Il coraggio della novità

di Alessandro Esposito, pastore della Chiesa Valdese di Trapani-Marsala
Domenica 9 Maggio 2010

«Tutta la comunità degli israeliti levò l’accampamento dal deserto di Sin, secondo l’ordine che il Signore dava di tappa in tappa, e si accampò a Refidim. Ma non c’era acqua da bere per il popolo (…) In quel luogo il popolo soffriva la sete per mancanza d’acqua; il popolo allora mormorò contro Mosè e disse: “Perché ci gai fatti uscire dall’Egitto? Per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”. Allora Mosè invocò l’aiuto del Signore, dicendo: “Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!”. Il Signore disse a Mosè: “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani di Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo e va’. Ecco, Io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb. Tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà» (Esodo 17:1-6)

«Ora tutta la comunità degli israeliti arrivò al deserto di Zin (…) Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: “Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto: per far morire noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? (…) Allora Mosè e Aronne si allontanarono dalla comunità per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e apparve loro la gloria del Signore. Il Signore disse a Mosè: Prendi il bastone e tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità; alla loro presenza parlate a quella roccia ed essa farà uscire l’acqua (…) Mosè prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. Mosè e Aronne convocarono la comunità davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: faremo noi uscire per voi acqua da questa roccia?”. Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone e ne uscì acqua in abbondanza (…) Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete avuto fiducia in me (…) voi non introdurrete questa comunità nel Paese che io le darò”» (Numeri 20:1-12)

Circa due settimane fa è uscito nelle sale cinematografiche italiane il film Agorà, del regista ispano-cileno Amenábar: la pellicola racconta la storia, in verità poco nota, di una filosofa di nome Ipazia, che viveva in Alessandria d’Egitto tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo. Da tutti stimata per la sua profonda erudizione e per la sua statura morale, Ipazia si trovò a vivere in un’epoca di delicata transizione: dalla cultura ellenistica alla progressiva affermazione nel bacino mediterraneo del cristianesimo primitivo. Alla scuola del pensiero greco Ipazia si era formata, ereditandone l’estrema libertà per tutto ciò che riguardava lo studio delle scienze e dei fenomeni naturali.

Era una ricercatrice, Ipazia: curiosa, intelligente, mai sazia. Si interrogava, dubitava, stilava ipotesi che poi valutava e che, a seconda dei casi, comprovava o confutava. Così le era stato insegnato: il pensiero non conosce limiti nel suo libero esercizio. Va allenato, nutrito, coltivato. È però consapevole, il pensiero, della sua fallibilità, della necessità di subire trasformazioni costanti alla luce dell’esperienza e delle riflessioni che essa suscita: chi ha imparato la difficile fatica del pensare sa rimettere in discussione convinzioni ed acquisizioni, sa tornare su un ragionamento e verificare dove, eventualmente, scricchiola, è disposto a riformulare ipotesi e a ridefinire presunte e sempre provvisorie conclusioni.

Questo è il mondo dal quale proviene Ipazia. Intorno a lei, però, si sviluppa un movimento che, seppur presente già da secoli nella sua città, adesso è in forte ascesa. Li chiamano «cristiani» e vengono da una costola di quell’ebraismo che in Alessandria vanta una tradizione millenaria. Qualcuno di loro è anche suo allievo e segue con diligenza le lezioni di matematica, geometria e astronomia: la convivenza tra cristiani, ebrei e pagani è pacifica, lo studio delle discipline scientifiche è un qualcosa che li accomuna, al di là delle legittime e niente affatto problematiche differenze di credo. Ma qualcosa di nuovo sta accadendo: più in particolare, due cose.

A livello imperiale, la religione cristiana, dapprima perseguitata, è stata in un primo momento tollerata con l’editto di Costantino del 313 e poi, persino, dichiarata «religione ufficiale dell’impero»: aveva, insomma, trovato il suo accomodamento con il potere, divenendo, in tal modo, elemento chiave per il controllo sociale e per la repressione del dissenso. Soltanto adesso, infatti, vengono convocati i primi concili ecumenici, che hanno lo scopo di uniformare la dottrina e di individuare chi se ne discosta, catalogandolo come «eretico».

A livello locale, si afferma in Alessandria un’interpretazione settaria e fondamentalista del cristianesimo, portata avanti da una corrente detta dei «parabolani», del cui appoggio si servirà il vescovo Cirillo per consolidare la sua posizione di potere. Cirillo, in seguito proclamato santo, nonché «padre e dottore della chiesa», si distinse per la sua radicale intolleranza: scacciò da Alessandria gli ebrei che vi risiedevano da secoli e combatté ostinatamente ogni manifestazione del libero pensiero.

Pensare in modo indipendente, si sa, rappresenta un rischio agli occhi di chiunque intenda esercitare il potere senza contraddittorio; motivo per cui Cirillo, come attestato in più di una fonte tardo-antica, decise di eliminare Ipazia: classico espediente a cui ricorre chi è a corto di argomenti.

Ipazia fu dunque vittima di un fanatismo cristiano niente affatto estintosi: ancora oggi sono tutt’altro che inconsueti gli anatemi lanciati contro l’esercizio libero e creativo del pensiero in ambito di fede. Chi crede, secondo alcuni (ma, ahimè, temo di dover dire: secondo i più), deve anestetizzare la riflessione e reprimere la fantasia: il suo solo compito è quello di obbedire, senza porsi troppi interrogativi, che hanno il solo scopo di farci tergiversare e vacillare; e senza lasciarsi attraversare dal dubbio, che dalla fede allontana irrimediabilmente. Peccato, però, che chi non dubita e non si interroga non pensa; e questo sembrano volere alcuni: una fede estranea al pensiero, quando non addirittura contraria. Una fede che si traduca in obbedienza cieca e ottusa, in pedissequa ripetizione di quanto non va in alcun modo messo in discussione.

A tale proposito ho trovato estremamente significativa la narrazione biblica che abbiamo letta insieme quest’oggi e che, assai curiosamente, figura nella Torah due volte. Spesso i commenti si soffermano sulla disobbedienza di Mosè al comando divino ed individuano proprio in questa disobbedienza la causa del divieto di ingresso in terra d’Israele che Dio sancirà per il più grande dei profeti del Suo popolo. Ma affiancando i due testi, quello contenuto nel libro di Esodo/Nomi e quello narrato in Numeri/Nel Deserto, può emergerne un’interpretazione diversa.

È quanto suggerisce, con estremo acume, il mistico ebreo Jaime Barilko che, commentando insieme i due episodi, annota:

«Mosè venne castigato a causa di questa disobbedienza: gli avevano detto che parlasse alla roccia, ma egli la percosse. Non compì il comandamento divino. Per questo venne castigato: non sarebbe entrato insieme con il popolo nella terra promessa, dall’altro lato del fiume Giordano.
Mi sono sempre domandato: è stato così grande il suo peccato? Così fanatico, rigoroso e permaloso deve essere Dio? In che cosa consisteva il tremendo male commesso da Mosè? E mi rispondevo, ogni volta: no, non può trattarsi della disobbedienza in se stessa. Per questa avrebbe meritato un rimprovero, tuttalpiù (…) E dicevo sempre a me stesso: approfondiamo. Sono certo che debba eserci una causa più profonda (…) Alcuni anni dopo trovai tracce di una risposta negli scritti del cabalista Iosef Gicatilla. Il peccato di Mosè non fu percuotere anziché parlare. Questa era l’apparenza. In realtà, in Mosè ha dovuto sostenere una lotta interiore tra due voci. Una, la voce presente di Dio, gli diceva: “Parla alla roccia”. L’altra, la voce del serpente, quella del sapere codificato e archiviato, gli suggeriva: “Non rischiare nuovi esperimenti! L’hai già fatto una volta, e ti è riuscito bene: quella volta percuotesti la roccia. Non fare nulla di nuovo: torna a percuotere, che è più sicuro. Mantieniti nell’abitudine» (da: La cabala de la luz, Emecé, Buenos Aires, 1996, pp. 53-54).

Il peccato, ciò che Dio non approva nel gesto di Mosè, non risiede nella disobbedienza al comandamento, ma nella ripetizione di quanto viene considerato efficace ed indiscutibile. Non osare, ma limitarci a ripetere: questo è il torto che facciamo a Dio e a noi stessi, ogni volta che alla fede togliamo creatività in nome di quanto riteniamo certo perché consolidato.

Ipazia non volle ripetere: osò la novità, come il suo stesso cuore la spingeva a fare, irrimediabilmente e liberamente. Intuì, a quanto sembra, quello che la scienza arrivò a scoprire soltanto mille e duecento anni dopo, con gli studi di Keplero: che era la terra a girare intorno al sole e non viceversa, come invece tutta l’astronomia del tempo sosteneva, ritenendola un’acquisizione incontrovertibile. Eppure Ipazia ebbe il coraggio di sfidare quell’evidenza che tanti, accontentandosi, adducevano come prova inconfutabile a sostegno di convinzioni radicatesi nelle menti e nei cuori a suon di ripetizioni.

Per fedeltà all’inviolabilità del libero pensiero e della libera espressione, Ipazia morì, vittima di un fanatismo che propose, come ricetta utile soltanto alla schiavitù delle coscienze, la comodità dell’abitudine, che mette al riparo dalla fatica della riflessione. Per questo non dobbiamo dimenticare: e ti portiamo viva nei cuori, Ipazia, maestra di libertà, prezioso antidoto contro il fanatismo che, ancora, percorre la terra e gli uomini, alimentando quell’ignoranza che tu hai combattuto, consapevole del fatto che essa non genera se non ottusità e violenza.