Chiesa cattolica. Scandali, tensioni e poi… un Concilio?

di David Gabrielli
da www.confronti.net

L’esplosione dello scandalo delle violenze sessuali contro minori di una parte pur minoritaria del clero ha portato alla luce un più ampio problema: il disagio profondo per la persistente scelta di Benedetto XVI di dare una interpretazione minimalista del Vaticano II. Perciò cresce l’onda che reclama un nuovo Concilio.

Al giro di boa del quinto anno del suo pontificato, e dei suoi (il 16 aprile) 83 anni, i problemi ereditati dal predecessore e anche da Benedetto XVI lasciati irrisolti, o da lui ulteriormente aggrovigliati, hanno subìto un’imprevista accelerazione a causa del venire prepotentemente alla luce della vicenda dell’insabbiamento programmatico degli abusi sessuali su minori compiuti da un limitato ma pur sempre significativo numero di presbìteri. Una situazione critica aggravata dal fatto che, pur fortemente deprecando i «delitti» compiuti, i massimi dirigenti della Curia romana si sono schierati a difesa dell’istituzione-Chiesa, tuonando contro le ipotizzate «calunnie anticattoliche».

In principio fu Ratzinger o fu Wojtyla?

Alla radice del clamore per la vicenda della «pedofilia del clero» – ma sarebbe più preciso parlare di pederastia o di «violenze sessuali su minori» – sta il fatto che, scelto da Giovanni Paolo II, dal 1981 al 2005 il cardinale Joseph Ratzinger fu alla guida della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf), e quindi la persona che più di ogni altra poteva sapere dei casi di preti «pedofili» nelle varie diocesi del mondo. I suoi difensori, tuttavia, notano che solo dal 2001 egli ebbe davvero in mano la situazione.

Il 30 aprile di quell’anno, infatti, papa Wojtyla firmava il motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela con il quale promulgava le norme circa i delitti più gravi da riservarsi alla Cdf. Il 18 maggio successivo, Ratzinger insieme al segretario del dicastero, monsignor Tarcisio Bertone, inviava ai vescovi cattolici la lettera Ad exsequendam a precisazione «de delictis gravioribus», i «delitti» – così il Codice di diritto canonico denomina i «reati» – più gravi la cui trattazione veniva tolta ai singoli vescovi e affidata alla Cdf. Si trattava di otto «delitti»: quattro contro la santità dell’Eucaristia (come la profanazione delle ostie); tre contro il sacramento della penitenza (tra cui l’assoluzione del complice in un peccato contro il sesto comandamento, o la sollecitazione a violarlo); e, infine, «il delitto contro il sesto comandamento del decalogo, commesso da un chierico con un minore di 18 anni». Per quest’ultimo «delitto» il computo della prescrizione iniziava quando il minore compiva 18 anni; per gli altri cadeva dopo dieci anni. «Tutte queste cause sono soggette al segreto pontificio», precisava la lettera.

Questi documenti ignorano l’obbligo o il consiglio, ai vescovi, di deferire i chierici «pedofili» alla magistratura civile. Dunque Wojtyla, Ratzinger e Bertone decisero di emanare norme tendenzialmente miranti ad occultare, al mondo esterno, il «delitto di pedofilia del clero», o come tali facilmente interpretabili. Altro punto dolente dei documenti del 2001 è l’aver messo nello stesso cesto «delitti» di diversissimo genere. Infatti, la violenza sessuale su minori è un reato per le leggi civili, mentre tale non è, ad esempio, la profanazione delle ostie (nessun tribunale civile potrebbe punire con anni di prigione chi getti per terra pezzi di pane – tali sono le ostie, per chi non sia tenuto alla interpretazione teologica delle Chiese). Perciò le leggi della Chiesa romana potrebbero punire, supponiamo, anche con la scomunica il chierico pederasta; ma questa sarebbe una pena canonica «supplementare» che non riguarderebbe lo Stato.

Sullo sfondo sta la tesi che le leggi della Chiesa romana sulle «questioni miste» (con un risvolto civile e uno ecclesiastico) debbano comunque prevalere su quelle civili. Un’idea risalente a secoli fa, e concretizzata, allora, se e dove per il papato era possibile, con il riservare infine all’Inquisizione romana certi «delitti» del clero, in tal modo sottraendoli alla giustizia civile. Del resto, a dare l’interpretazione autentica del testo ratzingeriano del 2001 è stato lo stesso Bertone in una intervista a 30giorni nel febbraio 2002.

Domanda: «A queste nuove Norme, soprattutto da parte laica, è stata fatta una obiezione: perché un vescovo che viene a conoscenza del comportamento di un proprio sacerdote, delittuoso per la Chiesa ma anche per l’autorità civile, non ne deve informare la magistratura civile?». Risposta: «Le Norme si trovano all’interno di un ordinamento giuridico proprio, che ha un’autonomia garantita, e non solo nei paesi concordatari. Non escludo che in particolari casi ci possa essere una forma di collaborazione, qualche scambio di informazioni, tra autorità ecclesiastiche e magistratura. Ma, a mio parere, non ha fondamento la pretesa che un vescovo, ad esempio, sia obbligato a rivolgersi alla magistratura civile per denunciare il sacerdote che gli ha confidato di aver commesso il delitto di pedofilia. Naturalmente la società civile ha l’obbligo di difendere i propri cittadini. Ma deve rispettare anche il “segreto professionale” dei sacerdoti, come si rispetta il segreto professionale di ogni categoria, rispetto che non può essere ridotto al sigillo confessionale, che è inviolabile».

Schönborn: bene Ratzinger, ma Wojtyla…

Dati questi precedenti, era ovvio che – dopo la bufera scoppiata, o ri-scoppiata, tra febbraio ed aprile, per i casi di pedofilia del clero in Irlanda, Stati Uniti d’America, Canada, Italia, Germania ed Austria – da più parti si tirassero in campo Ratzinger e Bertone, il primo diventato papa il 19 aprile 2005, il secondo da lui nominato segretario di Stato l’anno dopo; anche invocando le loro dimissioni. E qui si inserisce un altro scenario.

Infatti, a difendere Ratzinger è sceso in campo l’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schönborn, successore del cardinale benedettino Hans Hermann Groër, che nel 1986 era stato scelto da Wojtyla come nuovo arcivescovo di Vienna, al posto del dimissionario Franz König, uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II. Quest’ultimo, e con lui la gran parte dei fedeli della diocesi, desiderava che a succedergli arrivasse un «progressista», ma il pontefice, deciso a normalizzare la vivace Chiesa austriaca, autoritativamente impose il monaco, noto «conservatore».

Ma nel ’95 alcuni ex seminaristi accusarono il prelato, sostenendo che egli, da monaco, negli anni Settanta, aveva abusato di loro giovincelli. Si aprì così a Vienna una situazione deflagrante, che rimbalzò nella Curia romana: qui – afferma oggi Schönborn – Ratzinger voleva un formale processo contro Groër, ma i più preferivano insabbiare il tutto, per non compromettere la credibilità dell’istituzione ecclesiastica. Wojtyla fece sua la tesi «minimalista»: e perciò l’arcivescovo non subì un vero processo, ma – e solo nel ’98 – fu indotto dalla Santa Sede a dimettersi (il che egli fece senza mai ammettere espressamente sue responsabilità) ed a ritirarsi a meditare in un monastero. Gli fu però lasciata la porpora cardinalizia, cosicché se il papa fosse morto prima dell’ottobre 1999 – quando Groër compiva gli 80 anni – nel conclave sarebbe entrato un cardinale pedofilo.

Le rivelazioni di Schönborn dimostrerebbero (il condizionale è d’obbligo, fino a che la questione non sia accertata) un’ulteriore, grave imprudenza di Wojtyla, che perciò solo con una certa «forzatura» potrebbe essere proclamato beato; al contrario, esse proverebbero la buona volontà del cardinale Ratzinger di ripulire la «sporcizia» della Chiesa romana, impresa impeditagli dal papa allora regnante.

La scomposta difesa della Curia romana

In questo sfondo si collocano gli ultimi eventi. Il 19 marzo Benedetto XVI ha scritto una lettera ai vescovi d’Irlanda ribadendo, con severissime parole, l’esigenza di estirpare la pedofilia del clero che, nell’isola, ha provocato un terremoto, ed obbligando a dimettersi alcuni prelati colpevoli di aver tollerato preti pedofili. Intanto in Germania ci si chiedeva se, da arcivescovo di Monaco (dal 1977 all’81), Ratzinger avesse ammesso, o no – Roma afferma il no – ad esercitare il ministero pastorale un prete di un’altra diocesi, accusato di pedofilia.

Negli Stati Uniti è stata resa nota una lettera del prefetto della Cdf, che, interpellato nel 1985 se ridurre allo stato laicale un prete pedofilo di Oakland, rispose di soprassedere. Il mese scorso il predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, nella sua predica in san Pietro, di fronte al papa, il Venerdì santo, ha citato un innominato amico ebreo che in una lettera a lui paragonava l’attacco a Ratzinger per le vicende della pedofilia del clero ad alcuni aspetti dell’antisemitismo. Una citazione che, mescolando due temi del tutto incomponibili, ha provocato le giuste proteste di molte personalità ebraiche.

La Radio vaticana e L’Osservatore romano per tutto aprile hanno riportato dichiarazioni di cardinali (da Camillo Ruini a Carlo Maria Martini!) a difesa del papa, accusando i giornali, o poteri occulti, di aver organizzato una congiura contro il pontefice regnante. A riassumere autorevolmente tali impostazioni è stato lo stesso decano del Collegio cardinalizio, Angelo Sodano, dal 1991 al 2006 segretario di Stato (vedi scheda, pag. 11).

Ma negli Usa il National Catholic Reporter e, in parte, anche America, rivista dei gesuiti statunitensi – due media autorevoli, che si assumono le responsabilità delle loro affermazioni – hanno lanciato un sospetto terribile: sotto Wojtyla, Sodano, e altri con lui (il segretario personale del papa, Stanislaw Dziwisz, attuale cardinale arcivescovo di Cracovia, e lo spagnolo cardinale Eduardo Martínez Somalo, allora camerlengo di Santa Romana Chiesa), in cambio di denaro avrebbero, forse, coperto le ribadite accuse di pedofilia giunte contro Marcial Maciel, il prete messicano fondatore dei Legionari di Cristo; e non solo evitandogli un processo canonico, ma anche facendogli rivolgere dall’ignaro pontefice lodi sperticate. Ratzinger, giunto al pontificato, aprì però il processo e nel 2006 costrinse Maciel a ritirarsi per fare penitenza (l’imputato morirà due anni dopo, e il mondo verrà a sapere che l’«apostolo» era un pederasta, ed aveva diversi figli).

E Bertone? Dal Cile, dove si trovava in visita, il 12 aprile ha difeso a spada tratta la correttezza di Ratzinger, e sua, in merito ai provvedimenti contro la pedofilia del clero; e, poi, negando che vi sia un qualsiasi nesso tra l’obbligo del celibato per i preti latini e la pedofilia del clero, ha invece improvvidamente sostenuto che tale nesso vi è tra omosessuali e pedofili. Un’affermazione respinta con sdegno non solo da gruppi di omosessuali ma anche da ambienti scientifici che l’hanno trovata gratuita ed offensiva. E che lo stesso padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, il 14 aprile è stato costretto in qualche modo a depotenziare!

In Francia, in aprile, la rivista Golias ha aperto un altro fronte: ha pubblicato la lettera con cui nel settembre 2001 il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos, allora prefetto della congregazione del clero, elogiava apertamente il vescovo di Bayeux, monsignor Pierre Pican, che si era rifiutato di denunciare alla magistratura un prete pedofilo, e che per questo era stato condannato a tre mesi con la condizionale. Lombardi si affrettava, il 15 aprile, a dire che quello del porporato non era il punto di vista della Santa Sede; ma il cardinale ribadiva che la lettera da lui scritta a Pican era stata formalmente approvata da papa Wojtyla!

A proposito poi di media: l’establishment vaticano sostiene che la stampa internazionale, dagli Usa alla Germania, ha pervicacemente «esagerato» nei suoi attacchi contro i vertici ecclesiastici sulla questione della pedofilia del clero cattolico. Si può certo criticare l’uno o l’altro articolo, ma è un fatto che è stata la stampa «laica» a sollevare un coperchio che quella controllata dal Vaticano teneva ben chiuso. D’altronde, ci si chiede, perché la Segreteria di Stato per evitare attacchi al papa negli ultimi cinque anni non pensò di affidare a La Civiltà Cattolica uno studio ampio, rigoroso e «obiettivo» sul discusso tema?

Se Ratzinger osasse un nuovo Concilio

In questo clima da apocalisse ecclesiale, i vertici vaticani favoriscono appelli a difesa di Ratzinger, o manifestazioni pubbliche, a Roma, in suo sostegno, quasi che fosse in atto un complotto pretestuoso contro il papato. Sarebbe certo ipocrita occultare il fatto che la maggior parte delle violenze sessuali contro minori avvengono entro le mura domestiche; e oltraggioso ridurre l’attività della Chiesa cattolica ai «delitti» di quella parte, del tutto minoritaria, del clero che è pedofilo (secondo fonti vaticane, dal 2001 ad oggi alla Cdf sono arrivate circa tremila denunce per abusi su minori commessi negli ultimi cinquant’anni; una statistica che, però, ignora i tanti casi mai denunciati!).

Ma è forse questa una buona ragione per non ammettere che finora, in pratica, l’atteggiamento consueto delle gerarchie, rispetto a preti e religiosi che compissero violenze sessuali su minori, era quello di tacitare e nascondere? Di solito (con lodevoli eccezioni, come quella decisa a metà aprile dal vescovo di Teramo, Michele Seccia), il colpevole era spostato da una parrocchia all’altra, e la magistratura veniva tenuta all’oscuro. È proprio questo stile di occultamento strutturale che più ripugna. Il 12 aprile il Vaticano ha però reso noto una «Guida alla comprensione delle procedure di base della Cdf riguardo alle accuse di abusi sessuali» che, tra l’altro, afferma: «Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte».

Questa norma, innovativa, non compare affatto nei documenti del 2001 sulla materia. Il documento originale non è scritto in latino, ma in inglese; non porta né data né firma. Fonti vaticane hanno detto che il testo sarebbe del 2003. Se così fosse, perché da anni esso non era stato reso noto, anche per aiutare le vittime delle violenze sessuali? Perciò alcuni sospettano che l’anomalo testo sia stato redatto, o modificato in tutta fretta, nelle ultime settimane, e retrodatato, per tamponare i passati, indifendibili silenzi vaticani.

L’affanno che regna Oltretevere per lo tsunami sollevato dalla questione delle violenze sessuali dei chierici, e il maldestro tentativo dei vertici curiali (salvo eccezioni) di atteggiarsi a vittime di un complotto sono – a nostro avviso – un paravento per coprire una ben più vasta rete di questioni che, in radice, può riassumersi così: come intendere gli input seminati nella Chiesa cattolica dal Vaticano II? Da anni, e con un crescendo impetuoso, si sono accumulate una serie di questioni «post-conciliari» alle quali Wojtyla ha risposto con no autoritari, tutti puntualmente ripresi da Ratzinger.

Lungo è l’elenco: la scelta di porsi dalla parte degli impoveriti per leggere con essi l’evangelo e cambiare di conseguenza le strutture storiche della Chiesa romana; «come» annunciare Cristo in un mondo religiosamente plurale; la richiesta di dare voce sostanziale alle Chiese locali per la scelta dei loro vescovi; il centralismo della Curia romana; la «ospitalità eucaristica» con le Chiese della Riforma da considerarsi, malgrado il no di Ratzinger, «Chiese in senso proprio»; la manomissione della riforma liturgica avviata dal Vaticano II e il cedimento ai lefebvriani sulla questione della «illuminazione» degli ebrei; il cambiamento – operato nel 2009 dal papa regnante – del canone 1008 del Codice di diritto canonico, così da privare il diacono della «funzione di insegnare, santificare e governare», e perciò aprire la porta alle diaconesse, ma ridotte a chierichette; l’esclusione delle donne dai ministeri e dal governo ecclesiale; il rifiuto di ridiscutere, alla luce delle Scritture, il ruolo dei ministeri ecclesiali e perciò lo status dei presbiteri; una ridiscussione, storica e biblica, della sessualità e della famiglia, con tutti gli annessi problemi – divorzio, aborto, omosessualità, contraccezione, procreazione medicalmente assistita; il rapporto tra l’etica proclamata dalle gerarchie ecclesiastiche e le leggi civili, come nel caso del testamento biologico (caso Englaro docet); l’ammissione all’Eucaristia dei divorziati risposati.

Tale rete di questioni, o anche solo un grumo di esse, esigerebbero di essere affrontate con un dibattito corale, e attuando finalmente la collegialità e la corresponsabilità delineate ma non concretizzate dal Vaticano II. Insomma, si dovrebbe aprire una «stagione dei cento fiori» che in futuro sfoci in un nuovo Concilio generale della Chiesa cattolica romana. Ma Ratzinger e Bertone, con molti altri prelati, sembrano impari ad affrontare un tale compito. Il fatto che il papa a Malta il 18 aprile abbia incontrato alcune vittime della violenza sessuale del clero, esprimendo «vergogna» per quanto da esse subìto e pianto di fronte ad esse, è certo importante.

Ma non bastano questi gesti per rispondere alle sfide incombenti sull’istituzione ecclesiastica. E stupisce che il 19 aprile il papa abbia celebrato il quinto anniversario della sua elezione pranzando con i cardinali e non, invece, aprendo con essi una formale e franca discussione su quella che lui stesso ha definito una Chiesa «ferita e peccatrice». Tuttavia, se (se) mancherà l’audacia in Vaticano, alta è la speranza che, nel corpo vivo della Chiesa cattolica, non mancheranno donne e uomini decisi a vivere un’ortoprassi più rispondente all’Evangelo. Come il prossimo 31 ottobre, data che ricorda la protesta di Martin Lutero del 1517, faranno a Roma centinaia di vittime delle violenze sessuali del clero, e quanti/e con loro alzeranno la voce per proporre la riforma della Chiesa romana.