Femminista a chi?

di Monica Lanfranco
da www.aprileonline.info, 10 maggio 2010

Non è da oggi che si indaga sull’impatto, la trasmissione e la sedimentazione del femminismo sulle giovani generazioni; le domande, (e l’angoscia per le temute risposte), scivolano di volta in volta da donna a donna quando le giovani che hanno incontrato i movimenti di emancipazione e liberazione diventano adulte, e poi anziane, e nel frattempo si guardano intorno, verificando i risultati e l’incarnazione delle proprie conquiste e convinzioni nelle figlie, nella sorelle minori, nelle allieve, nelle conoscenti e nella società tutta

Nel 1989, avevo appena compiuto trent’anni uscì il mio primo libro, Parole per giovani donne – 18 femministe parlano alle ragazze d’oggi, con postfazione di Lidia Menapace. Evidentemente già da allora, (sono passati vent’anni esatti), io che ero appena uscita dall’età della prima giovinezza sentivo il bisogno di fare il punto della situazione, e non sentendomi ancora in grado di offrire da sola una visuale critica precisa avevo rivolto una domanda a quelle che all’epoca erano state, in vario modo, delle figure di riferimento per me e per molte giovani donne della mia generazione.

La domanda, che avevo rivolto, tra le altre, a Tina Lagostena Bassi, Elena Gianini Belotti, Silvia Vegetti Finzi, Dacia Marain era:”Nei confronti delle giovani donne tu ti senti più una madre o una sorella maggiore”?

L’interrogazione che mi stava a cuore, dando per scontato che quelle donne avessero fatto della trasmissione del proprio vissuto personale e politico del femminismo uno dei fulcri della loro attività, non era se qualcosa fosse passato di generazione in generazione, ma il come. La mia convinzione era che fosse interessante e importante ragionare sulle modalità di passaggio del testimone del patrimonio politico e culturale del femminismo: di certo ero molto coinvolta in prima persona da quella domanda, essendo io stessa un po’ figlia e un po’ sorella minore di quelle donne e delle milioni di altre che mi avevano, senza che io le conoscessi, fornito strumenti di crescita, emancipazione, liberazione e autodeterminazione.

Quando, oggi come ieri, e come purtroppo anche domani, si inciampa nella banale giaculatoria del “non esiste più il movimento femminista di piazza”, oppure del “il femminismo è morto”, dobbiamo chiederci attentamente, credo, quale sia lo scopo di queste affermazioni.

Da una parte sarebbe assurdo non considerare la crisi, soprattutto italiana, delle pratiche e del pensiero dei partiti e dei movimenti per il cambiamento, che in questo nostro paese scontano in modo pesantissimo il perdurante consenso della cultura omologante, fondamentalista, semplificatoria e repressiva della destra.

In questo quadro spicca l’affermazione della giovane ex soubrette ed oggi ministra delle pari opportunità Carfagna che ha pubblicamente affermato che “c’è bisogno di più donne al lavoro e di meno femministe in tv”; proprio lei, che dalla sua presenza in tv ha guadagnato una posizione di potere e autorevolezza, veicola una visione antipatizzante del movimento delle donne, relegandolo ad una posizione di mera apparenza contrapposta al ‘fare’ di chi, dimenticando la fatica e le conquiste delle donne più anziane, le hanno spianato la strada al successo e alla visibilità.

C’è, indubbiamente, un forte elemento di ingratitudine e di ignoranza da parte delle giovani generazioni verso le precedenti, e in particolare delle giovani donne italiane verso quelle donne femministe che hanno preso parola, prima di loro, per se stesse ma anche per quelle che sarebbero venute dopo. Se, in parte, il rifiuto per l’ingombro delle anziane è fisiologico per la crescita, (ma non è giustificabile quando diventa disprezzo, smemoratezza e sottovalutazione) c’è però anche una necessità urgente di interrogarci e agire da parte di chi, oggi passata nella posizione di adulta dei riferimento, è potenziale fonte e risorsa.

Faccio un esempio pratico per spiegarmi meglio: di recente ho svolto per due anni una docenza all’università di Parma, pagata malissimo e quindi decisa perché, se non opportuna per la mia situazione economica, mi è sembrata una occasione per fare attivismo culturale e politico.

E questo è stato: nella generale assenza di luoghi collettivi grandi e riconoscibili dove la teoria e la pratica del femminismo potesse arrivare a molte giovani donne e qualche giovane uomo ho colto l’occasione e ho trasformato le lezioni e gli spazi che avevo in una piccola agorà di trasmissione, nell’ambito del mio corso, di saperi e pratiche femministe. Fare vivere il femminismo per me ha significato dare corpo e parola al mio essere femminista.

Sono più che sicura che, se avessi domandato alle ragazze del corso cosa pensavano del femminismo (e lo abbiamo fatto come Marea, con un piccolo video disponibile in rete al sito http://www.mareaoline.it e su http://www.arcoiris.tv ) le risposte sarebbero state generiche, forse anche deludenti e di scantonamento e sottrazione. La cultura nella quale la maggiorparte di loro è cresciuta ha raccontato il femminismo in modo distorto, o caricaturale, o semplicemente l’ha rimosso.

Come ho detto, in parte questo è il risultato di una mutazione antropologica e politica nella quale sono venuti meno ancoraggi e riferimenti essenziali per la costruzione del senso e del valore della politica.

Tuttavia non condivido affermazioni funeree circa lo stato di salute dei movimenti delle donne; credo, molto semplicemente, che si sia dato per scontato che il processo di coscientizzazione si trasferisse per osmosi e che fosse stato sufficiente vincere sul piano legislativo su alcune questioni, pur importanti, perché le nuove generazioni si riconoscessero nelle precedenti, e, ancora più importante, accettassero il testimone.

Sono anche convinta che pezzi del femminismo italiano abbiano smesso di parlare con la società e con le giovani generazioni, svolgendo un lavoro teorico apprezzabile ma di scarso impatto e comunicazione allargata; il pericolo della omogeneizzazione e del ritorno al neutro imperante (anche nei movimenti altermondialisti è sempre in agguato, e sta a noi femministe con qualche capello bianco incipiente attivare ogni possibile risorsa, individuale e collettiva, per continuare (o ritornare) a parlare con le e i giovani, con la società, ridando attualità ed eros al femminismo.

Non basta la soggettività femminile a fare delle donne soggetti capaci ci autodeterminazione e di cambiamento: anche la giovane ministra ex soubrette o quella post fascista alla gioventù a buon titolo e diritto hanno potere, soggettività e visibilità: Il problema è: era questa la soggettività che desideravamo costruire quando criticavamo le strutture patriarcali della società, dei partiti, dei sindacati e dei movimenti sociali tre, quattro decenni orsono?

Una cosa è certa: non bastano né sono sufficienti, per dare da soli la misura della diffusione e della sedimentazione della coscienza di genere né le manifestazioni di piazza né i centri di studio; quello che penso è che, per la sua originalità e la sua inscindibile qualità di movimento che nasce dall’intreccio fra pratica e teoria (il personale è politico) il femminismo si possa trasmettere se resta viva e vivace la trasmissione, anche conflittuale, che le donne singole e i gruppi sanno alimentare nella relazione con le altre, mettendo al centro, anche nei movimenti misti, il conflitto di genere. Altrimenti come potranno le giovani donne e i giovani uomini ‘imparare’ il femminismo e poi assumerlo senza averne fatto esperienza diretta?

Come nell’utopico Farenheit 451, questa, pur se faticosa e a tratti dolorosa, è la fase della ricostruzione dentro l’uragano della dittatura totalitarista: mi sento molto simile alle donne e agli uomini libro, che si assumevano l’impegno, per le generazioni future, di imparare a memoria un testo per trasmetterlo, nell’impossibilità di poterlo far leggere. Siamo, anche noi stesse, frammenti vivi e palpitanti di storia. Questo, anche questo, è femminismo. Questo, anche questo, è memoria da raccontare a chi viene dopo di noi.

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Noi e loro: una proposta per il dialogo tra generazioni

di Monica Lanfranco
da www.womenews.net

Non c’è iniziativa promossa da gruppi di donne nella quale non si affronti il delicato tema della scarsa presenza di giovani: anche nelle occasioni più partecipate c’è sempre qualcuna che evidenzia il problema con l’annosa domanda: ”Dove sono le giovani?” e anche “Come facciamo a coinvolgere le nuove generazioni?”

Un flashback: prima della tre giorni femminista PuntoG, nel giugno del 2001, nel mondo dei movimenti delle donne che lavoravano dentro e fuori del Genoa Social Forum ci fu un conflitto importante e significativo.
All’epoca ero una delle portavoce del Gsf e più si avvicinava luglio più si infiammava il dibattito dentro e fuori i luoghi dove si stava organizzando e decidendo il da farsi per l’imminenza della settimana di dibattiti, incontri e manifestazioni a ridosso del G8 di Genova.

Intorno a maggio una componente del Gsf, quella della Tute bianche, senza avvertire gli altri gruppi uscì a sorpresa con un comunicato e una conferenza stampa, effettuata con i volti coperti, nel quale si dichiarava ‘guerra al g8’e si annunciava che si sarebbe violata con ogni mezzo la zona rossa imposta a Genova.
La dichiarazione di guerra era ovviamente una provocazione tutta giocata sulla volontà di attirare l’attenzione dei media, un proclama tipo ‘guerra alla guerra’, e il fatto suscitò una grande irritazione da parte delle componenti esplicitamente nonviolenta del Gsf, tra cui la componente femminista.

La nostra critica più evidente e marcata era sull’uso clamorosamente contraddittorio e controproducente di un linguaggio aggressivo e militaresco, che in un colpo solo, a scopo propagandistico e autoreferenziale, faceva arretrare l’immagine dei movimenti che, proprio grazie al lavoro di mesi delle femministe e della componente nonviolenta aveva cercato di guadagnare l’attenzione dell’opinione pubblica sui contenuti e sulle pratiche pacifiche e altre rispetto alla violenza del G8.

Alcune giovani donne che stavano nel gruppo delle Tute Bianche mi contattarono, subito dopo un nostro duro comunicato nel quale ci dissociavamo come femministe da quella iniziativa e, appunto, dal linguaggio adoperato: allora come ora pensavamo che è necessario, nel cambiamento, partire da un linguaggio smilitarizzato, perché, per dirla con le parole di Audre Lorde “non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”.

Le giovani vivevano una forte contraddizione e un imbarazzo dal quale non sapevano come uscire: si sentivano in sintonia con le nostre affermazioni, ma dall’altra parte, con candore e franchezza, ci dissero che aveva difficoltà ad aderire al nostro comunicato perché i loro compagni maschi avrebbero preso male una dissociazione e una critica.

Alcune di noi ‘sorelle maggiori’ si irritarono, non senza motivo, di fronte a questo problema, e liquidarono la questione sostenendo che le giovani dovevano da sole curarsi il mal di pancia politico e prendere una decisione.
Io con alcune altre decisi di convocare una riunione con le ragazze e offrii loro una mediazione: avremmo fatto assieme un documento contro il militarismo dentro e fuori i movimenti che potesse essere condiviso da tutte noi, in modo da rafforzare anche la loro presenza dentro il gruppo misto delle Tute Bianche, ovviamente monopolizzato e diretto da maschi.

Andammo quindi noi, le maggiori, verso di loro, e riuscimmo insieme a scrivere un testo che soddisfò le diverse esigenze. Una buona mediazione, ma soprattutto un gesto di responsabilità che metteva al centro la relazione tra donne di diverse generazioni, e le chiamava al confronto a partire dai loro luoghi, senza immediatamente chiedere loro di schierarsi da una parte.
Non fu facile, ma pagò.

Ho fatto questo esempio di pratica di mediazione perché credo che oggi, a pochi anni di distanza dal 2001 ma in una realtà che a volte appare lontana in modo siderale da allora, tocchi nuovamente a noi ‘maggiori’ fare un primo passo verso le giovani donne (e uomini) per riprendere il filo del dialogo e della trasmissione dei valori, dei contenuti e delle pratiche del femminismo.

Non c’è iniziativa promossa da gruppi di donne nella quale non si affronti il delicato tema della scarsa presenza di giovani: anche nelle occasioni più partecipate c’è sempre qualcuna che evidenzia il problema con l’annosa domanda: ”Dove sono le giovani?” e anche “Come facciamo a coinvolgere le nuove generazioni?”.

Ovviamente non c’è solo una risposta, ma intanto ecco la mia: ”Andiamo noi da loro”. Personalmente e collettivamente lo faccio, per esempio, da 15 anni attraverso la rivista Marea, e ultimamente con il libro Letteralmente femminista.
Penso che in questo momento di grande difficoltà per la civiltà dei diritti di genere e della democrazia in generale ci siano, per paradosso, degli spazi che si aprono per ricominciare con un’azione incisiva di rialfabetizzazione alla politica delle donne.

Una grossa occasione ce la offre l’attacco frontale e violento all’autodeterminazione in tema di scelte riproduttive: in agguato, dietro alle difficoltà per l’introduzione della pillola Ru486, c’è come di consueto la guerra contro la legge 194.

Se è vero che alle iniziative che si stanno intensificando in tutta Italia in difesa dell’autodeterminazione le giovani donne non sono la maggioranza, e se è vero che ancora una volta sono le donne più adulte a muoversi e ad essere in prima fila nella difesa dei diritti di genere, perché, invece che continuare a lamentare la giusta preoccupazione per l’assenza delle ragazze non prendere l’iniziativa e proporci loro come interlocutrici nomadi e andare dove le giovani si trovano, ovvero nelle scuole, nelle università, nei centri sociali, nelle associazioni dove in tante le ragazze e le giovani donne si impegnano spesso senza attenzione alla differenza di genere?

Nel primo femminismo le studentesse, le giovani fortunate a poter studiare e quindi maggiormente stimolate nella presa di coscienza della discriminazione e della segregazione sessista si muovevano e incontravano le donne meno fortunate: andavano nelle borgate e nei quartieri popolari e parlavano di contraccezione, di autovisita, di sessualità e di violenza.

Nei paesi in via di sviluppo, e dove governano regimi autoritari e fondamentalisti si sta facendo la stessa cosa adesso: perché non provare a organizzare piccoli gruppi di femministe di varie età che si rendono disponibili a andare a incontrare nei loro luoghi le giovani donne?

L’autorevolezza delle donne, che nel movimento femminista è stata a lungo teorizzata e discussa, credo si manifesti anche in questo delicato momento di passaggio del testimone che necessita di visibilità delle nostre parole e delle nostre pratiche, e possa prendere anche la forma di offerta di interlocuzione attraverso la narrazione della storia, individuale e collettiva, che ciascuna di noi porta con sé.

Se non proveremo a rintracciare le nostre interlocutrici anche superando qualche ostacolo di comunicazione, se le giovani donne non ci troveranno, a noi sorelle maggiori, madri e nonne simboliche, pronte e disponibili ad dialogo e al conflitto con loro credo che rischieremo di perdere una importante occasione.