno alla città di Kandahar, vera e propria capitale spirituale dei Talebani. Secondo il Pentagono, la prima iniziativa ha ottenuto qualche risultato positivo, anche se gli insorti avrebbero immediatamente infiltrato loro uomini nelle strutture locali, persuadendo gran parte della popolazione a non collaborare con il governo afgano e l’esercito occupante.

Proprio nelle regioni meridionali del paese, i talebani godono di un vasto supporto tra la popolazione, tanto che il rapporto ammette che qui il movimento di resistenza difficilmente potrà essere sconfitto del tutto. Piuttosto, nella migliore delle ipotesi, sembra ci si dovrà accontentare di contenerlo nel lungo periodo, per evitare che minacci l’esistenza stessa del governo Karzai. Significativamente, tra i 121 distretti afgani più importanti al fine della stabilizzazione del paese, in ben 92 la popolazione risulta complessivamente ben disposta verso i Talebani.

Questi ultimi, oltre a mostrare un livello di sofisticazione sempre maggiore nel condurre le proprie operazioni di guerriglia, non si limitano ad intimidire le popolazioni locali. Bensì, i governatori-ombra da loro designati, contribuiscono a garantire un certo grado di giustizia e qualche servizio sociale in aree dove il governo centrale è pressoché totalmente assente.

Sfruttando la frustrazione diffusa tra la gente comune, i Talebani trovano inoltre terreno fertile per reclutare forze nuove nella loro battaglia contro gli occupanti. A ciò vanno aggiunte le accuse – quasi sempre fondate – rivolte verso la corruzione dilagante tra i rappresentanti delle istituzioni locali e del governo di Kabul. Accuse che vengono propagate in maniera massiccia grazie a efficaci campagne di informazione e propaganda.

In risposta, almeno in parte, all’aumento del contingente NATO in Afghanistan, tra febbraio 2009 e marzo 2010 il livello di violenza è aumentato poi addirittura dell’87%. Da parte americana, come se non bastasse, ci si attendono ulteriori passi avanti da parte dei ribelli nell’impiego dei cosiddetti “Ordigni esplosivi improvvisati” (IED) nei prossimi mesi. I Talebani hanno d’altra parte facile accesso ad armi ed esplosivi vari, così da potersi assicurare “efficaci mezzi” di sussistenza per le loro operazioni militari.

Un punto molto controverso del rapporto del Pentagono riguarda invece il numero di decessi causati dalle forze occupanti. Secondo gli americani, le vittime civili afgane sarebbero diminuite nell’ultimo anno, mentre la maggior parte di esse avverrebbe perché i Talebani utilizzano i civili stessi come scudi umani. Secondo alcuni media americani, tuttavia, i primi mesi del 2010 avrebbero fatto segnare un drammatico aumento delle vittime civili causate dai militari americani e dai loro alleati. Esse sarebbero state 87 durante i primi tre mesi del 2010, contro le 29 dello scorso anno durante lo stesso periodo di tempo.

Alla luce delle recenti rivelazioni sui ripetuti tentativi di insabbiamento delle stragi compiute dalle forze NATO ai danni di civili – donne e bambini compresi – c’è da ritenere peraltro che tali cifre siano abbondantemente sottostimate. La questione risulta di cruciale importanza, poiché la morte di civili innocenti si traduce in ulteriore avversione nei confronti degli americani e in sostegno per gli insorti. Tanto più che all’indomani della nomina a comandante delle forze alleate in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, lo scorso anno aveva individuato nel contenimento del numero delle vittime civili l’obiettivo prioritario per costruire un rapporto di fiducia con la popolazione locale.

Mentre i vertici militari alleati promettono che a breve ci saranno inevitabilmente altre numerose vittime nelle operazioni a Kandahar, suscitando così nuove ostilità verso gli americani, il Pentagono si aspetta progressi da parte dei Talebani anche in aree del paese dove nel recente passato la loro presenza era stata relativamente modesta. Si tratta delle province dell’Afghanistan settentrionale e occidentale, dove la strategia dei ribelli sarà mirata a ridurre la partecipazione alle elezioni per il rinnovo del parlamento previste per il prossimo settembre.

A completare una valutazione decisamente più negativa rispetto alle analisi del recente passato, il Dipartimento della Difesa americano ha infine lanciato segnali poco incoraggianti anche per quanto riguarda le prospettive delle forze di sicurezza afgane. L’addestramento dell’esercito e della polizia locali rappresentano un momento fondamentale per procedere con un eventuale ritiro delle truppe della NATO, come chiedono da tempo gli elettori occidentali ai loro governi. Gli sforzi per la creazione di un esercito nazionale efficiente hanno prodotto però progressi molto modesti nell’ultimo anno, rendendo tuttora indispensabile la presenza nel paese delle forze NATO ai fini della sopravvivenza stessa del fragile e screditato governo Karzai.